“Un giornalismo pigro e arrogante”. Parla Arianna Ciccone

 

All’inizio era soltanto un sogno. Mettere in piedi un evento che attirasse reporter da tanti Paesi, per condividere le loro storie. Aiutata da Chris Potter, il compagno inglese, Arianna Ciccone è andata ben oltre. Il Festival Internazionale del giornalismo, da lei ideato a Perugia, è passato infatti dai 50 ospiti del 2007, prima edizione, ai 700 speaker, oltre la metà dei quali stranieri, della dodicesima di aprile 2018, con più di 300 eventi e 200 volontari, anche questi di varie nazioni. Un meeting d’impatto globale, che ha attirato negli anni giornalisti che hanno fatto la storia come Carl Bernstein (caso Watergate), premi Pulitzer come Seymour Hersh o personaggi politici come Al Gore, e persino, via Skype, informatici e attivisti che vivono nascosti, come Edward Snowden. “Ma non è tanto importante avere il grande nome, quanto piuttosto riuscire a far conoscere tante diverse esperienze di assoluto valore” chiosa Arianna, napoletana di nascita e umbra di adozione, che ha anche dato vita al blog collettivo Valigia blu.

In quali condizioni versa il nostro sistema d’informazione?
“Gravi, direi. C’è stata, da un lato, una colpevole pigrizia culturale, che ha tenuto lontani giornalisti ed editori dal cercare di capire i cambiamenti imposti dalla rivoluzione digitale. Dall’altro un arroccarsi per arroganza nel loro fortino: siamo soltanto noi a sapere cosa e come si racconta il mondo. Ma adesso quel paradigma è saltato, e ci sono più di due miliardi di persone ad essere in qualche modo coinvolte e presenti nel processo informativo. Oggi però, come spesso dice Alan Rusbridger storico (ex) direttore del Guardian, se i giornali sono in crisi, il giornalismo non è mai stato meglio, proprio grazie alle infinite possibilità offerte dal digitale”.

Ma quella dei social media non è forse, in molti casi, un’informazione che deforma, che produce bufale?
“Prima di tutto i social media non sono produttori di contenuti, ma piattaforme di intermediazione. Con il web si sono ampliate le fonti di conoscenza e al tempo stesso moltiplicate le possibilità di disinformare. Ma è sempre grazie al web e ai social se oggi ci sono più possibilità di individuare e smontare la cattiva informazione. La disinformazione va oltre le cosiddette fake news e riguarda il cattivo giornalismo, la propaganda politica, la manipolazione che vede coinvolti come attori anche governi, partiti, istituzioni, media tradizionali o meno”.

 Più in particolare?
“La retorica delle fake news e dell’era post-verità ha mostrato tutti i suoi limiti. Non è un caso se proprio in USA (da dove è partita) oggi si parla di disordine informativo (un concetto molto più complesso). Come se venissimo da un’epoca di verità ora messa in discussione dai social e dal web. Abbiamo già dimenticato la guerra in Iraq (solo per fare l’esempio più eclatante degli ultimi anni) scatenata sulla base di una bugia governativa appoggiata da tutti i media (i legami fra Saddam Hussein e Al Qaeda e la presenza di armi di distruzione di massa)? Vogliamo parlare degli scoop di James Risen sull’amministrazione Bush sistematicamente bloccati dalla stessa testata per cui lavorava?

Di che si tratta?
“A raccontarcelo è venuto lui in persona, nemmeno un mese fa, al nostro Festival di Perugia. Risen, Premio Pulitzer 2006 per il giornalismo ed ex corrispondente del New York Times, dove si occupava di intelligence e più volte per i suoi scoop sulla presidenza Bush ha subito pressioni sia dalla sua testata che dall’amministrazione affinché non pubblicasse inchieste come quella sulla sorveglianza di massa da parte della National Security Agency (ben prima delle rivelazioni di Snowden). Se poi parliamo di bufale, disinformazione e “fake news” va detto che purtroppo i media mainstream di certo non ne sono immuni. Ne racconto solo due”.

La prima?
“Attorno all’8 marzo, quindi subito dopo le elezioni, si è diffusa la notizia di un assalto ai Caf da parte di cittadini che chiedevano il reddito di cittadinanza previsto nel programma dei 5stelle. Tutto è nato da una cronaca locale della “Gazzetta del Mezzogiorno” che riferiva di un evento che si sarebbe verificato a Giovinazzo, in provincia di Bari. La notizia è stata amplificata dai media nazionali e un giornale, “Il Messaggero” è uscito addirittura con una foto di gente in fila a uno dei presunti Caf. Abbiamo scoperto, dimostrato e denunciato, che quella foto era stata volutamente tagliata: in realtà, si trattava di una fila a un ufficio postale, del 2010”.

La seconda bufala?
“Il caso delle due ragazze americane che hanno denunciato di essere state stuprate da due carabinieri a Firenze. Alcuni giornali, e fra questi “Il Corriere della Sera”, “La Stampa” e ancora “Il Messaggero”, hanno scritto che le ragazze avevano una assicurazione antistupro e che ogni anno vengono denunciati, a Firenze, 150-200 stupri, e di questi il 90 per cento risultano poi falsi. Non era vero il dato, e non era vera nemmeno la questione dell’assicurazione (sono le Università americane ad assicurare i loro studenti su tutto, comprese le aggressioni). Solo “La Stampa”, dopo giorni di confronto sui social, ha ammesso l’errore, spiegando di non essere riuscita a verificare il dato basato su una fonte anonima. Ma a disinformare o a manipolare (o almeno tentare di manipolare l’opinione pubblica) non sono solo i giornali”.

Chi altro?
“Confindustria, per esempio. In prossimità del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, diffuse dati in base ai quali, se avessero vinto i “no”, l’Italia avrebbe perso 600 mila posti di lavoro e ci sarebbero stati 200 mila poveri in più. In tanti sui social abbiamo pubblicamente chiesto spiegazioni e chiarimenti sulla metodologia. Non abbiamo avuto nessuna risposta. Quei dati furono amplificati da TG nazionali e giornali nazionali senza essere minimamente messi in discussioni. Abbiamo visto poi com’è finita con la vittoria del “no” e nessuna invasione di cavallette”.

Quale giudizio sulla tv? E i nostri quotidiani hanno un futuro?
“A parte poche eccezioni di qualità, abbiamo sostanzialmente un sistema televisivo “asservito” al potere politico di turno o schiacciato dal conflitto di interessi. Quanto ai giornali cartacei, sono anni che calano copie e pubblicità: senza lettori e senza soldi, il modello attuale è destinato a tramontare e mi sembra incredibile che le maggiori testate italiane impegnino meno del 10 per cento dei giornalisti per il digitale, che non è solo il futuro, è il nostro presente. Il tema centrale è la qualità e la sostenibilità”.

In conclusione, cosa possiamo chiedere ai giornalisti?
“Il coraggio di puntare su contenuti di qualità, l’umiltà di impegnarsi nella relazione con i lettori, che oggi sono sempre più parte attiva e partecipe dell’ecosistema informativo. Di dare spazio in redazione a quanti disperatamente si battono per un giornalismo al passo coi tempi. Di abbassare il ponte levatoio, prima che sia troppo tardi”.

 

La foto di Arianna Ceccone è stata realizzata da Alessio Jacona

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