Dopo i difficili mesi di lockdown e la cauta lenta ripresa dell’estate, l’Europa si prepara ad affrontare un autunno carico di incognite. La prima, di questi giorni, è sicuramente la scuola, soprattutto per Spagna e Italia, due paesi che aspettano da marzo di riportare studenti e insegnanti in classe. Ma in termini di numeri la situazione dei due paesi, allo stato attuale, risulta differente: la Spagna ha chiuso la scorsa settimana (7-11 settembre) con più di 67 mila nuovi positivi al Pcr, mentre in Italia i numeri sono decisamente più contenuti. Basti pensare che, partendo da situazioni simili nel pieno della pandemia, attualmente i casi totali di contagio registrati in Italia si aggirano intorno ai 300 mila, mentre la Spagna è il paese con più contagi in Europa, con più di 600 mila casi confermati ad oggi. È chiaro che ad un certo punto la strategia di contrasto al virus deve aver preso due strade differenti nell’uno e nell’altro paese, soprattutto nelle attività di screening e contact tracing, sebbene molti esperti, in questa fase, pongano l’accento soprattutto sui comportamenti individuali e sociali insieme alle misure imposte dall’alto. Sorprende ancora di più questo scatto in avanti dei numeri in Spagna, visto che le abitudini e i costumi sociali non sono così diversi tra i due paesi: il contatto fisico, la socialità, le relazioni intergenerazionali all’interno della famiglia. Per alcune settimane, i media italiani si sono chiesti addirittura perché i numeri qui fossero favorevoli rispetto al resto d’Europa, definendo l’Italia “circondata” dai dati in crescita di altri paesi.
Non è da trascurare l’aspetto mediatico della vicenda, ovvero come i media dei due paesi hanno raccontato la pandemia, che taglio hanno scelto di dare agli eventi di questi mesi. È iconica e incisa nella memoria collettiva l’immagine del 21 marzo scorso: le bare accatastate e portate via dall’Esercito nella provincia di Bergamo, uno dei messaggi mediaticamente più efficaci e incisivi di questi mesi. Allo stesso tempo, tutti i principali media italiani, soprattutto nella sezione online (Corriere della Sera, la Repubblica, Il Messaggero, Ansa, ecc.) riportano da mesi, quotidianamente, una puntuale informazione sulla progressione della pandemia, ponendola sempre in primo piano in coincidenza con il bollettino ufficiale della Protezione Civile. Basta collegarsi a un qualsiasi quotidiano italiano online intorno alle 18 per essere aggiornati sulla situazione: la notizia occupa una porzione visibile e in evidenza della pagina web, come fosse un costante promemoria. Allo stesso modo, la cronaca dei focolai nella movida della Costa Smeralda ha avuto grande rilievo sui media tra la fine di agosto e i primi giorni di settembre. In linea di massima, la narrazione mediatica della pandemia in Italia è stata, ed è tuttora, costante e prioritaria, aiutata da immagini segnanti ed emblematiche che hanno fatto il giro del mondo (le succitate bare della provincia bergamasca, l’infermiera stremata che si addormenta alla fine del turno).
Di Madrid ricordiamo la drammatica notizia del Palazzo di ghiaccio convertito a obitorio, o i malati di Covid19 arrangiati su barelle e giacigli di fortuna lungo il corridoio di un ospedale troppo pieno e decisamente in difficoltà, ma questo frammento di cronaca sanitaria non ha avuto lo stesso rilievo e la stessa potenza narrativa delle bare di Bergamo. Inoltre, dalla fine del confinamento in Spagna, i media si sono occupati sempre meno dei bollettini quotidiani sulla progressione della pandemia, dedicandole spazi risicati o poco incisivi, dall’impatto forse più debole sulla coscienza collettiva. Un esempio: la Spagna viaggia da settimane su un numero di nuovi positivi che oscilla tra gli 8 mila e i 10 mila al giorno, e la notizia non è riportata con toni prioritari o allarmistici dai principali quotidiani; l’informazione si concentra più sulle misure dei governi locali che sui numeri, ovvero sui divieti piuttosto che sul pessimismo. Gli stessi numeri, sui quotidiani italiani, avrebbero probabilmente avuto un rilievo molto differente (tanto da essere stati accusati spesso di catastrofismo).
Procedendo a un’analisi qualitativa delle prime pagine di El Paìs e del Corriere della Sera, due testate di primo piano per diffusione, confermiamo quanto osservato per il settore dell’online. Dal 1° al 18 settembre, il Corriere della Sera ha dedicato all’informazione sul Covid ben 14 aperture, di cui 8 riguardanti il tema della ripresa delle attività scolastiche e 3 all’illustre contagio di Silvio Berlusconi; in prima pagina, sebbene non in apertura, altri 7 articoli hanno parlato di questioni inerenti la pandemia in corso, tra cui il vaccino e due editoriali. El Paìs, nello stesso periodo, ha dedicato allo stesso tema 4 aperture, di cui una sulla ripartenza delle scuole e una lettura politica degli eventi, ovvero le conseguenze della pandemia sugli equilibri di governo. In prima pagina sono comparsi 12 articoli sulla pandemia, di cui 2 dedicati alla scuola e 6 alle misure messe in atto per contenere il contagio, mentre un tema più volte ripreso è stato il complicato rapporto emerso, nel corso dell’emergenza, tra autonomie e governo centrale. In totale, il Corriere della Sera concentra l’informazione sulla pandemia in 21 articoli di prima pagina con 14 aperture, mentre El Paìs vi dedica 16 articoli con 4 aperture in tutto.
Può avere influito, la narrazione mediatica, sulla percezione collettiva del virus? Manteniamo alta la guardia dei nostri comportamenti individuali anche grazie ai media?
Non si discute, qui, l’opportunità o la validità dell’allarmismo mediatico rispetto a un’informazione più pacata e di basso profilo sulla pandemia. Si tratta di una ennesima riflessione sull’impatto – e dunque sulla responsabilità – della narrazione che si sceglie.