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È nato l’homo novus. Ecco perché tra generazioni si è aperta una faglia. Prima parte

di
Alberto Mattiacci

I giovani, da quando le società occidentali hanno assunto forma post-industriale e post-moderna, sono diventati una categoria sociale rilevante per molti analisti: sociologi e politologi, psicologi, economisti e via dicendo. L’unica cosa certa è che sono meno numerosi che in passato.

Roba vecchia, insomma: chi volesse divertirsi a vagabondare un po’ fra gli archivi Rai degli anni Settanta, per dire, troverebbe gustosi dibattiti televisivi fra i “giovani” di allora (oggi degli arzilli nonnetti, le cosiddette pantere grigie) e gente come Lucio Battisti, o Pier Paolo Pasolini. In tempi di globalizzazione, poi, i giovani sono diventati millennial e z generation: così, hanno acquisito moltissimo in glamour, perdendo un po’ di nitidezza.
Muta la forma dei giovani, dunque ma non la questione che, da sempre, caratterizza il dibattito su di loro: cos’hanno di diverso da noi, che (a malincuore) giovani non siamo più? Dove sta la faglia fra noi e loro?

Alcuni giorni fa, l’Eurispes ha presentato e diffuso i risultati di una ricerca sui giovani, condotta, con i partner dell’Accademia Russa delle Scienze Sociali, in quattro paesi (Russia, Polonia, Germania e Italia). Il segnale di fondo che emerge dalla ricerca è a nostro avviso uno; questo: la programmazione di vita che i giovani conducono è totalmente slegata dai vincoli biologici e improntata alla massimizzazione dei gradi di libertà di ogni scelta individuale.

Tutto sommato, nulla di nuovo – dirà qualcuno molto meno giovane di chi scrive e che perciò avrà vissuto più volte l’esperienza di confronto coi giovani. Forse è così. Però, c’è un però. Vediamo.

Il “però” l’abbiamo capito riflettendo su un bellissimo, recente, romanzo di Sandro Veronesi: Il Colibrì. Alle volte, la letteratura apre delle finestre di pensiero che, altrimenti, nemmeno vedremmo tracciate sul muro. Così è stato per questo libro che racconta, apparentemente, la storia di un uomo e della famiglia, allargata e cosmopolita, della quale è il perno.

In realtà, il libro è l’analisi narrata di come la società italiana stia passando, molto rapidamente, da un modello di organizzazione familiare tradizionale, a un altro – fondato su una assoluta autonomia esistenziale e un marcato protagonismo individuale. In pratica, è il racconto di una società, quella italiana, la cui cellula costitutiva (la famiglia) si frammenta progressivamente.

Il modello di partenza è rappresentato dalla famiglia di origine del protagonista: si fonda sulla coppia genitoriale regolarmente sposata, con prole numerosa e traiettorie professionali certe dei figli (studi, ti laurei, hai un lavoro pregiato). Questo modello è il sole calante della società italiana tradizionale.
Il secondo modello, al polo opposto, è rappresentato dalla nipotina multi-etnica (figlia di una italiana e di un non precisato orientale) e mono-genitoriale (la mamma, nello specifico) del protagonista. È il sole nascente del pianeta globalizzato: e qui sta la faglia.
I primi, genitori e nonni, sono vecchi, tutti, inesorabilmente e inevitabilmente; la seconda, la nipotina, è l’uomo nuovo – così la chiama l’autore (attenzione alla discordanza di genere: non è un refuso).
Miraiji questo il nome (non italiano) della (italiana) nipote del protagonista, è femmina nel sesso fisico ma è l’uomo nuovo della società – e già questo è un punto fondamentale di discontinuità storica: il secolo XXI sarà quello della femminilizzazione delle società occidentali. Lo spazio del maschile è contendibile (per esempio, il calcio femminile ma anche Lara Croft) e all’uomo è richiesta l’assunzione di un’attitude femminile (la nuova paternità, più presente e attenta).
Miraiji è sola, figlia unica e per sempre tale (la mamma, figlia del protagonista, morirà) ma, al contempo, affettivamente ricca di connessioni: a zii che vivono in giro per il mondo, al fidanzato di Barcellona, a una nonna (croata) che vive in Germania, alla sorellastra tedesca e al padre italiano (il protagonista) che vive rigorosamente in Italia (è uomo del mondo vecchio, infatti).

Tiriamo le fila.
La nostra tesi è che l’homo novus sia una persona che sta prendendo forma progressivamente attraverso le generazioni. Cresce in discontinuità rispetto ai genitori e ai nonni: traccia una faglia di separazione, netta e definitiva ma lo fa senza strappi, senza affaticarsi in un conflitto. Non è più tempo di questa roba: lo stacco generazionale, la faglia, oggi si esprime su territori diversi dal passato: non nel vestire – genitori e figli vestono spesso allo stesso modo – non nella corporeità – genitori e figli curano il corpo negli stessi luoghi coi medesimi gesti – non nella ribellione alla tradizione – famiglia, lavoro, fede, partiti politici, cadono a pezzi sotto la medesima indifferenza di genitori e figli.

L’homo novus sta già crescendo oggi, nel perimetro della pubertà e dell’adolescenza e, quando diverrà più adulto, non ci somiglierà per nulla, ma proprio per nulla. Darà forma a una società nuova, centrata su una individualità che non riconosciamo; una società nuova che già intravediamo e che ci mette timore, perché (in fondo in fondo lo sappiamo tutti) percepiamo nel profondo la faglia che ce ne ha già tagliati fuori.

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