
L’entusiasmo che sta accompagnando e per molti aspetti ha anticipato la manovra Bce del quantitative easing, che esordisce questa settimana, ha fondata ragion d’essere. Legittimamente si è brindato alla parziale sconfitta della Bundesbank che si era opposta fieramente a Draghi, riuscendo a rallentare di almeno 6 mesi l’iniziativa, e conseguentemente oggi si saluta la mezza vittoria di una Banca Europea che si accolla pur parzialmente (20%) i rischi dei debiti nazionali: la Bce non diventa, certo, la Federal Reserve o la Banca centrale giapponese, ma appare l’unica istituzione Ue che mostra di perseguire una visione politica di sviluppo.
Politica monetaria, certo, ma è già qualcosa, in presenza di una costruzione europea quasi del tutto assente nell’affrontare 5 anni di crisi, irretita da veti nazionali e dalle farraginosità dei rapporti tra Commissione e governi “che contano”, il tutto innaffiato da dosi industriali di regolamenti varati anni ed anni prima della crisi. Paradossalmente va segnalato che Draghi “ce l’ha fatta” solo grazie alla funzione specifica che statutariamente l’Unione affida alla sua banca: quella di controllare l’euro-inflazione e, di questi tempi, intervenire contro la deflazione. Fedele ai regolamenti, ha potuto così dribblare i tanti “no” che i paesi del Nord hanno frapposto a una visione meno miope e più solidale dell’economia e della finanza del Vecchio Continente.
Il bazooka della Bce, i 60 miliardi di titoli pubblici che verranno acquistati ogni mese almeno fino al settembre 2016, prima ancora di essere munizionato negli ultimi mesi ha ottenuto l’effetto di far scendere l’euro del 20% in rapporto al dollaro, con evidenti benefici per le economie continentali che esportano (soprattutto Germania e Italia), e se si considera la discesa del prezzo del barile di petrolio, quasi dimezzato nel corso del 2014, anche i paesi più deboli dell’eurozona dovrebbero intravedere un futuro quanto meno roseo. Gli analisti ritengono che ulteriori effetti positivi del quantitative easing dovrebbero vedersi in estate, quando il volume di acquisti della Bce avrà superato i 200 miliardi: maggiori opportunità di ottenere finanziamenti bancari per famiglie e aziende, ulteriore calo dei tassi sui debiti, inizio dell’inversione di tendenza nei prezzi al consumo e nei servizi.
In un clima di diffuso ottimismo il dossier ancora aperto e di difficile soluzione tra Bruxelles e Atene, che in altri tempi avrebbe gelato i mercati, in queste settimane sembra sia stato messo “tra parentesi” dal mondo finanziario, fino a rendere la drammatica situazione greca apparentemente ininfluente.
Il contributo più rilevante che l’Italia ha dato a questa fase auspicabilmente nuova e più dinamica sta forse proprio nei “natali” di Super Mario e nella determinazione con cui l’ex Governatore della Banca d’Italia (2005-2011) ha occupato la poltrona di Francoforte. Negli ultimi 3 anni, poi, mentre i dati del Pil e della disoccupazione sono inesorabilmente peggiorati (e gli italiani se ne sono accorti), le finanze pubbliche si sono assestate fino al punto in cui il combinato-disposto dei conti più in ordine e dell’azione di Draghi ha permesso la discesa dello spread sotto quota 100, ai livelli della primavera 2010.
I miliardi risparmiati sul finanziamento del debito rappresentano una dote che nel 2015 dovremmo far fruttare, completando il programma di riforme che generano molte tensioni domestiche, ma ricevono apprezzamento quasi unanime dai mercati e dalle Istituzioni internazionali. Alcuni osservatori parlano di “fortuna” che accompagnerebbe Renzi agli esordi del secondo anno di governo. Altri giungono ad affermare che, considerando tutti i fattori positivi di base, l’Italia sarebbe “obbligata” ad innescare la crescita. Dal punto di vista dell’analisi economica non si spiegherebbe il contrario. Anche per questo “gufare” non sarebbe più di moda, ma non è da escludere che qualcuno a Palazzo Chigi faccia ricorso a sobri riti scaramantici.