Re Lear e la tragedia dei figli impossibili

Erede è nome di una relazione pericolosa, il cui senso viene oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici e sradicanti idee di “libertà”, e cioè di un essereliberi-figli come non in sé destinato ad una relazione essenziale col proprio Altro. Siamo disposti ad accogliere soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che non esigano da noi interrogazione e risposta, ma che, anzi, ci rassicurino ancor più nelle nostre pretese di “autonomia”. Tuttavia, ciò che è dimenticato non per questo è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di erede in tutta la pregnanza che nelle nostre lingue ancora, nonostante tutto, esso conserva. Ne è convinto il filosofo Massimo Cacciari, che per le edizioni Saletta dell’Uva firma “Re Lear. Padri, figli, eredi” (Caserta, pp. 80, euro 10).

relear (1)

Il mondo è malato, “it smells of mortality”. Puzza nella sua stessa carne. Una malattia il figlio per il padre: tu sei un “desease… in my flesh”, dice re Lear alla figlia. Impossibile l’intesa, ogni patto violato. Le connessioni tra gli elementi, la philia elementare che li collega si sono spezzate. Sono anomia e apoleia a regnare. Cacciari ci riporta sulla scena del dramma shakespeariano ambientato in Bretagna, con il vecchio re stanco che decide di ritirarsi a vita privata e dividere il suo regno tra le tre figlie. Un viaggio nella tragedia familiare raccontata dal gran Bardo ma anche un’analisi tra amore e potere, tra il desiderio di restare e la legge della vita che porta sempre una notte all’uomo. “Re Lear – spiega Cacciari – è l’opera più ‘apocalittica’ di Shakespeare. Tutto vi precipita all’eccesso, fino al crollo di tutto e tutti: è una catastrofe cosmica, dell’intera natura. Al suo centro è la crisi irreversibile dei rapporti tra padri e figli e figlie, segnato dalla fine dell’idea tradizionale di sovranità. Il sovrano abdica; il re non sa più reggere, è diventato cieco. E quelli che vorrebbero prendere il suo posto non sono che parricidi e fratricidi”.

Che ci ha detto il genio di Shakespeare? “Che questa figliolanza è l’impossibile per l’uomo – rimarca il filosofo dell’Inizio – le figlie mettono immediatamente a morte il padre da cui ereditano. Chi lascia in eredità, in questo mondo, muore. Il secolo non perdona chi si illude di lasciare in eredità e continuare a vivere. E d’altra parte nessuno in questo secolo fa erede il figlio e la figlia come puro atto di dono”. E allora ecco che il Padre resiste, disperatamente resiste. Non vuole eredi. Nessuno ne ritiene degno. Ma la sua ora è venuta. Dopo il Figlio potrebbe essere riconosciuto come autentico padre soltanto colui che dona. L’auctoritas di tutte le altre figure paterne decade irresistibilmente. O può durare solo come mera potestas, contro cui figli e figlie si troveranno a dover combattere.

Nell’elegante edizione della casa editrice diretta da Luigi Nunziante, Cacciari riflette sul rapporto padri-figli, avvertendo che Heres latino ha la stessa radice del greco cheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Potrà ereditare, dunque, soltanto colui che si scopra orbus, orphanos. Per diventare eredi occorre saper attraversare tutto il lutto della perdita e dell’assenza. In Paolo non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo, e cioè attraverso l’imitazione della sua Croce.

In Lear – dicono queste pagine – è la contraddizione insanabile tra desiderio di essere amato e libido dominandi, ma di un dominare che pretenderebbe essere pura auctoritas. Questa contraddizione produce in lui quella hysterica passio che tutti, amici e nemici, bene conoscono. Non certo frutto soltanto della “infirmityof his age”. E in ogni momento egli invoca quella pazienza che ontologicamente gli manca. Vede il bene e opera a rovescio. Male radicale della sua natura. E di quella degli altri: alla hysterica passio con cui Lear prima caccia Cordelia e più tardi maledice le figlie traditrici risponde il “troppo” di odio nei confronti del padre, che il comportamento di quest’ultime manifesta, appena mascherato da una patina “machiavellica”.

Ma vi è chi sappia vedere su “questo enorme palcoscenico di folli” (IV, 6, 185)? Solo a tentoni qualcosa si scorge – e questo qualcosa è una realtà a brandelli, fatta di frammenti corrosi (IV, 6, 151). Una sola potenza, certo, qui non conosce eccessi: quella di amare. Nessuna “follia” d’amore. Cordelia e Ofelia sono figure spiritualmente antitetiche.

Vendetta è la parola di Lear. Vendetta meditano reciprocamente le sorelle, sentendosi derubate del possesso di Edmund (“eppure ero amato”, egli dice: possedere e essere posseduto è l’unica forma di amore che egli conosce). Per Cacciari, “la secessio radicale dall’idea di agape è forse il tratto più apocalittico del Lear”. Nella rottura del nesso tra potestas e auctoritas sta “il peccato mortale che Lear, l’im-politico Lear, commette”: egli pensa, da folle, che l’auctoritas possa valere per sé, che sia tutt’uno con la propria persona, incarnata in essa. È per lui “naturale” che il corpo del Re continui a essere considerato sacro, anche nel momento in cui, spogliandosi dell’esercizio del potere, il Re cessi di poter esercitare qualsiasi legittima violenza.

Il regno diviene la preda che nella loro lotta figlie e figli vogliono conquistare. “È il fratricidio – ma non quello fondativo, Abele-Caino, Romolo-Remo – il grande tema del Lear, non il parricidio”, è la lettura di Cacciari. I vecchi, secedendo, danno luogo al suo scatenarsi. Accecati prima ancora di esserlo, come Gloucester, non hanno saputo costruire una diversa “armonia” tra auctoritas e potestas, illudendosi semplicemente di poterle “autonomizzare”, per rinsaldarle miracolosamente nella propria persona. La loro impotenza si trasforma, invece, nel potere sine auctoritate degli eredi. Si ammazzano le sorelle, si ammazzano i fratelli. Nessuna auctoritas può risorgere da una simile lotta, e nessuno mostra di saperlo più amaramente del “vincitore”, Edgar.

Rex destruens – ecco la persona di Lear. Ab-dicando e disunendo il regno e il potere, facendoli a pezzi, egli distrugge il nesso potere-autorità insieme alla forma del regno. La scena dei folli è anche quella dell’inesorabile tramonto del Pater-Potens. A decretarne la fine non sono però gli eredi, ma le eredi. Le figlie insieme al figliastro conducono il gioco luttuoso. Le figlie non diventano madri e alla follia dell’ultimo corpo del Re, che chiede amore, rispondono inseguendo con ogni mezzo quello stesso potere che vedono franare col Padre. Anche Cordelia? Per Cacciari “Cordelia è chi più drasticamente si ribella al Padre, al Padre che insiste nel sopravvivere oltre il proprio termine. Le altre sorelle stanno ancora, infatti, al suo antico e crudele gioco del potere. Cordelia, invece, è testimone che, nella catastrofe apocalittica che travolge ogni relazione, nessuna astuzia può più reggere, nessun compromesso dar frutto”. È Cordelia a imporre l’aut-aut: vuoi amore? Allora non voler potere. Se vuoi che ti ami, non voler potere su di me.

La figlia prediletta è la negazione stessa dell’erede. Eredi loro malgrado si affacciano a conflitti futuri che non sapranno reggere; le figlie vivono nella loro stessa carne la morte del Padre, ma non sanno generare in quell’amore, che pure presagiscono. Certo è soltanto il timbro della fine. Nessuna fede, neppure la più pallida fiammella – avverte il filosofo di ‘Hamletica’ – fonda qui la speranza che ad essa segua un giorno del Signore.

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