Pubblichiamo l’intervista con il Prof. Vittorio De Bonis, storico della letteratura e critico d’arte, realizzata nell’àmbito del 2° Rapporto su Scuola e Università dell’Eurispes.
Scuola e futuro sono termini che dovrebbero camminare insieme. Professor De Bonis, lei vive da sempre questo mondo, lo conosce negli anfratti positivi e negativi. Qual è lo stato di salute del sistema italiano dell’istruzione?
L’istruzione e le modalità di trasmissione di quello che con una certa ma inevitabile retorica chiamiamo il sapere è una questione spinosa che ha innescato grandi interrogativi fin dagli albori della civiltà. I sapienti greci già si interrogavano sui metodi e i linguaggi più adatti a veicolare la conoscenza. Oggi gli studenti si chiedono: perché ci deve essere qualcuno che obbliga e costringe i discenti a seguire un percorso di apprendimento. Nella tasca dei jeans abbiamo tutto il sapere del mondo, raccolto per noi in uno smartphone. La funzione preziosa, dell’educatore, del mentore, del professore, di chi ti prepara appare sempre più sotto scacco, perché si scontra con la rapidità illusoria, con l’attendibilità improbabile che il web esercita sulle menti di tutti. La straordinaria rapidità di assunzione del dato, cui siamo abituati, rende difficile il lavoro riflessivo di chi cerca di insegnare con scrupolo e attenzione, nel tentativo di catturare l’attenzione sempre più labile di discenti attratti da altro, che non credono in modalità didattiche che sono, in molti casi, ormai superate.
Un quadro preoccupante quello che viene tratteggiato. Ci sono delle vie di uscita e dei margini di evoluzione possibili?
Partire dalla consapevolezza delle criticità è il primo passo da compiere. Pensiamo al modo di insegnare il greco e il latino: avvicinarlo per esempio ai metodi che utilizziamo per insegnare le lingue, costituirebbe già una sperimentazione interessante. Il punto è: non fare apparire la grande sapienza del passato come pesante, come una reliquia polverosa. Quando parlo, con i miei studenti, di alcuni film che abbiamo celebrato e amato per i loro contenuti, a loro appaiono lenti, stancanti, assuefatti come sono all’istantanea attendibilità presuntiva del racconto che corre in Rete, che va oltre i canoni tradizionali della veridicità. In particolare, l’insegnamento si scontra quotidianamente con la qualità visuale della narrazione che scorre rapida per immagini e che domina la dimensione del web. I docenti devono dunque riplasmare tempi e modi della trasmissione del sapere, altrimenti il rischio è quello di non essere più compresi e nemmeno accettati. Anche se può sembrare un gioco d’azzardo, la scuola non può sottrarsi al cambiamento: le menti dei giovani sono modificate dalle protesi tecnologiche, la scienza ci dice che un bambino ai primissimi mesi di vita, è capace di toccare lo schermo e di modificarlo. Sono aspetti straordinari che hanno a che fare con l’evoluzione dell’apparato neuronale e delle nostre facoltà conoscitive. Come educatori non possiamo ignorare queste componenti, decisive per la crescita di ogni individuo.
Quello che dice fa vedere molto bene quanto sia importante investire nella cultura per reggere i ritmi del cambiamento. Quando, però, c’è da “tagliare” si parte sempre dalla scuola. Per quale ragione?
Per via di una miopia che non riusciamo a superare. Si guarda ai risultati nell’immediato, si vede che non sono eccelsi, non si vuole aspettare il tempo necessario in un àmbito delicatissimo per il futuro del Paese, come la scuola. Allora cosa si fa? Si taglia, quando in realtà bisognerebbe fare esattamente il contrario. Ma non va condannata solo la mancanza strutturale di risorse economiche. Sono tanti gli àmbiti su cui bisognerebbe intervenire, a partire dai testi scolastici. Dovrebbero essere riscritti e quando si è tentato di rinnovarli, si scopre che si sono ottenute pubblicazioni ancora più oscure. Gli stessi docenti dovrebbero lavorare di più su loro stessi. Non si può impostare una lezione su Dante, definendolo “sommo poeta” o su Raffaello, “divino pittore”, senza entrare nella spiegazione di quello che c’è dietro l’arte, il talento, il genio universale. Siamo diventati noi i “matusa” che condannavamo da giovani. Non troviamo le parole per comunicare con i nostri studenti, che sono ‒ inutile precisarlo ‒ i nostri figli. Questo porta a delle fratture profonde dentro l’aula tra docenti e studenti, al dileggio dell’autorità, al rifiuto, alla contestazione quando non al rifiuto di ogni imposizione, con delle conseguenze inevitabili sul piano del rendimento scolastico e della didattica. Non dimentichiamo che la categoria degli insegnanti è tra le più preziose e nello stesso tempo mortificate e sottopagate. Non possiamo aspettarci che a queste condizioni possa avvenire il salto di qualità auspicato.
È evidente, alla luce della sua analisi, che tempi, linguaggi e strumenti devono evolversi. In particolare la formazione degli insegnanti, tema evocato poc’anzi, trascurata per troppo tempo, è in larga parte ancora demandata alla buona volontà del singolo, come ci hanno rivelato molti degli esperti che abbiamo intervistato. Intanto se analizziamo le riforme di sistema ci si accorge che raramente hanno risposto alle premesse. Si rimane nel guado con una sensazione di incompiutezza. Qual è il suo giudizio in merito?
Difficile dare una risposta. Abbiamo una tradizione umanistica immensa, eppure sottovalutiamo il valore dell’istruzione, facendoci abbagliare da altre urgenze. Il ragionamento non è molto dissimile da quello fatto prima sui ripetuti e dissennati tagli. Le riforme si arrestano per la mancanza di un disegno strategico di lungo respiro e di continuità da parte della politica che guarda altrove. Quando avremo un mondo pacificato ‒ utopia forse cui dobbiamo comunque con forza credere ‒ quale profilo avranno gli evangelizzatori della conoscenza, gli educatori di una civiltà che ha bisogno di muoversi nella complessità del mondo? Saranno nuovi analfabeti che magari sapranno tutto sulle modalità del web 4.0 senza adeguata formazione e talento? Sarà questa la classe dirigente di un domani che, poi, è già presente? Il nostro Paese ha illuminato la storia con il Rinascimento, che era il riverbero di un paradigma esistenziale, grande motore di sviluppo umano e civile. Memori delle stagioni passate, non possiamo però dormire sugli allori, occorre ridare senso e attualità alla tradizione andando incontro al futuro. Una scuola rinnovata sarà centrale nella dinamica del cambiamento. Lo scorso anno abbiamo ricordato il centenario della nascita di Italo Calvino, fatto molto importante che impone una riflessione.
Stiamo parlando della scuola, dei suoi pregi e difetti, perché dovremmo occuparci di Calvino?
Perché nella riflessione sul sistema formativo è importante misurarsi con modelli di scrittura e di analisi che hanno rivoluzionato il linguaggio. Opere come Il cavaliere inesistente, Il barone rampante, Il visconte dimezzato, pensati e narrati in forma di favola, sono eternamente attraenti. Chi si muove sul web, cerca storie. C’è una favolistica, nera o rosa, che alimenta canali come Instagram. Calvino incontra Dumas nel Conte di Montecristo, in cui il protagonista entra ed esce da una cella, senza mai liberarsi da una sorta di labirinto, dimostrando che il mondo non si sviluppa in maniera lineare. È il “rizoma” il paradigma di una gabbia interconessa e ramificata che rispecchia la realtà. L’autore ci vuole dire che, se abbiamo coscienza di dove ci troviamo, possiamo fare un primo passo.
Tornando alla scuola?
Tornando alla scuola, dobbiamo soffermarci sulla complessità del mondo e della civiltà delle macchine. Il grande scrittore avrebbe sicuramente riscritto delle “cosmicomiche” per raccontare quello che sta avvenendo, in una scuola che deve acquisire consapevolezza del presente e forza di incidere nel progresso della storia. Lo sguardo pensoso, ironico, a volte anche amaro, di uno degli autori più importanti del Novecento, ci fa prendere coscienza della nostra natura umana, non per essere annichiliti dall’impotenza e dalla sofferenza che connota il nostro essere nel mondo, ma per reagire allineando le menti giovani a cambiare la realtà. Gli ideali sono universali, li abbiamo coltivati da giovani quando volevamo cambiare il mondo, sono gli stessi che animano le nuove generazioni che agitano la piazza “reale” e “virtuale”. La scuola deve canalizzare queste energie positive intercettando il mondo emotivo e i linguaggi dei ragazzi, altrimenti abbiamo perso tutti la partita.
Cruciale questo passaggio, per le ricadute che potrà esercitare sulle possibilità di ridare slancio alla crescita di un Paese come il nostro che appare da sempre drammaticamente lacerato. Nord e Sud rimangono territori lontani, la scuola cosa può fare su questa delicata questione?
Può fare molto. La rete di solidarietà e di vincoli umani che caratterizza per esempio il Sud merita di essere valorizzata, non è una leggenda folklorica. In particolare la scuola, in quanto agenzia formativa, può far capire la ricchezza delle tante diversità che compongono l’Italia, adottando una “modalità sudista”, mi piace chiamare così il calore che è parte integrante del metodo di insegnamento. Con la freddezza non si va molto lontano. Il Sud ha sedotto un imperatore algido, che veniva dal Nord come Federico di Hohenstaufen facendolo diventare lo “stupor mundi”, un alfiere delle belle arti e della cultura più raffinata. Vuol dire che esiste una forza immateriale, una ricchezza che può fare da motore anche nella scuola di oggi, avvicinando se non colmando del tutto quello scarto ‒ ambientale ma anche sociale e psicologico ‒ che esiste tra un ragazzo che studia in Lucania e un ragazzo che frequenta le scuole di città come Roma o Milano.
In concreto la visione, interessante ma anche fascinosa su cui lei si sofferma, deve però fare i conti con la realtà di classi multietniche. Non c’è solo una separazione tra Nord e Sud, ma tra universi culturali. Il valore di una reale inclusività tra i banchi può trovare la giusta attenzione?
Passi avanti ne stiamo facendo; vedo quello che accade a Roma nel quartiere dove abito. I ragazzi di ogni colore dialogano come è giusto che sia, parlano senza pregiudizi, si confrontano. Per noi, forse, suonerà come una sorpresa, ma i ragazzi hanno bruciato le differenze. Cerchiamo di dare una base vera a chi cerca un riscatto, per rendere tutti non solo cittadini italiani, ma del mondo. Esseri umani consapevoli dei propri doveri e diritti, non animali brutali da sfruttare oltre ogni misura. Dobbiamo compiere un salto di civiltà, dietro i banchi si costruisce la convivenza se tutte le componenti collaborano: Istituzioni, scuole, docenti, famiglie. Ricordiamoci che chi viene estromesso e messo ai margini, odierà la società. Diamo perciò strumenti agli immigrati per farli entrare senza discriminazioni del sistema sociale, faranno così parte del nostro mondo, contribuendo ad edificare una cultura di sintesi. Saranno così i primi a difendere la “nuova casa” che abitano in un ecosistema meticcio in cui tutti ci muoviamo. Siamo e rimarremo fatalmente italiani, impregnati di umanesimo, nessuno lo mette in discussione. Sforziamoci però di praticare, come docenti ma anche come classe dirigente, una visione cosmopolita, veramente inclusiva della società. Quell’insegnamento con “modalità sudiste”, cui facevo riferimento prima coniando una sorta di neologismo, può farci recuperare quel magic touch che ha segnato la civiltà italiana nel lungo cammino della storia. Non perdiamo questa occasione.
La piaga dell’abbandono scolastico arriva come una lama tagliente, spezzando il percorso da lei tratteggiato e ci riporta sulla terra. Che cosa pensa al riguardo?
Difficile spiegare il fenomeno nel terzo millennio, non bastano le immagini di Gomorra per rendersi conto delle problematiche che determinano la fuga dalla scuola. L’ambiente, la sete di guadagno, la necessità di sopravvivere fanno diventare la cultura come un passatempo per anime belle, è stato purtroppo sempre così. Quando c’è altro da fare ‒ torno a citare Calvino ‒ non c’è mai tempo di leggere un libro. Ma l’istruzione cambia i luoghi oltre alle persone, ricordiamocelo. È l’infrastruttura critica che può aprire la speranza, aprendo scenari inediti, alla mente, al cuore ma anche alla società e all’economia, cosa che spesso si dimentica. L’abbandono va perciò contrastato con ogni mezzo, anche perché la scuola educa anche all’emotività, è il posto dove si impara l’amore, il dolore, i sentimenti. Non possiamo fare a meno dell’esperienza di vita tra i banchi, toglieremmo “pezzi di vita” troppo importanti per i nostri figli.
Avviandoci alla conclusione proviamo a gettare lo sguardo sul mondo universitario. Parliamo di società della conoscenza per definire il tempo in cui viviamo, eppure i dati, anche per questo àmbito, parlano di una progressiva dilatazione degli investimenti. Siamo di fronte all’ennesima insanabile contraddizione?
Quello universitario è un cantiere frastagliato, un arcipelago difficile da leggere. Ho registrato negli anni una evoluzione innegabile, nell’organizzazione e nella struttura dei corsi di laurea, aspetti positivi si mescolano con vecchie pastoie ancora presenti a tutti i livelli dell’ordinamento. In tempi ormai lontani l’Università faceva ancora notizia, e non mi riferisco solo agli anni della lotta studentesca, che pure ho vissuto in prima persona. La sola tessitura del piano di studi, assaporare le prime forme autonome di organizzazione dello studio esaltava il nostro impegno, scatenando un’adrenalina positiva. Ora è sceso il silenzio. Quella “giungla” caotica che pure ci formava è in preda a un grande processo di trasformazione. I Ministeri di riferimento pronunciati meccanicamente sembrano datati, mentre si affacciano corsi online e facoltà telematiche a sparigliare le carte.
A proposito di Università telematiche. L’ingresso del privato nell’offerta formativa universitaria, come va interpretato?
In generale darei un giudizio positivo, a condizione che non ci sia un proliferare senza regole di percorsi che non danno nulla, in termini di valore aggiunto, al percorso formativo degli studenti. Ascoltare voci e testimonianze che vanno oltre il perimetro accademico classico sono utili al confronto e alla crescita. Inutili esibizioni e forme di protagonismo vanno invece banditi: non è di questo che le generazioni, impegnate a reggere la competizione su scala globale, hanno bisogno. Intendo dire che non dobbiamo chiamare il supporto dei privati, delegando ad altri quello che non sappiamo o non vogliamo fare. Dobbiamo costruire piuttosto un’alleanza virtuosa tra questi attori per innalzare la qualità complessiva dell’offerta formativa, ampliando il mercato reale delle opportunità per i giovani che devono costruire il loro futuro.
Se dovesse in conclusione individuare le sfide della scuola futura, su cosa si soffermerebbe?
Bisogna fare in modo che i ragazzi siano interessati ad ascoltare, per ottenere questo come docenti dobbiamo impegnarci a trasmettere saperi originali. Inutile parlare e veicolare contenuti, che altre fonti maneggiano prima e meglio di noi, pensiamo allo spiazzamento che l’emersione prepotente dell’Intelligenza generativa in tutte le sue forme sta generando non solo a scuola. Impegnarsi ad argomentare qualcosa di alternativo, insostituibilmente importante, che vuol dire non oscurabile da altre letture da social, è ancora possibile, come insegnanti dobbiamo perseguire questa possibilità come obiettivo. Se non ci attrezziamo in questo senso, la piaga dell’abbandono crescerà fatalmente e saremo sconfitti dal divenire dei fenomeni. Una volta l’alunno seguiva con soddisfazione il professore perché diceva “cose che non si trovavano sui libri”. Oggi noi dobbiamo essere in grado di trasmettere contenuti che non si trovano sul web, allora potremo dire che la nostra funzione di maestri e mentori ha ancora una profonda ragion d’essere, anche nel tempo complesso che ci troviamo a vivere.