Come è noto, il nostro Paese è ricco di storia, di cultura, di arte, di tradizioni che ci hanno lasciato le generazioni che si sono succedute nel corso dei secoli. Il Padreterno ci ha regalato un territorio di incomparabile bellezza che, tra parentesi, siamo fortemente impegnati a mortificare. Tuttavia, è un Paese che non ha mai posseduto materie prime, delle quali sono ricche, invece, altre nazioni.
Proprio questa mancanza ci ha spinto a dedicarci, nel corso dei secoli, alla lavorazione e alla trasformazione di ciò che eravamo costretti a importare: le materie prime, appunto.
Così, siamo diventati eccellenti artigiani, invidiati designer, grandi artisti, inventori, commercianti e scopritori di nuove frontiere. Insomma, la povertà di materie prime ci ha spinto a sviluppare il genio, la creatività, la fantasia.
In mancanza di fonti energetiche rilevanti e di materie prime, la manifattura italiana ha fatto, nel Dopoguerra, passi da gigante, trasformando un Paese povero in una delle prime dieci potenze economiche mondiali. Oggi, all’estero ciò che è chiaramente italiano, soprattutto quando ha una diffusione e un successo planetario, viene assunto come “proprio”.
Gli americani sono convinti che la pizza sia una loro specialità, i tedeschi sono convinti che il motore a scoppio sia stato inventato in Germania e i francesi che la Nutella sia un tipico prodotto francese. E poiché in molti settori siamo diventati i più bravi al mondo, veniamo spesso copiati e dobbiamo combattere contro le imitazioni delle nostre migliori produzioni.
Si può dunque affermare, alla luce della crescita esponenziale dell’immagine del Made in Italy, che il mondo esprime una notevole “fame” di Italia. E tutto ciò è confermato dalla diffusione continua dell’Italian Sounding, cioè la falsificazione e vendita delle nostre produzioni migliori e, nello stesso tempo, del numero degli acquisti di aziende e marchi italiani da parte di società straniere.
Si calcola che l’Italian Sounding produca un giro d’affari di almeno 60 mld di euro l’anno. In molti casi sono organizzazioni straniere ad essere impegnate nella falsificazione a nostro danno ma, spesso, anche se le basi sono all’estero, sono proprio le organizzazioni italiane a gestire la danza.
Mentre l’acquisto, attraverso società di copertura, dei nostri marchi e delle nostre aziende nasconde operazioni di riciclaggio se si considerano i numerosi passaggi di acquisto, vendita, riacquisto ai quali tante aziende italiane sono state sottoposte. E, in particolar modo, le aziende e i marchi delle nostre tradizioni agroalimentari.
Nel corso di questi ultimi decenni, insieme all’arte, alla cultura e alle bellezze naturali, il cibo italiano ha conquistato le vette delle classifiche mondiali e lo sviluppo delle produzioni della filiera agroalimentare assicura al Paese 274 mld di euro e occupa due milioni e mezzo di persone. Dal che deriva con evidenza che questo settore è uno dei principali motori dell’economia nazionale. Come si sa, le organizzazioni criminali, e le mafie in particolare, hanno un’innata vocazione economica: di conseguenza, la ricchezza che si produce in questo settore non poteva sfuggire alle loro attenzioni che un tempo di limitavano alla gestione del caporalato, all’abigeato e alla macellazione clandestina, al furto di attrezzature agricole o all’usura quando l’agricoltura in difficoltà non riusciva ad ottenere credito dalle banche.
Nel tempo, grazie anche ai passaggi generazionali all’interno delle organizzazioni criminali, si è assistito a profonde mutazioni delle vocazioni mafiose. L’interesse e le sfere di attività si sono allargati enormemente occupando e ipotecando tutte le articolazioni dei percorsi di produzione, raccolta, trasporto, gestione dei centri di raccolta e smistamento, delle reti di vendita al pubblico. Secondo i nostri calcoli, il giro d’affari delle agromafie si aggira ormai intorno ai 25 mld di euro l’anno.
Nello stesso tempo, assistiamo alla progressiva trasformazione non solo del modus operandi ma – per certi profili – della stessa identità delle organizzazioni mafiose e dobbiamo quindi adeguare i nostri stessi modelli di lettura dei fenomeni in modo da migliorare in chiave preventiva e repressiva le modalità di contrasto. San Tommaso diceva che «la forma è parte integrante della sostanza»: vale a dire che, se vogliamo cogliere la sostanza, dobbiamo coltivare l’interesse sulla forma stessa.
Ora, accanto alle vecchie modalità operative se ne registrano di significativamente nuove. Per esempio, espresse da quella che Gian Carlo Caselli ha definito “mafia silente”. Una mafia che esprime una straordinaria capacità di mimetizzazione, soprattutto quando i mafiosi lasciano i loro territori di origine per trapiantarsi altrove. È una mafia, quella di oggi, che non spara ma corrompe e compra aziende o pezzi della politica e delle Istituzioni, che si è fatta sistema nel sistema, che alleva e inserisce i propri uomini nelle banche o nei grandi fondi internazionali. Colletti bianchi che siedono in importanti consigli di amministrazione, che spostano capitali enormi da un capo all’altro del mondo in pochi secondi. La mafia 3.0 è una realtà, il prodotto della finanziarizzazione dell’economia e della globalizzazione. Inseguiamo i caporali e non ci accorgiamo che la mafia vera è quella che interviene nello stesso meccanismo di formazione dei prezzi e che si pone come soggetto autorevole di intermediazione tra i luoghi della produzione e il consumo, assumendo l’identità di un centro autonomo di potere.
In conclusione, un sistema criminale sempre più raffinato e pervasivo che minaccia e sfida i valori civili e le regole del libero mercato. E tutto ciò si traduce in una perdita di sicurezza sociale dei cittadini e in un impoverimento dei territori.