Agricoltura, cibo e turismo, oggi, sono le principali fonti della green economy: un’economia che possa essere apprezzata non soltanto attraverso il Pil, ma anche e soprattutto attraverso il benessere e i nuovi messaggi educativi dei quali intende farsi interprete.
La circolazione di un sapere produttivo appropriato e il rinvio delle conoscenze possono trarre profitto tramite un sistema di relazioni fiduciarie basato sulle filiere corte o a chilometro zero che sostituiscono l’impersonalità dello scambio e il rischio dell’insicurezza con conoscenze, esperienze, professionalità e idee imprenditoriali presentate con la formula del porta a porta.
Circondati da merci di cui è sempre più difficile stabilire la provenienza, la qualità e l’affidabilità, spinti dalla necessità di far di conto, siamo sempre meno consapevoli della non neutralità degli atti di acquisto rispetto ai processi di produzione e distribuzione e di questi ultimi rispetto all’emergenza ambientale.
Non bisogna, allora, avere paura della contaminazione o esprimere forme di chiusura e di intolleranza. Ma dobbiamo pure saper rispondere ad alcune domande semplici e fondamentali: «Da dove viene questo cibo? Chi lo ha coltivato? Chi lo ha cucinato?». Domande che ci insegnano a riconoscere e ad essere consapevoli dei molteplici rapporti di cui è intessuto il nostro vivere come cittadini-consumatori.
A tal proposito si può rilevare come l’accorciamento della filiera e la rilocalizzazione dei processi produttivi siano soluzioni efficienti, oltre che gustose e salutari. E, in questo senso, deve essere valutata la fortunata esperienza di Campagna Amica, una rete di imprese che promuove la filiera agricola tutta italiana attraverso la presenza capillare e diversificata sul territorio nazionale di diecimila punti di vendita diretta tra farmers’ markets, aziende agricole, agriturismi, cooperative e botteghe che hanno rivoluzionato l’approccio al cibo, creando una cittadinanza di consumo basata sulla sicurezza, la qualità e la genuinità dei prodotti locali, con forte legame al territorio rivalutato in chiave di soluzione alla crisi e opportunità di rilancio dell’economia reale.
La filiera agricola tutta italiana presuppone la prossimità quale condizione necessaria per restituire agli agricoltori un effettivo protagonismo che si snoda lungo l’intero percorso dal campo alla tavola, con trasferimento di valore aggiunto a monte e più efficiente recupero di quello perso a valle. La filiera è realizzata con prodotti che provengono solo ed esclusivamente dai campi e dagli allevamenti italiani, quale valore distintivo del made in Italy ed è firmata dagli agricoltori che responsabilmente impiegano la loro reputazione per garantire ai consumatori fiducia nelle scelte di acquisto ed informazioni trasparenti, necessarie ad assicurare un consumo consapevole e a ridurre l’incertezza a tavola.
La logica del chilometro zero della filiera corta o cortissima modifica il rapporto degli agricoltori con il consumo, nella convinzione che una qualità complessiva, ecocompatibile e socialmente sostenibile passa necessariamente da una produzione localmente connotata quale antidoto ai rischi alimentari.
Infatti, gli scandali degli ultimi anni – dalla mucca pazza al pesce al mercurio – hanno determinato un cambiamento nella percezione e nella consapevolezza collettiva del ruolo dell’agricoltura, protesa alla difesa di valori etici, salutistici e sociali. Il circuito della filiera agricola italiana diventa uno straordinario patrimonio immateriale composto da valori quali la sicurezza alimentare, la sostenibilità ambientale, l’etica delle produzioni, la qualità del servizio di commercializzazione e la garanzia dei controlli che sono trasferiti nell’offerta complessiva dei punti vendita.
E, così, lo spazio agricolo intorno alla città – fino ad oggi sostanzialmente disfunzionale rispetto alle opportunità di produrre alimenti – torna ad essere definito dal potenziale contributo di rifornimento a cittadini-consumatori disposti a riflettere su ciò che portano a tavola.
Il modo in cui le pratiche economiche della più recente agricoltura si incontrano con le tendenze del consumo e gli stili di vita possono, insomma, ri-disegnare in modo originale anche l’identità dei beni paesaggistici ed il complessivo habitat di vita della comunità.
Hanno un peso le scelte anche del cittadino consumatore una volta che, divenuto obiettore di crescita – usando la definizione di Serge Latouche (2013) – rinuncia ad un’alimentazione industriale composta di prodotti non riconoscibili rispetto alla provenienza e standardizzati in relazione alla composizione, per spostare le proprie preferenze alle botteghe di prossimità, acquistando prodotti del territorio, più freschi e più sicuri e con la consapevolezza di contribuire anche alla conservazione delle forme più tipiche dello spazio.
Fino ad ora l’assortimento della distribuzione negli scaffali dei supermercati ha scambiato con la facilità dell’acquisto la sottrazione della conoscenza dei sapori e del riconoscimento delle stagioni, inducendo i consumatori a procedere a ritroso nella scelta di alimenti con una graduale riscoperta delle componenti di immagine della provenienza e dei benefici sulle condizioni di salute.
Dal momento, però, che a fondare un vero e proprio ribaltamento degli indirizzi di qualità urbanistica sono le emergenti esigenze di approvvigionamento alimentare, si è necessariamente fuori dall’àmbito di un discorso sociologico circa la fase matura del consumo e le competenze di apprendimento delle persone per soddisfare bisogni ulteriori, in quanto la disciplina conformativa del regime dei suoli attribuisce a sé il tracciato di un complesso percorso evolutivo.
Bisogna, allora, ampliare il concetto di smart city e riferirlo non soltanto all’efficienza tecnologica ma estenderlo al territorio, alle persone e alle esperienze condivise: dalla smart city, dunque, allo smart land per «costruire un territorio sostenibile, intelligente, inclusivo», nel quale politiche diffuse e condivise sono in grado di aumentare «la competitività e attrattività del territorio con una attenzione particolare alla coesione sociale, alla diffusione della conoscenza, alla crescita creativa, all’accessibilità e alla libertà di movimento, alla fruibilità dell’ambiente […] e alla qualità del paesaggio e della vita dei cittadini» (Bonomi e Masiero, 2014).
Appare di estremo interesse riferire, in tale contesto, dell’attenzione riservata dal disegno di legge collegato alla manovra di finanza pubblica 2014, recante “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’suo eccessivo di risorse naturali”, alla promozione di una strategia nazionale delle Green community finalizzata ad individuare «il valore dei territori rurali e di montagna che intendono sfruttare in modo equilibrato le risorse principali di cui dispongono, tra cui in primo luogo acqua, boschi e paesaggio» nella prospettiva di creare «un nuovo rapporto sussidiario e di scambio con le comunità urbane e metropolitane, in modo da poter impostare, nella fase della green economy, un piano di sviluppo sostenibile non solo dal punto di vista energetico, ambientale ed economico» in diversi àmbiti, dalla gestione integrata e certificata del patrimonio agro-forestale e delle risorse idriche alla produzione di energia da fonti rinnovabili locali, dallo sviluppo di un turismo sostenibile alla integrazione dei servizi di mobilità [art. 55].
Tutto ciò risulta necessario perché l’uomo, per riaffermare la propria esperienza di libertà e colmare i vuoti di identità, è sempre alla ricerca di un paesaggio che sia luogo, ecologico o simbolico, di benessere in cui si iscrivono riferimenti della collettività e itinerari della memoria personale.
Nel suo Le città invisibili, scrivendo di Zenobia, eretta su un’altissima palafitta, Italo Calvino dubita che possa classificarsi tra le città felici o infelici: «non è in queste due specie che ha senso dividere, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma di desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare le città o ne sono cancellati».
Rifondare, in termini progressivi, il modello di città e delle sue peculiari connessioni e proiezioni con la campagna attraverso i due ruoli che possono svolgere nella continuità di un territorio senza fratture e censure rappresenta, dunque, un progetto ambizioso e, forse, utopistico, ma solo chi ha un’utopia disegna un progetto. Solo così possiamo comprendere perché nella visione utopistica della Città del Sole di Tommaso Campanella «l’agricoltura è in gran stima: non ci è palmo di terra che non frutti. Osservano li venti e le stelle propizie, ed escono tutti in campo armati ad arare, seminare, zappare, mietere, raccogliere, vendemmiare, con musiche, trombe e stendardi; ed ogni cosa fanno tra pochissime ore. Hanno le carra a vela, che caminano con il vento, e quando non ci è vento, una bestia tira un gran carro, bella cosa, ed han li guardiani del territorio armati, che per li campi sempre van girando. Poco usano letame all’orti ed a’ campi, dicendo che li semi diventano putridi e fan vita breve, come le donne imbellettate e non belle per esercizio fanno prole fiacca. Onde né pur la terra imbellettano, ma ben l’esercitano, ed hanno gran secreti di far nascer presto e multiplicare, e non perder seme».
Cos’è questa se non l’idea, che è alla base del progetto di una smart land partecipata, sostenibile e condivisa, pensata per garantire benessere alle generazioni presenti e future?