Diritto penale del nemico, una risposta possibile al terrorismo

Prima o poi doveva accadere. Prima o poi anche l’Italia e gli italiani sarebbero stati colpiti dal terrorismo. È successo il primo luglio scorso, una data che difficilmente il Paese tutto dimenticherà. Le vittime sono state nove; l’11 settembre 2001 furono dieci, quelle italiane.

Probabilmente ce lo aspettavamo. In qualche modo eravamo pronti ad affrontare una simile situazione. Forse però pensavamo che accadesse all’interno dei nostri confini nazionali, dove l’intero apparato di sicurezza è in costante livello di attenzione. Probabilmente non ce lo aspettavamo a migliaia di chilometri di distanza, a Dacca, in Bangladesh, ove è presente una ristretta, seppure attiva, comunità di imprenditori italiani.

Iniziamo a capire anche noi che le cose sono cambiate. Non più soltanto spettatori indiretti delle tragedie altrui, ma protagonisti e vittime di qualcosa che per sua natura è indefinibile e quindi difficilmente affrontabile. Tuttavia non è più possibile rimanere inermi dinnanzi a tale follia che, in nome di un Dio uccide e massacra persone innocenti, o colpevoli di non conoscere i versi del Corano. Che poi è la stessa cosa.

I tempi sono cambiati. La minaccia è cambiata. Gli strumenti con i quali affrontarla devono cambiare. Il suono del pericolo non corrisponde più a quello delle sirene antiaeree, che durante la seconda guerra mondiale avvertivano dell’imminente bombardamento. Oggi è la sigla dell’edizione straordinaria di qualche telegiornale a far temere il peggio.

L’avversario è invisibile, scaltro, preparato e possiede una spinta emotiva data da una visione, seppure distorta della fede, che lo spinge a compiere un gesto folle nei confronti dei suoi targets, ed estremo nei confronti di sè stesso al fine di soddisfare la richiesta di quel Dio che sicuramente si starà chiedendo dove ha sbagliato. Come fermare dunque questo meccanismo infernale che sembra ormai immerso in un vortice dal quale è impossibile uscire? La risposta che un occidentale, democratico ed evoluto può dare è solo una: il diritto.

Quale diritto però? Quello tradizionale sembra non funzionare contro la minaccia terroristica. Ecco che allora appare utile approfondire il concetto di diritto penale del nemico concettualizzato da Gunther Jakobs, al di là delle accuse di estremismo che buona parte dell’accademia tradizionale gli rivolge. Un diritto, questo, parallelo al diritto penale del cittadino, da applicare nei confronti del “nemico” appunto, ossia di colui che non offrendo garanzie circa una seppur minima fedeltà all’ordinamento non può essere trattato come parte di questo (ossia da cittadino, con le connesse tutele giuridiche), ma deve essere trattato come un non-cittadino, e quindi come un nemico da fermare prima che commetta l’atto delittuoso. Ciò al fine di tutelare la sicurezza e i diritti di tutti. La tutela dei diritti dell’intera comunità è infatti anche tutela dei diritti del reo, mentre la tutela dei diritti del reo non corrisponde automaticamente alla tutela dei diritti della comunità. Questo deve iniziare ad essere chiaro.

Per tali motivi risulta opportuno iniziare ad adottare una serie di misure drastiche che assicurino un livello di sicurezza funzionale al vivere comune. Non si sta dicendo di chiudere i confini territoriali e mentali. Si vuole soltanto sollecitare ad effettuare maggiori, e più rigidi, controlli nei confronti di soggetti che potrebbero essere collegati, o parte, a organizzazioni terroristiche.

Si dice spesso che l’Italia ha sconfitto il terrorismo interno e la mafia senza mai rinunciare ai principi che reggono lo Stato di diritto.

Non sono tuttavia mancate regole speciali per fenomeni criminali così pericolosi: alludiamo, in particolare, al cosiddetto “statuto speciale antimafia”, che si compone di una serie di regole sostanziali e procedurali precipue, calibrate sulla minaccia delle organizzazioni criminali.

Un timido tentativo nel nostro Paese è stato fatto anche nei confronti del terrorismo. Si pensi all’allargamento delle competenze della Procura Nazionale Antimafia.

Nondimeno, una lotta senza quartiere al terrorismo di matrice islamica presuppone la sua qualificazione come una minaccia non convenzionale e del tutto “nuova”, che impone “nuove” e più calibrate risposte.

Va anche considerato che la minaccia che ci troviamo ad affrontare oggi non è più interna ma transnazionale, transculturale e politico-religiosa. Un male nuovo, che assume forme diverse, e che probabilmente va curato con strumenti giuridici e sociali altrettanto nuovi. Non sempre nuovo è sinonimo di negativo. Questo ce lo insegna proprio chi con forza si batte a favore del multiculturalismo e della globalizzazione.

E, a dispetto di chi vede la proposta dell’adozione di un diritto penale del nemico come contraria ai principi della rule of law, possiamo replicare che l’impiego di strumenti predeterminati speciali come le misure di prevenzione personali e patrimoniali, le info-investigazioni preventive e l’attività dell’intelligence servono proprio per proteggere e perpetuare quello Stato di diritto e quei principi che sono messi in discussione dalla società e dall’economia della paura, che il terrorismo islamico vuol promuovere.

L’Italia, culla della civiltà giuridica, oggi è posta di fronte ad un bivio: agire o temporeggiare.

Agire con la consapevolezza che la bilancia dei beni-interessi in gioco pende per una revisione di schemi inveterati, promuovere una cultura della protezione e della prevenzione, approfondire il dialogo interreligioso (pretendendo specifiche prese di posizione sui temi dell’uso della violenza per scopi religiosi), implementare gli strumenti di prevenzione/contrasto al finanziamento al terrorismo. Utilizzare banche dati, scambio di informazioni, ecc. non sembrano azioni in grado di mettere in discussione un ordinamento giuridico maturo e consapevole quale quello nostrano, in un quadro multilivello come quello che, nel frattempo, si è venuto a creare. Su questo tema ci permettiamo di segnalare un “abuso di legge sulla privacy” a schermo di tutele su identità e spostamenti (v. direttive UE sul cosiddetto “PNR”, che langue presso il Parlamento Europeo) che non si possono più concedere.

L’identificazione degli immigrati, la certezza delle loro intenzioni, il monitoraggio delle loro rimesse e simili misure non sembrano strumenti estremi se funzionali alla prevenzione di stragi e turpi traffici.

Pensiamo, ad esempio, anche a quanto oggetto di dichiarazioni da parte di un collaboratore di giustizia in un’importante inchiesta della DDA di Palermo, proprio di questi giorni, sul traffico di esseri umani e di organi dall’Africa all’Europa.

Già una volta abbiamo scritto dei danni conseguenza del terrorismo di matrice islamica (si veda Gnosis 2015), cercando di attirare l’attenzione sulla reale dimensione del fenomeno: oggi, purtroppo, piangiamo nuove vittime, a fattor comune delle dissertazioni giuridiche e delle questioni connesse alla minaccia terroristica e alla necessità di regole speciali per farvi fronte.

Concludiamo evocando la tutela dei diritti umani (che spesse volte paralizza qualsivoglia tentativo di rafforzamento di protezione di beni interessi fondamentali); sull’onda emotiva per quanto accaduto a Dacca viene da chiedersi: non sono diritti fondamentali anche quelli delle vittime del terrorismo e delle loro famiglie, delle loro comunità e dei loro colleghi, le cui esistenze sono segnate per sempre? Non sono diritti umani anche quelli?

In un ordinamento giuridico multilivello l’ambiente socio-economico minacciato globalmente va oggi ricondotto ed orientato ad una legalità matura e consapevole, che abbia contezza della sfida e tenga in debita considerazione la minaccia terroristica come la più grossa dopo la seconda guerra mondiale.

È questa una sfida che non ammette tentennamenti o indugi. È la questione delle questioni, da risolvere, in prospettiva, se non per noi, per i nostri figli e per i loro figli, altrimenti destinati a vivere in un mondo di diffidenza e di paura.

L’estremista islamico è nemico innanzitutto dell’islam, di quello vero e moderato.

Non più brandelli di cadaveri in nome di un Dio minore (che non ha mai ordinato di uccidere per fede).

Non più innocenti passati per le armi come in guerra, senza reazione alcuna se non retorica.

È il tempo delle risposte.

È il momento di reagire.

La nostra proposta è semplice, quanto forte e decisa.

Quella del cosiddetto diritto penale del nemico è una concettualizzazione teorica che da qualche tempo si è fatta spazio nel dibattito in ambito giuridico di paesi quali Germania e Spagna, ma anche Italia, seppur in misura minore.

Presentata per la prima volta da Jakobs nel 1985, nella Relazione alle Giornate dei Penalisti tedeschi a Francoforte sul Meno, è stata poi ripresa con più convinzione, dal medesimo autore, nella Relazione al Congresso celebrato a Berlino nel 1999 su “la Scienza del Diritto penale alle soglie del nuovo millennio”.

Essa oggi acquisisce nuova importanza nel contesto della guerra al terrorismo di matrice islamico -fondamentalista, un binario parallelo e separato del diritto penale con livelli di garanzia diversa, perché si rivolgono a categorie differenti di soggetti.

Si tratta di uno strumento concettuale da poter utilizzare contro chi, di volta in volta, viene identificato come nemico all’interno di una data società.

La figura del nemico era stata già studiata in precedenza da molti altri autori (tra i quali Thomas Hobbes e Carl Schmitt): si tratta innanzitutto di un delinquente, che come tale porta lo stigma della colpevolezza. Ma si tratta di una particolare tipologia di delinquente. Il nemico è infatti, a differenza del delinquente comune, un individuo la cui stabilizzazione cognitiva rispetto alla norma non è più possibile, e contro il quale ci si può difendere solo tramite la neutralizzazione, ovvero contro di lui o lei “si deve procedere prima del fatto delittuoso o in aggiunta rispetto alla pena approntando un apparato di sicurezza” (Jakobs in Gamberini-Orlandi, 2007, p.120).

Non è seriamente possibile proporre di risocializzare un estremista islamico che predica e pratica lo stragismo fino al suicidio teleologicamente orientato all’omicidio dell’infedele.

In questi termini, il nemico è una minaccia non solo per i membri della società in senso prettamente fisico, ma è una minaccia anche per la stabilità e la vigenza dell’ordinamento stesso.

Ed ecco che la teoria di Jakobs non sembra (razionalmente) così estrema e lontana dalla realtà.

*Le opinioni dell’Autore non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza, e sono espresse a titolo personale

 

 

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