Robot tax, tassare i “super” profitti delle “super” intelligenze

Tassare i super profitti delle intelligenze artificiali per ridistribuire gli effetti delle innovazioni tecnologiche, considerando i robot soggetti che producono reddito e quindi imponibili. Ecco le proposte per un nuovo sistema fiscale che non ostacoli le imprese e il progresso.

Carlo Ratti, docente presso il Mit di Boston, dove dirige il Senseable City Laboratory e special advisor presso la Commissione Europea su Digitale e Smart Cities, in una recente intervista per il magazine l’Eurispes.it, ha affrontato il tema della cosiddetta disoccupazione tecnologica, affermando che bisogna saper gestire gli sconvolgimenti tecnologici odierni senza esserne travolti. E che, per aiutare chi ha perso un lavoro oggi a trovarne un altro domani, bisogna chiedersi a chi andranno i vantaggi di questo nuovo mondo, laddove una possibile soluzione al problema potrebbe essere, secondo lo stesso Ratti, quella di far pagare le tasse ai robot, o alle nuove intelligenze artificiali, tassando il capitale e trasferendo così il reddito a chi magari ha perso il proprio posto di lavoro.
Proviamo dunque ad approfondire il tema di una possibile “robot tax”.
Le forme di prelievo sull’attività dai robot, ipotizzate nella letteratura internazionale, vanno da un’imposizione diretta (aggiuntiva) sulle imprese che usano (e godono di) questa tecnologia alla tassazione sul compenso virtuale che avrebbero i robot, in quanto sostituti degli esseri umani.
L’alternativa più ragionevole sembra dunque quella di ipotizzare una sorta di imposta sull’attività produttiva (e non sul robot in sé considerato), che, diventando più efficiente attraverso l’automazione, giustificherebbe il maggior prelievo fiscale sull’impresa, da utilizzarsi magari per la riqualificazione dei lavoratori esautorati dai processi produttivi automatizzati.
Ciò che dunque andrebbe perseguito, come sottolinea lo stesso Ratti nella sua intervista, dovrebbe essere la redistribuzione degli effetti delle innovazioni tecnologiche e dei loro benefici, contenendo gli impatti sull’occupazione. E questo potrebbe essere anche perseguito incentivando il reinvestimento di parte dei profitti che provengono da quegli incrementi di produttività dovuti al progresso tecnologico.
Da un punto di vista di tecnica fiscale, del resto, un Robot potrebbe anche configurare una “sede fissa di affari”.
Nell’economia digitale non sono infatti da sottovalutare gli effetti della presenza di “robot” e/o “intelligenze artificiali” o “applicazioni” in grado di relazionarsi con gli individui (utenti), fino ad ordinare loro un pagamento o raccogliere un ordine, con un vero e proprio potere decisionale del robot.
E pertanto, nella digital economy, un Robot potrebbe anche essere considerato un’entità che produce reddito, o comunque una stabile organizzazione della Società non residente.
Se però la minaccia della disoccupazione tecnologica è reale, ciò non significa che l’adozione di una piccola tassa sulle automazioni che risparmiano lavoro umano possa davvero servire dal punto di vista del finanziamento del welfare a tutela degli espulsi dalla produzione.
Imporre una tassa più cospicua, d’altro canto, rischierebbe di rallentare il ritmo dell’innovazione tecnologica e la crescita della produttività del lavoro diminuirebbero.
L’esigenza non è però quella di ostacolare le innovazioni che risparmiano lavoro, ma piuttosto quella di individuare criteri che consentano di distribuire sull’intera collettività i benefici potenziali di tali cambiamenti tecnici.
Secondo uno studio Accenture presentato all’ultimo World Economic Forum di Davos, gli investimenti in intelligenza artificiale potrebbero del resto far crescere del 38% i ricavi delle imprese entro il 2020.
Se allora i robot vengono utilizzati dalle imprese, che aumentano così i loro profitti, e se la quota dei profitti sul reddito nazionale cresce, il maggior prelievo potrebbe riguardare solo i profitti crescenti, per esempio rendendo progressive le imposte sulle società (o quanto meno su quelle che risultano ad alto tasso di automazione), oppure, nel caso in cui un’attività produttiva sia realizzata e gestita direttamente da macchine intelligenti, si potrebbe prevedere l’aumento dell’aliquota Ires.
Più difficile immaginare un sistema in cui vengono individuati i singoli robot da colpire.
Quindi, in termini concreti, le strade per impostare una tassazione specifica su questo settore sono sostanzialmente tre:
1) incrementare (o progressivizzare) la tassazione sulle imprese che si avvalgono di robot (prevedendo comunque anche meccanismi di reinvestimento degli utili a tutela dei lavoratori);
2) considerare i robot come soggetti potenzialmente imponibili e studiare la possibilità di introdurre un’imposta su queste intelligenze artificiali utilizzate nell’economia;
3) spostare la tassazione dal lavoro agli altri redditi, cercando di sostituire, per esempio, i contributi sociali basati sulle retribuzioni con un prelievo sul valore aggiunto.
Se l’innovazione continuerà al ritmo attuale, è comunque probabile che le pressioni per una tassazione del lavoro dei robot diventeranno sempre più forti e frequenti.

Giovambattista Palumbo è direttore dell’Osservatorio sulle Politiche Fiscali dell’Eurispes

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