Riders, emblema del futuro del lavoro: dettato dagli algoritmi

Senza un mercato del lavoro equo non c’è progresso

Il lavoro costituisce, in una società democratica, uno degli strumenti fondamentali per il progresso civile ed economico di qualunque paese. Non può esserci infatti progresso senza un lavoro che garantisca la dignità di tutti coloro che prestano la loro opera e che non preveda un percorso di emancipazione dal bisogno, dallo sfruttamento, anche ambientale, e dalla violenza. Ciò vale soprattutto in una fase assai delicata come quella attuale, in cui gli effetti sociali ed economici della pandemia si associano a problematiche “storiche” come profonde disuguaglianza che amplificano la forbice e dunque la distanza tra i cittadini e, a volte, tra cittadini e Istituzioni. Quale progresso può esserci se il lavoro non produce emancipazione dallo stato di bisogno? Nella società dei working poor, della disoccupazione giovanile (la disoccupazione giovanile nell’Europa a 27 ha toccato il 16,1% mentre in Italia siamo al 32,2%) quale minaccia incombente sul futuro di tutti, con la crescita degli interessi criminali, spesso mafiosi, disuguaglianze crescenti e povertà endemiche sempre maggiori, mancare di riflettere su questi temi – proprio quando si è in procinto di investire i fondi del Recovery Fund – significa continuare lungo progettualità già note che spesso hanno determinato contraddizioni e speculazioni.

I paradossi dello smart working

L’Istat, ad esempio, pochi giorni prima del passaggio al nuovo anno, ha reso pubblico il suo ultimo rilevamento sullo stato del lavoro in Italia. Dati, informazioni e rilievi che mettono a fuoco aspetti contraddittori. Oltre 7 occupati su 10, per un totale di 16,6 milioni di lavoratori, secondo l’Istituto nazionale di statistica, infatti, non hanno la possibilità di decidere l’orario di inizio e/o fine della propria giornata lavorativa. Una costrizione che vale anche durante la fase pandemica, a dimostrazione di una lettura ancora non adeguata del lavoro da smart working. Per i lavoratori dipendenti l’orario è definito dal datore di lavoro mentre i vincoli che incontrano i lavoratori autonomi sono riferiti alle esigenze dei clienti o dalle norme. Sono vincoli che a volte fanno sovrapporre il tempo di lavoro da casa con quello familiare, a discapito spesso di quest’ultimo, con una crisi della relazione educativa con i figli che rischia di generare incomprensioni, deficit emotivi e problematiche relazionali ancora non adeguatamente comprese. Solo il 16,4% degli occupati italiani ha invece piena autonomia nella scelta e un ulteriore 12%, pur dichiarandosi autonomo, è soggetto ad alcune limitazioni.

Lavoro: le categorie meno tutelate restano le più svantaggiate

Ancora secondo l’Istat, i lavoratori dai 50 anni in su e quelli con titolo di studio elevato – le categorie tradizionalmente più forti nel mercato del lavoro – hanno maggiori margini di flessibilità oraria: più spesso degli altri lavoratori possono infatti decidere l’orario della giornata lavorativa e più facilmente possono accedere a permessi e a ferie, anche con breve preavviso. Più costrittive sarebbero invece le condizioni lavorative degli immigrati, dei giovani, delle donne e delle persone con un basso titolo di studio. Categorie tradizionalmente esposte alle fluttuazioni del mercato e del complesso degli interessi che lo ispirano, esse pagano un mercato del lavoro che resta segmentato con una sotto-organizzazione orientata ancora per classi sociali e nazionalità, tendenzialmente vocato a far svolgere, ai meno tutelati, lavori poco redditizi, socialmente poco prestigiosi, faticosi e pericolosi.

Riders, le prime vittime dell’occupazione schiava degli algoritmi

Dati che poggiano sulla punta di un iceberg alla deriva del quale si ignorano ancora la portata e la pericolosità. Investire denaro senza chiarire la direzione da prendere, soprattutto nella fase contingente, può risultare particolarmente pericoloso. Si pensi al lavoro dettato dagli algoritmi, di cui i riders sono oggi l’espressione più avanzata e con ogni probabilità, in un prossimo futuro, destinata largamente a diffondersi. Gli algoritmi estendono, come scrive Paolo Zellini nel suo saggio La dittatura del calcolo (2018), le funzioni rituali di controllo e di ripartizione dei numeri in modo da diventare inaccessibili, autoritari e categorici.

Gig economy e nuove frontiere del lavoro. Quali diritti per i riders?

Gig economy e nuove frontiere del lavoro. Quali diritti per i riders?

L’algoritmo impone un percorso, ritmi, distanze da colmare (quelle tra il rider e il consumatore) ed altre invece incolmabili (quelle tra il rider e il consumatore e il management dell’azienda che produce l’algoritmo e il bene da consegnare). Prendehttps://www.leurispes.it/gig-economy-e-nuove-frontiere-del-lavoro-quali-diritti-per-i-riders/ forma quello che il premio Nobel, Eugene Wigner, nel 1959 definiva «l’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali», ossia l’applicazione di un modello di calcolo a una massa di dati, fino a farne programmazione nella filiera del comando per la sua esecuzione entro range predeterminati. Una sorta di catena di montaggio 2.0. Senza l’emersione di diritti fondamentali, il rafforzamento di un percorso di emancipazione dalla subordinazione che i riders stanno tentando, e una normativa adeguata alla sfida posta, assisteremo, probabilmente, al consolidarsi di profonde ingiustizie e disuguaglianze, con l’amplificarsi di una ragionevole e radicale critica alla capacità della classe dirigente di promuovere l’interesse collettivo e non solo quello delle grandi piattaforme e aziende internazionali.

Quale sicurezza sul lavoro?

Si pensi ancora alla sicurezza sul lavoro. Ancora oggi, l’età media di chi perde la vita sul posto di lavoro, in Italia, è di 37 anni. Proprio la notte del 31 dicembre scorso, poche ore prima del brindisi casalingo degli italiani, un bracciante indiano di 57 anni è deceduto in provincia di Latina perché investito da un’auto mentre si muoveva con la sua bicicletta, probabilmente per tornare a casa. Tra le cause degli incidenti, in genere, l’eccessivo orario di lavoro, una precarietà ispirata da scarsa informazione, formazione e controllo, il lavoro nero, forme di ricatto che spingono i lavoratori a tacere quando l’organizzazione prevede di non considerare norme e misure di sicurezza come prioritarie, i vincoli normativi come quelli in capo ai lavoratori immigrati legati al rinnovo del permesso di soggiorno dipendente direttamente dalla loro attività lavorativa e dunque sostanzialmente indirizzati ad accettare qualunque condizione di lavoro pur di ricevere una busta paga. Sul finire dell’estate appena trascorsa, un lavoratore indiano è deceduto, ancora in provincia di Latina, perché precipitato dal tetto di una serra mentre era impiegato senza contratto e prescindendo dalle minime misure di sicurezza che anche il buonsenso imporrebbe. Insieme a queste tragedie si potrebbero ricordare, tra le molte, quella della ThyssenKrupp, della Umbria Olii, di Porto Marghera o dei molti cantieri edili dove, spesso, lavoratori non tutelati subiscono danni gravi, a volte mortali. Investire in sicurezza, legalità e trasparenza potrebbe essere l’indicatore di un cambiamento reale, utile al Paese, coerente con le istanze di sicurezza e giustizia che dovrebbero ispirare la produzione normativa, innescare un’azione collettiva volta a migliorare la produttività e non a farne motivo esclusivo di profitto.

Lavoro e tutele

Non può bastare, ma è utile ricordare – come ha fatto Carlo Smuraglia nel suo saggio V come valore lavoro (2020) nella collettanea Lavorare è una parola (2020) – che l’art. 1 della Carta Costituzionale è in chiara antitesi con qualunque idea, interesse o organizzazione del lavoro incentrata sulla prevaricazione, la subordinazione o l’omertà per volere imposto. Si ricorda anche l’art. 36, che prevede il concetto dell’equa retribuzione tale da garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa; l’art. 41 che subordina l’iniziativa economica privata all’utilità sociale e al rispetto della sicurezza e della libertà e dignità umana; l’art. 35 che assicura la tutela del lavoro in tutte le sue forme e infine, soprattutto, l’art. 3 che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.

Lavoro e povertà

Senza ripresa dell’occupazione, è evidente, non sarà possibile ridurre la povertà. Ma questo, come anche le grandi opere evocate sinora da un dibattito pubblico sul Recovery Fund piuttosto stantio, non sono sufficienti per consentire al Paese un avanzamento e una modernizzazione di cui ha urgente bisogno. Anche aumentando l’occupazione, infatti, non si determinerebbe in automatico la diminuzione delle povertà e delle disuguaglianze, né si supererebbero le frontiere del lavoro sommerso, sfruttato, forzato e della cosiddetta Gig Economy, o della crisi ecologica che ha investito il mondo intero. Occorre riportare il tema della giustizia sociale al centro dell’agenda politica nazionale, farne ragione di riflessione aperta e competente, qualificata e capace di offrire indirizzi e proposte precise, coerenti con i dettami fondamentali della Carta Costituzionale.

Il rischio è altrimenti che disuguaglianze, sfruttamento, un’organizzazione dei processi produttivi fondata sulla distanza, sulla non riconoscibilità e non vertenzialità, l’insicurezza che produce morte e nel contempo ignora la Costituzione italiana e i suoi princìpi fondamentali, diventino l’unico binario sul quale viaggia il Paese, premessa di disuguaglianze e ingiustizie profonde come crateri dentro i quali rischiamo di precipitare tutti.

*Marco Omizzolo, docente, sociologo, ricercatore Eurispes.

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