L’emergenza sanitaria del COVID-19 è passata in pochi giorni da emergenza extraeuropea, di una lontananza rassicurante, anche a livello mediatico, ad essere al centro di ogni riflessione attualmente in corso su tutti i fronti prima in Italia, poi in Francia, in Germania e a seguire nella maggioranza degli Stati membri, proporzionalmente al numero di casi riscontrati di positività al virus, ai ricoveri e ai decessi.
Le circostanze spostano radicalmente l’attenzione in pochi giorni come forse mai prima, dalla costituzione dell’Unione, rallentandone in modo considerevole l’attività in tutti gli àmbiti di azione.
Un fenomeno che riporta le grandi azioni europee bruscamente ai suoi limiti istituzionali rispetto alla realtà del campo, dalla pianificazione su lungo raggio all’immediato, dalle lunghe negoziazioni alle prese di decisioni immediate dei singoli Stati europei. Non c’è più tempo. Diverse volte è stato lanciato l’allarme, prima dalla Cina, poi dall’Italia, sia a livello istituzionale sia dal personale medico impegnato in prima linea.
In materia di salute pubblica, lo Stato membro è sovrano: questa, infatti, non rientra nelle competenze attribuite attraverso i trattati dagli Stati all’Unione europea, che dispiega in questo caso degli strumenti ad hoc finalizzati al coordinamento sovrastatale, senza poter imporre nessuna politica dettagliata ma fornendo linee guida generali.
Il ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control) è uno degli strumenti di cui l’Unione si è dotata per questo scopo.
Un altro strumento è l’erogazione di fondi: la Presidente dell’Unione europea, Ursula Von Der Leyen, ha annunciato l’erogazione di 25 miliardi di euro per fronteggiare l’emergenza e sostenere le imprese, il lavoro e il sistema sanitario dei paesi europei colpiti dall’epidemia di Coronavirus e ha promesso linee guida rispetto a regole straordinarie in termini di flessibilità, oltre che dichiarare il pieno sostegno alle misure adottate dal governo Conte.
A Bruxelles il clima sta cambiando e il livello di attenzione si sta alzando: da semplici “spettatori” esterni, il passaggio alla minimizzazione, alla negazione e poi infine al panico, è sottile ed è in atto.
Dalle politiche europee alle circolari all’interno degli uffici delle varie Istituzioni: al momento, quattro nuovi casi di positività al Coronavirus sono stati dichiarati tra lo staff della Commissione, altri tre sono in attesa di esito del test diagnostico.
Il Parlamento, ha disposto il telelavoro al 70% dal 16 marzo, per ora unica delle principali Istituzioni europee presenti a Bruxelles (tra cui Consiglio e Commissione) a prendere disposizioni così drastiche per il proprio personale (politico e amministrativo). Lo stesso Presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, si trova attualmente in quarantena volontaria.
Il coordinamento tra le diverse Istituzioni riflette così paradossalmente la limitata azione di coordinamento a livello europeo, almeno in questa fase iniziale, e non omogenea, di crisi sanitaria. Le sfide sono molteplici: provvedimenti alle frontiere, trasporti, campagne di informazione di salute pubblica, sembrano per ora non avere nessun tipo di univocità.
La questione è quale possa essere l’impatto dell’azione di coordinamento comunitaria nel limite delle proprie competenze, nelle modalità, nella velocità che le è propria, scandita da piani pluriennali di sviluppo a lungo termine, a fronte di necessità tempestive di provvedimenti che la prospettiva sempre più reale di una situazione di emergenza sanitaria europea impone.
Il coordinamento a livello europeo per quanto riguarda le linee guida, si avvale a sua volta del partenariato con l’OMS. Indicazioni sovrastatali, che si traducono in politiche e azioni diverse fra gli Stati membri, a seconda del grado di epidemia, situazione politica e demografica e, soprattutto, delle infrastrutture sanitarie, le risorse interne ed esterne.
Perfino a livello dei protocolli sanitari, delle indicazioni ai medici di base, delle modalità per effettuare il tampone e della durata della quarantena, non sembra esserci omogeneità nella pratica delle politiche interne agli Stati membri.
Informazione istituzionale e provvedimenti dello stesso Belgio, sede delle principali Istituzioni europee, sembrano procedere a scatti, mentre il virus appare lontano dal frenare la sua corsa, secondo una equazione epidemiologica che si ripete da uno Stato all’altro, senza però che l’uno riesca a cogliere preziose lezioni da chi in questa corsa, detiene un triste primato, come ora l’Italia.
Al momento, il Belgio conta 399 casi di contagi da Coronavirus e tre decessi, per un territorio non molto più esteso della Lombardia e con un numero di abitanti equivalente. Solo per i casi più gravi, necessitanti un ricovero, viene effettuato il tampone.
Tra le prime misure straordinarie annunciate il 9 marzo dal Consiglio nazionale di sicurezza belga: si sconsigliano gli assembramenti superiori alle 1.000 persone, ma questa è una raccomandazione, le scuole rimangono aperte, anche nel caso in cui si verifichino dei casi di contaminazione da Coronavirus, si invitano le aziende ad una maggiore flessibilità negli orari, a praticare il telelavoro.
A livello federale, l’intento è che le misure dal 10 marzo fino alla fine del mese, siano rese operative dalle regioni in maniera più uniforme possibile, cosa non del tutto scontata.
La lezione italiana sembra molto lontana in Belgio, anche se le misure messe in campo dal nostro Paese vengono lodate dalle Istituzioni europee, che hanno la sede fisica proprio sul territorio belga ‒ al suo interno quella italiana è tra le più importanti comunità straniere presenti sul territorio e ben rappresentata all’interno stesso delle Istituzioni europee aventi sede a Bruxelles ‒; si assiste, pertanto, all’aumentare dei casi in modalità analoghe al caso italiano, come rivedendo un film già visto di cui si conosce in anticipo, se non l’epilogo, almeno il seguito, sperando in una smentita.
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