Coronavirus e rivolta nelle carceri: segni e sintomi di una democrazia in pericolo

Carceri Liguria

Nella battaglia contro il “nemico invisibile” abbiamo finalmente capito che la prevenzione è l’arma più efficace: “too little, too late”? Staremo a vedere.
Sicuro è che da giorni recitiamo un mantra di raccomandazioni su come agire nelle varie situazioni: lava spesso le mani, disinfetta le superfici, evita assembramenti, resta in casa ed esci solo per necessità. Abbiamo anche imparato a riconoscere segni e sintomi della malattia, a monitorarli ed eventualmente a reagire di conseguenza.
Tuttavia, nel Paese del chiaroscuro, l’assenza di regole nette e la loro violazione sistematica diffusa realizzano un’unica regola, quella del “si salvi chi può, sperando che non tocchi mai a me”.
Allibiti e frustrati, abbiamo visto i nostri concittadini affollare treni, stazioni, supermercati. È così che le raccomandazioni sono diventate severe prescrizioni, progressivamente per tutti.
Nonostante l’attuale imprescindibilità delle misure adottate, non si può negare che quest’ultime realizzino una – seppur necessaria – compressione delle libertà costituzionali di ogni individuo che, laddove prolungata, potrebbe seriamente mettere in crisi la tenuta del nostro sistema economico, sociale e democratico.

Per quanto tempo potremo resistere? A quale prezzo? E, soprattutto, chi verrà sacrificato? Fare una previsione accurata è praticamente impossibile. Tuttavia, quanto sta accadendo negli istituti di pena italiani è un assordante campanello d’allarme per tutti coloro che sanno riconoscere i segni ed i sintomi di una democrazia in pericolo.
E se è vero che, parafrasando Voltaire, lo stato di salute (rectius, il grado di civiltà) di una nazione si misura dalle sue carceri, il nostro Paese non ha mai goduto di splendida forma.

Sovraffollamento, mancato rispetto delle minime condizioni sanitarie, refrattarietà al ricorso alle misure alternative: criticità oggettive del sistema che, nonostante le prescrizioni della Corte Europea, persistono nell’indifferenza di molti, mentre per i più rappresentano un fisiologico “acciacco” di un Paese che ha sempre avuto malanni più importanti da curare.

Queste condizioni, già da sole incompatibili con l’emergenza sanitaria in atto, non possono che essere acuite dalla limitazione di altrettanti diritti fondamentali dei detenuti – come il diritto a colloqui e permessi – rivelatasi una misura tanto necessaria nei propositi, quanto miope rispetto ai potenziali effetti e goffa nelle modalità di comunicazione.
Tutto ciò ha slatentizzato la reazione più violenta e brutale degli ultimi, degli sbagliati, dei sacrificabili, nell’incapacità delle istituzioni e dei corpi sociali di comporre il conflitto.

Una tragedia nella tragedia, che assume i contorni di un dramma nazionale annunciato e scongiurabile, ma secondo molti pur sempre secondario, non foss’altro per le caratteristiche soggettive degli individui coinvolti, autori di questo “atto criminale” di cui oggi si condannano gli esecutori e si ricercano i mandanti. Purtroppo, i più avveduti sanno bene che il malcontento dei ristretti è solo una quota residuale dei conflitti sociali che rischiamo di dover affrontare nei tempi a venire.

L’erosione delle risorse economiche e l’indebolimento della nostra classe media, accelerati dalla crisi – sanitaria prima, economica poi – che stiamo vivendo, potrebbero infatti generare un nuovo gruppo di ultimi, affamati, indesiderati, molto meno distanti da noi di quanto immaginiamo. E, a proposito di drammi e Miserabili, vengono in mente le parole di Victor Hugo: «Una nube s’è ingrossata per millecinquecento anni, e dopo la bellezza di quindici secoli è scoppiata. E voi fate il processo al fulmine».

Solo ascoltando questi primi e dolorosi segnali di malessere, potremo scongiurare il collasso della nostra democrazia.

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