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Per una Politica dei miei Stivali …cioè, no, delle mie Scarpe

di
Alberto Mattiacci

Mattino, di un martedì qualsiasi. Fuori piove e, dentro, io sono in attesa di un caffè. Lascio che il mio sguardo scenda lungo le mie gambe. Arriva ai piedi: ci sono due scarpe. Non le ho mai guardate così attentamente ma oggi è una giornata speciale per le mie scarpe: se lo meritano. Oggi, infatti, sono tornate a casa. Le ho riportate dove sono nate.
Sono quasi emozionato per loro.

La casa delle mie scarpe è in Italia, più precisamente nel mezzo della Penisola; un po’ sulla destra, nei pressi della costa adriatica. L’indirizzo è Montegranaro. So bene che questo nome, ai più, non dirà nulla. Forse citando Fermo, o Sant’Elpidio, qualcuno localizzerà meglio il luogo.
Con Macerata, però, sicuramente ci tiriamo d’impaccio e capiamo grossomodo di quale parte d’Italia stiamo parlando.

In questo pezzo di Paese, vive e prospera(va) un particolare tipo di posto, fatto di capannoni industriali, bar e ristoranti, case e botteghe, sane rivalità e imprenditori con la valigia sempre pronta. Gente, per capirci, che, di mondo ne ha visto, eccome, anche se vive a Montegranaro; un posto che la maggior parte di noi fatica anche a tenere a mente: «Nella mia vita ho consumato otto passaporti, a forza di girare a far vedere i miei campionari», mi ha detto uno di loro, che può insegnarmi geografia e, forse, anche un po’ di antropologia.

Questo tipo di posto si chiama distretto manifatturiero ed è una delle cose per le quali il nostro Paese non è un posto qualsiasi di questo pianeta.

Il distretto da cui le mie scarpe provengono è piuttosto esteso e popolato da una grande quantità di piccole imprese, qualche media realtà e pochissimi grandi – e molto noti – protagonisti dell’industria calzaturiera.
Le mie scarpe di pelle sono uscite da una di queste fabbriche, e non necessariamente solo da una: magari le tomaie sono state realizzate in quella via alberata, poi portate in questo grande stabilimento dagli esterni molto ben curati e montate su una suola realizzata da qualcuno, lassù, in collina. Chissà, forse a lucidarle e metterle in bell’ordine nella scatola è stato proprio questo marcantonio che sta bevendosi una grappa accanto a me, sul bancone del bar, dietro al quale stanno appiccicate decine di foto di personaggi famosi sorridenti, ciascuno con in mano delle belle scarpe.

Vado col pensiero ai miei studi universitari: Beccattini e Lorenzoni, due eminenti studiosi italiani che hanno illustrato al mondo – e, in particolare, agli americani ‒ le virtù di un sistema di specializzazione produttiva territoriale di micro, piccole e medie realtà. Ricordo anche un passaggio della ricerca che condussi per la mia tesi di laurea – era sull’alto di gamma del Made in Italy ‒ in cui mi si parlava di RadioScarpa ‒ intendendo quel fenomeno per cui, all’interno di un distretto, le informazioni sul mercato, sulla concorrenza, sulle tendenze di domanda, passavano fra gli imprenditori assieme allo zucchero per il caffè al bar, o assieme al sale fra i commensali della stessa trattoria. Ricordo, poi, il grande scalpore suscitato dal fatto che uno dei consulenti economici di Bill Clinton citasse i distretti italiani come modello da imitare. Era il 1997 e sembra un secolo fa.

Già, perché molti dei distretti italiani, oggi, vivono i morsi di una crisi industriale fortissima, forse senza precedenti.
Vediamo le scarpe. I dati ci dicono che, in Italia, appena 15 anni fa si producevano 530 milioni di paia di scarpe. A fine 2018 se ne contavano appena 187 milioni. Gli stessi dati (la fonte è Confindustria) ci dicono che dai 153mila addetti di 15 anni fa si è arrivati ai 77mila di oggi: meno della metà.
Quando piove, l’acqua bagna tutto, anche Montegranaro, che pure è popolata di imprenditori che non si piangono addosso e, anzi, s’impegnano con ancora maggiore determinazione alla ricerca di una via per darsi e dare futuro.
Cosa è successo? Com’è stato possibile tutto ciò? Le ragioni sono numerose, ovviamente, e maturate per lunghi anni: nessuna crisi di sistema è improvvisa; i prodromi ci sono sempre, a volerli riconoscere. Anche le vie di uscita da una crisi del genere ci sono ma sono sempre articolate e richiedono tempo, risorse e nervi saldi.

In ogni caso, ci sono almeno tre buone ragioni per cui noi italiani dobbiamo curarci dei distretti, fare il tifo per loro, pretendere dai governanti la massima disponibilità, attenzione e impegno a loro favore. La prima è economica: i distretti sono ricchezza economico-finanziaria e della migliore, quella che viene dall’export. La seconda è sociale: una piccola impresa è anche una rete di legami affettivi, profondi e ogni rete di piccole imprese sul territorio è essa stessa comunità, solida e durevole. La terza è culturale: l’Italia ha storia collettiva e storie locali che si esprimono in una cultura del “bello, del buono e del ben fatto”, assolutamente unica. Di questa cultura siamo consapevoli già dal 1200: fatti non foste a viver come bruti, ammoniva Dante Alighieri.
Tre ragioni, insomma, perché la Politica, sì quella con la P alta, non quella minuscola di propaganda, si occupi delle mie scarpe. E dia loro la possibilità di avere molte, belle, sorelle minori, per tanti anni a venire.

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