Geopolitica del Muro di Berlino: l’eredità ideale e la memoria popolare

Era lungo 155 chilometri, e non era solo un muro alto 3,60 metri, ma anche un fossato profondo 3,5 metri, un corridoio battuto da ronde e cani da guardia, filo spinato, e un altro muro elettrificato e 302 torri di guardia, 20 bunker e 14mila guardie a presidio di tutto il perimetro. Il Muro di Berlino era più di un muro: era un mondo che portava ad un altro mondo.
Quella che venne definita “l’operazione Rose” scattò a mezzanotte tra il 12 e il 13 agosto del 1961. Migliaia di militari e poliziotti al comando del giovane Honecker iniziarono a costruire il Muro, adducendo necessità di difesa della DDR ed edificando materialmente il simbolo fisico della strenua contrapposizione geopolitica, la guerra fredda, fra imperialismo americano e russo-sovietico. Restò in piedi ben 28 lunghi anni, quel muro. La democrazia federale, pur tra mille contraddizioni socio-economiche, fiorì ad Ovest. A Est dominò invece la più organizzata autocrazia del secolo, all’insegna dello Stato autoritario e la sua temuta e occhiuta polizia “Stasi”, dedita al pervasivo controllo delle vite dei tedeschi orientali e alla ferrea vigilanza sul rispetto del loro divieto di espatrio, punito penalmente, e beffardamente ribattezzato “Fuga dalla Repubblica”.
Considerato un paese con posto di lavoro assicurato da 800 a 1.200 marchi al mese, e una presunta qualità della vita relativamente migliore rispetto ad altri Stati filo-sovietici, la Germania Est cominciò ben presto a declinare, e dagli anni Sessanta si segnalò per eccesso di deficit pubblico, arretratezza dell’apparato tecno-produttivo e persistenti crisi dei consumi. Si calcola che nel decennio pre-muro, i tedeschi orientali emigrati all’estero fossero 3,6 milioni. Questa massiccia emigrazione di quasi un quinto della popolazione della DDR, ebbe un forte significato geopolitico: il rifiuto della legittimità di un regime filo-sovietico su territorio tedesco
Non solo le persone non riuscivano a oltrepassare il muro ma vivevano disagi impensabili in Occidente: nella DDR per avere una automobile antiquata come la Trabant, un comune cittadino poteva attendere anche 10 anni. Honecker e i suoi resistettero al potere ancora per anni, ma quando nel 1989 l’impero sovietico iniziò a sgretolarsi nel suo centro, il muro nella periferia tedesca fu inesorabilmente travolto dalla storia. E per le cinque regioni orientali tedesche (le due Sassonie, il Brandeburgo, la Turingia, il Meclenburgo-Pomerania) si aprì, di lì a un anno, un nuovo capitolo storico nella veste di figlie geografiche di un dio minore della grande madre Germania.
Paradosso della storia, la Germania ha come premier da un quarto di secolo Angela Merkel, che ha vissuto i primi 36 anni della sua vita proprio nella DDR, in Brandeburgo, salvo poi scalare nella Germania riunificata la premiership tra le fila dei cristiano-democratici al governo del paese.
Le famiglie politiche tedesche animano, dalla caduta del Muro, una interminabile querelle sui meriti da attribuirsi per la sua rimozione. Secondo i cristiano-democratici tedeschi, la cortina di ferro non resistette all’attrazione fatale, sui cittadini dell’Est, del successo ad Ovest delle politiche fondate, sin dal Dopoguerra, sul sostegno alla libera iniziativa e ad un poderoso apparato industriale, proseguite, ispirandosi all’economia sociale di mercato, dai governi guidati da Helmut Kohl dal 1982 al 1998.
La replica dei socialdemocratici propone invece una narrazione che considera la caduta del Muro una palese affermazione delle idealità e delle pratiche politiche riformiste a scapito di quelle presunte rivoluzionarie, monopolizzate propagandisticamente ‒ a partire dal secondo decennio del Novecento ‒ da potenti autocrati nell’Urss e, dal Dopoguerra, dai loro accoliti nel satellite DDR. Willy Brandt, Helmuth Schmidt e altri leader della Spd tedesca, all’incapacità di garantire, alla stregua della Repubblica federale, i diritti sociali promessi dai marxisti rivoluzionari nella DDR, opposero le buone condizioni di vita e di progresso raggiunte dalle classi lavoratrici grazie alle conquiste, in Germania Ovest, della socialdemocrazia riformista.
L’eredità del Muro, non è però solo una sofisticata querelle tra intellettuali e partiti politici. La memoria popolare è viva e lo dimostrano le decine di migliaia di tedeschi ed europei che, secondo la stampa tedesca, si sono riunite nella capitale riunita per celebrare anche questo trentesimo anniversario. «Nessun muro che emargini esseri umani e limiti la libertà è così alto o largo da non poter essere abbattuto», ha scandito la cancelliera Angela Merkel parlando al Memoriale del Muro. Le ha fatto eco, dal palco della festa di piazza organizzata dietro la Porta di Brandeburgo, il Presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier : «I nuovi Muri nel nostro Paese li abbiamo costruiti noi stessi e solo noi stessi possiamo abbatterli». Steinmeier e i capi di Stato di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno apposto una rosa, ciascuno in una fenditura orizzontale del Muro ancora conservato al Memoriale sulla Bernauer Strasse, la via delle finestre murate, simbolo delle tragedie umanitarie del Novecento.
Non mancano però le note dolenti. La caduta del Muro e della cortina di ferro che divise l’Europa del Dopoguerra aveva, all’epoca, fatto sperare in un’era di distensione e unità, di disarmo, permettendo l’estensione ovunque del modello delle democrazie liberali. Tuttavia, sulle vele della storia europea soffia ancora poderoso il vento delle piccole patrie e rigurgiti nazionalisti sono percepibili nelle pubbliche opinioni. I confini sono parzialmente tornati. A Strasburgo, nel Parlamento europeo volano accuse ai paesi ‒ liberati trenta anni fa dalla glacia comunista, come l’Ungheria o la Polonia ‒ di rimettere in discussione lo stato di diritto. La stessa egemonia tedesca nell’Unione, temuta e paventata da Mitterand nel Novecento e dispiegatasi nel nuovo secolo, non rassicura, per forza ed impatto, gli europeisti, come Jurgen Habermas, attenti alla salvaguardia degli equilibri politici nel vecchio continente.
Una cosa è certa, europeisti o meno, il vecchio Muro vive ancora in altrettanti simbolici muri che separano, a causa del diverso grado di sviluppo, le regioni del vecchio continente nella percezione che alimenta il disagio di milioni di europei. Ciò non toglie che la caduta di quel Muro nel 1989 resti, nella storia mondiale, evento di grande e indelebile rilievo.

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