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Economia, società e politica alla prova dell’Intelligenza Artificiale

di
Alberto Mattiacci

Il tema dell’Intelligenza Artificiale è al vertice dell’attenzione del mondo economico, politico e sociale: che la tecnologia digitale stia lavorando a una serie di prodotti-servizio innovativi è fatto noto; che molti di questi si basino su una filosofia progettuale antropomorfa, è un dato di fatto; che il senso di una minaccia incombente sia forte, forse anche a causa di questo fatto, è, ormai, banale dirlo.

Pochi giorni fa è stato presentato un interessante rapporto di ricerca da parte di Federmanager, in associazione con MIT Technology Review Italia e la Sapienza: Intelligenza Artificiale Innovazione Lavoro. Un’indagine su manager di oltre 500 imprese italiane, arricchita da commenti e riflessioni.

Di che cosa si parla? Di una famiglia di tecnologie che, nel loro reciproco combinarsi, si prefiggono di simulare alcuni meccanismi del pensiero umano per far funzionare delle macchine.

Il Rapporto richiama una tesi del Premio Nobel Economia 1987, Robert Solow, che ci appare condivisibile: «Difficile dire se l’Intelligenza Artificiale determinerà una sorta di rivoluzione tecnologica diversa da quelle che abbiamo già visto in passato. Al momento sembra che si stia configurando qualcosa di molto simile. Ma non sappiamo ancora abbastanza su come si configurerà un’economia basata sull’IA». Insomma, sarebbe troppo presto per dire se e in che misura le nostre (umane, umanissime) paure su questo mostro, fatto di BIT, siano fondate o meno.
L’analisi delle risposte fornite dalle imprese italiane, riportate nel Rapporto, parte quindi da questo elemento: per quanto se ne sappia oggi, tutto quel che si pensa (e dice) è probabile, eventuale, ipotetico. Nessuno, oggi, sa; tutti, oggi, immaginiamo; talvolta parla l’emozione, talvolta la ragione.

Volendo sintetizzare alla goccia il senso delle risposte, a sentirsi maggiormente preoccupati dovrebbero essere tutti i lavoratori che compiono mestieri operativi, ripetitivi. Per dirla con una battuta semplice: tutti quei lavori a bassa intensità di intelligenza naturale offrono il fianco a quella artificiale.
Fra i mestieri “a rischio”, la ricerca mette al primo posto, infatti, gli operai non specializzati.
La cronaca della contemporaneità economica sembra dominare, poi, le menti dei rispondenti. Le altre professioni considerate in prospettiva a rischio, infatti, sono quelle già oggi interessate dalla grande ondata della disintermediazione digitale – ovvero del passaggio di parte, o tutto, dei valori e volumi economici, dal fisico al digitale. Tre le categorie percepite più a rischio nel futuro: i commercianti, sui quali pesa il successo Amazon che tira la crescita dell’e-commerce; i consulenti finanziari, già stressati dal grande universo Fintech; i giornalisti, che già oggi soffrono l’incapacità storica dell’imprenditoria editoriale di reinventarsi.

Sul lato opposto della medaglia siedono, invece, le professioni del futuro; quelle illuminate dal meraviglioso “Sol dell’Avvenir” tecnologico. Nella classifica dei mestieri che dovrebbero crescere ci sono, infatti, quelli legati alla conoscenza teorico-pratica del digitale: Data Scientist, analista informatico, social media manager. A seguire, “vecchi” mestieri che potrebbero trovare, nel territorio nuovo dell’IA, nuovi spazi di successo: ricercatore applicato (R&S), operaio specializzato, tecnici vari. Per questi ultimi, avverte il Rapporto, conditio sine qua non sono la formazione e l’aggiornamento professionale: 96 imprese intervistate su 100 considerano, e non sorprende, indispensabile un tale percorso.

Che considerazioni emergono da questo studio? A nostro avviso tre: semplici e chiare.
La prima è che non è presto per preoccuparsi: non sappiamo come sarà il domani ma ne conosciamo la forma. Digitalizzato. La seconda è che, ad oggi, non si intravede una completa sostituzione macchina-uomo: la linea di difesa, però, s’innalza sempre più e le competenze richieste si fanno più sofisticate che in passato. La terza è che stiamo assistendo alla lenta posa della pietra tombale sul Novecento. Nulla di strano: è già successo prima e, non di rado, proprio per effetto della tecnologia – per esempio, l’elettrificazione del mondo.

Economia, politica e società – questo il mantra dell’Eurispes – sono affluenti comunicanti del medesimo lago: la realtà. L’uno contamina l’altro; si alternano nel contribuire all’alvo. L’Economia deve interrogarsi in merito ai modi di distribuzione della ricchezza, atteso che, probabilmente, il lavoro non ne sarà più il driver primario. La Società sarà presumibilmente ancora più dicotomizzata, sebbene su variabili differenti. Alla Politica il difficile compito di immaginare proattivamente un futuro fatto di queste realtà.
La ricetta, dunque, per la politica, come ogni mestiere, è la stessa. Ciò che serve, ciò che sempre servirà, è la più umana delle capacità: l’immaginazione di un futuro realisticamente realizzabile.

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