Scrivere di un testo intelligente e divertente come quello di Stefano Bartezzaghi sulla Banalità (edizione Bompiani) senza incorrere in banalità e luoghi comuni non è cosa facile ma, se serve a informare ed a incoraggiare alla sua lettura, correrò volentieri il rischio. Inizio subito col dire quale sia l’approccio dell’autore, in modo da evitare fraintendimenti: «Conviene cercare di avere un buon rapporto con la banalità – dice Bartezzaghi ‒ nostra personale e altrui. Come accade con le persone. E per farlo occorre guardarla in faccia, conoscerla, rivolgersi a lei con schiettezza. Facciamoci amica la banalità. Quantomeno ci distingueremo dal gregge che intende scansarla». Ma cosa si intende veramente con il termine “banalità”.
A pagina 24 del testo, la spiegazione: «Il Ban è il villaggio, il feudo e il “bando” è ciò che viene annunciato a tutto il villaggio: e quindi il “banale” è ciò che nel villaggio tutti conoscono. La parola “banalità” si è iniziata ad usare innanzitutto in lingua francese, nell’ambiente giornalistico. E proprio il giornalismo delinea con evidenza il percorso di produzione della banalità: esiste una fonte, e da questa nasce un elemento “originale”, ovvero qualcosa che nessuno ancora conosce; per il giornalismo una notizia….
Il giornale del giorno prima non è interessante poiché contiene notizie che, nel frattempo, tutti hanno saputo e che, quindi, sono diventate di dominio del villaggio, “banali”. La seconda avvertenza che ci viene data dall’autore, riguarda i social media e in questo caso l’autore è molto chiaro e netto: «Non dico che la banalità contemporanea sia tutta nei social network, né che tutto ciò che è nei social network sia banale: dico che essi costituiscono un buon campo per la sua osservazione».
Cerchiamo tutti di essere originali, di distinguerci dalla massa, di non dire o di non scrivere cose banali, ovvie, scontate, risapute o di dominio pubblico e a volte pensiamo di aggiungervi frammenti di assoluta novità e ciò accade soprattutto quando esprimiamo giudizi su argomenti che non conosciamo, sui quali non abbiamo alcuna competenza. Ma veniamo puniti dall’effetto Dunning-Kruger: «È quello che spiega ‒ scrive Bartezzaghi ‒ come le competenze, che servono per giudicare a proposito di una materia, siano le medesime necessarie per conoscerla: di conseguenza, meno so (di meccanica quantistica, opera lirica, linguistica dell’italiano, cucina vegetariana) meno sono consapevole di non essere titolato a giudicare in merito». Quello che manca ‒ verrebbe da dire ‒ è il socratico “so di non sapere”. È l’epoca ideale per il fiorire delle banalità, che possono correre e proliferare alla velocità della luce. «A impersonare il nostro destino ‒ si legge nel libro ‒ però non è più l’angelo della Morte, bensì il demonio della Banalità» che ci aspetta ad ogni bivio.
«La banalità è sintomo di non comunicazione ‒ asseriva Eugene Ionesco ‒ e l’uomo si nasconde dietro i suoi cliché, perché in realtà accade che si preferisca nascondersi, utilizzare delle scorciatoie, percorrere dei sentieri già battuti piuttosto che aprire nuove strade; ed è in quel preciso momento che si diviene banali, noiosi, perdendo quella unicità che ci appartiene e che abbiamo in fin dei conti coltivato per barattarla con qualcosa di comune e poco interessante. Rifugiarsi nel già detto e conosciuto, nell’opinione scontata e spesso incompetente, significa in realtà perdersi e perdere qualcosa di importante».
Stefano Bartezzaghi (Milano, 1962) è docente di Semiotica e di Teorie della Creatività alla Iulm di Milano; collabora con La Repubblica e dirige Il senso del ridicolo, festival di Livorno sull’umorismo. Ha pubblicato diverse raccolte di giochi linguistici, enigmistici e letterari e ha scritto la prima storia del cruciverba, L’orizzonte verticale (2007). Ha curato e commentato la nuova edizione degli Esercizi di stile di Raymond Queneau nella classica traduzione di Umberto Eco (2001). Fra i suoi libri più recenti ricordiamo Dando buca a Godot. Giochi insonni di personaggi in cerca di autore (2012), Anche meno. Viaggio nell’italiano low cost (2013), M. Une metronovela (2015) e la Ludoteca di Babele. Dal dado ai social network: a che gioco stiamo giocando? (2016). Da Bompiani ha pubblicato Parole in gioco. Per una semiotica del gioco linguistico (2017)