I recenti eventi di Parigi hanno provocato nella comunità internazionale, e segnatamente in quella europea, una reazione di sconcerto e condanna. Tuttavia, i tragici fatti si inquadrano in uno scenario politico internazionale molto complesso e globale in cui il terrorismo rappresenta una variabile particolarmente imprevedibile in quanto identificabile come forma di conflittualità non convenzionale.
Le rivendicazioni degli attacchi posti in essere in Francia, avanzate da Daesh, testimoniano come l’organizzazione stia attualmente portando avanti un disegno strategico molto articolato. Innanzitutto va sicuramente considerato l’elemento basilare su cui poggiare l’intera analisi del fenomeno in oggetto, ossia il controllo del territorio. Isis, grazie a fratture politico-sociali emerse nel corso degli anni nell’area Siro Irachena, è riuscita ad ottenere il possesso ed il controllo di un territorio abbastanza vasto sul quale esercita la propria sovranità fondata sulla più rigida applicazione della shari’a. A questo punto, sulla base delle evidenze riscontrabili dal monitoraggio dei diversi teatri operativi è possibile distinguere tra un terrorismo tattico ed un terrorismo strategico. Il primo viene posto in essere nelle aree direttamente controllate dal cosiddetto Stato Islamico quale strumento di supporto ad azioni compiute con metodi più convenzionali volte alla conquista di altri territori od obiettivi determinati. Sappiamo infatti che i miliziani guidati da Abu Bakr al Baghdadi utilizzano tecniche paramilitari se non addirittura militari nel condurre le proprie operazioni, supportati dal possesso di armi moderne. In questo caso la sproporzione tra l’attaccante e l’attaccato (ossia le forze fedeli al Presidente Assad e gli altri gruppi in contrasto tra di loro) non è così ampia ed il terrorismo è utilizzato come rinforzo ad azioni condotte con metodi più propriamente convenzionali. A tal proposito giova inoltre evidenziare come, sulla base di quanto appena sostenuto, Isis non sia un gruppo esclusivamente terroristico. Ha superato quella fase ed è divenuto un movimento insorgente che controlla parte del territorio utilizzando il terrorismo come strumento finalizzato al conseguimento del proprio disegno geo-politico, già in corso, consistente nella realizzazione di uno Stato senza confini definiti e non riconducibile ai principi Westfaliani.
Il terrorismo strategico, invece, è quello che subiamo nei nostri territori. A tal riguardo va innanzitutto notato come talune entità abbiamo acquisito una capacità expeditionary in grado di far giungere su territori lontani dai teatri operativi propri combattenti (agenti individualmente o in branco) capaci di applicare i metodi di guerriglia acquisiti, seppure attraverso un breve addestramento, nei campi di addestramento jihadisti sparsi in Medio Oriente e Africa. Un tipo di terrorismo dunque posto in essere con finalità differenti dal precedente, esercitato non più come strumento a supporto di ulteriori metodi, ma come unico mezzo per sopperire alla sproporzione di forze tra l’attaccante e l’attaccato. L’unica alternativa all’azione terroristica, in questo caso, sarebbe l’inazione. È questo il terrorismo che attualmente l’Europa si trova ad affrontare ed è particolarmente pericoloso perché clandestino e imprevedibile.
La differenziazione tra terrorismo tattico e strategico può essere meglio compresa attraverso l’analogia con il gioco del cinese del del Wei Ch’i (meglio conosciuto come Go) che ha come obiettivo quello di ottenere il controllo del più ampio territorio sul goban (la scacchiera), ed il gioco degli scacchi dove invece l’obiettivo è quello di realizzare lo scacco matto.
Naturalmente il terrorismo che ci troviamo oggi ad affrontare sul nostro territorio non è irrazionale ed improvvisato. È, invece, assolutamente coerente e organizzato in quanto aderente a quello che viene comunemente definito come ciclo terroristico. Le fasi che compongono tale ciclo sono essenzialmente sette così individuate: l’impostazione di un network logistico, la selezione dell’obiettivo, che risponde ad un calcolo secondo il quale gli attaccanti prenderanno in considerazione un obiettivo più accessibile anche se meno remunerativo, la pianificazione, il dispiegamento, l’attacco, l’esfiltrazione e, infine, lo sfruttamento dell’azione.
È proprio lungo l’intero ciclo che l’azione delle forze di sicurezza e dei servizi di intelligence dovrà intervenire al fine di tagliare i fili conduttori dell’intero piano terroristico. In particolare attraverso il monitoraggio e l’analisi di tutta una serie di indicatori ed elementi, quali ad esempio le conversazioni su forum e pagine internet e naturalmente i flussi finanziari nazionali e internazionali che, come dimostrano i recenti sviluppi relativi ad uno dei terroristi della strage di Parigi, Salah Abdeslam, rappresentano uno dei terreni di particolare interesse per le indagini. Indagini che devono però essere non solo repressive ma soprattutto preventive, in quanto questo tipo di terrorismo si contrasta prevalentemente attraverso un’ampia cooperazione in materia di intelligence e di intelligence sharing (e non solo di information sharing). Tuttavia, posta la proiezione internazionale e globale del fenomeno, nemmeno questo risulterebbe sufficiente senza una parallela attività politico-diplomatica che utilizzi, se del caso, lo strumento militare solo sulla base di un end state definito nei parametri spazio-temporali. L’Europa e la comunità internazionale tutta sono dunque chiamate ad una prova particolarmente difficile per affrontare la quale la chiusura delle frontiere ed il coprifuoco a tempo determinato non sembrano le migliori strategie di contrasto. È necessario un ripensamento completo dell’intero sistema normativo ed operativo volto a fronteggiare la minaccia presente e futura realizzando, se necessario per esigenze di sicurezza nazionale e continentale, un compromesso verso quel bilanciamento di interessi che guida, a partire dalle conquiste sociali più importanti, la nostra tradizione democratica europea.
*ha collaborato Andrea Strippoli Lanternini – Ricercatore ORFT