Nel 1944 gli Stati Uniti posero le fondamenta del nuovo ordine economico mondiale. Oggi, quelle fondamenta scricchiolano sotto il peso di decenni di disavanzi e squilibri interni. Ripercorrere la storia aiuta a chiarire che le radici del disavanzo commerciale americano non vengono da fuori ma sono soprattutto domestiche. Al termine della Seconda guerra mondiale il sistema monetario internazionale – definito dagli accordi di Bretton Woods del 1944 – basato su un tasso di cambio fisso, ruotava attorno al dollaro, che sostituì definitivamente la sterlina inglese e venne riconosciuto come l’unica valuta convertibile in oro. Gli Stati Uniti godevano di ampi surplus commerciali grazie alla forte domanda estera di beni americani, soprattutto europea, facilitata anche dal Piano Marshall finalizzato alla ricostruzione del vecchio continente. L’Europa avena bisogno di beni americani e non aveva capacità produttiva sufficiente per esportare. È il periodo del cosiddetto “dollar shortage”. Con la ripresa dell’Europa e l’aumento degli investimenti esteri americani, si inverte il flusso: è il preludio della crisi dell’intero sistema.
Nel 1944 gli Stati Uniti posero le fondamenta del nuovo ordine economico mondiale, ma oggi quel sistema scricchiola
La crescente emissione di dollari all’estero e la progressiva diminuzione delle riserve auree statunitensi resero sempre più difficile garantire la convertibilità in oro. L’inflazione americana, acuita dalla guerra del Vietnam, alimentò i dubbi sulla stabilità del dollaro. Nel 1971 il Presidente Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro: è il “Nixon shock”, che segna la fine del sistema di Bretton Woods. Si aprì così la stagione dei cambi fluttuanti. La bilancia commerciale iniziò a deteriorarsi. Dal 1975, gli Stati Uniti registrarono deficit commerciali quasi ininterrotti, in parte spiegati da una domanda interna spinta oltre la capacità produttiva nazionale, sostenuta da un deficit pubblico cronico. Le crisi petrolifere del 1973 e del 1979 contribuirono a un periodo di stagflazione, cioè stagnazione accompagnata da inflazione. L’eccesso di domanda interna, aggravato dai disavanzi pubblici, spinse verso un aumento delle importazioni. Con l’arrivo dell’amministrazione Reagan, la politica economica americana fu segnata da forti tagli fiscali e da un aumento della spesa militare, che ha generato ampi deficit di bilancio. La Federal Reserve, guidata da Paul Volcker, contrastò l’inflazione alzando i tassi d’interesse, attirando capitali esteri e rafforzando il dollaro. Questo apprezzamento danneggiò le esportazioni, il settore dell’industria, in particolare automobilistica, e aggravò il deficit commerciale.
Nel 1971 il Presidente Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, decisione che segnò la fine del sistema di Bretton Woods
Dagli anni Novanta il dollaro tornò ad apprezzarsi e il risparmio delle famiglie inizia a calare, mentre il deficit pubblico si ridusse fino a raggiungere un pareggio nel 2000. Tuttavia, la bilancia commerciale continua a peggiorare a causa della forte domanda interna e del cambio sfavorevole, che penalizzò le esportazioni. Gli anni 2000 sono caratterizzati da bolle speculative e squilibri strutturali. Nei primi anni del decennio, il deficit commerciale si aggravò fortemente. A pesare furono diversi fattori: la bolla delle dot-com, seguita da quella immobiliare dei mutui subprime, il crollo del risparmio privato, l’aumento del deficit pubblico e il rafforzamento del dollaro. Le esportazioni diminuirono mentre le importazioni crebbero, sostenute dalla domanda interna. Sebbene fattori esterni – come la liberalizzazione del commercio, l’ingresso della Cina nel WTO, il ruolo del dollaro come valuta di riserva e gli afflussi di capitali in cerca di un porto sicuro – abbiano influito, le vere responsabilità del disavanzo commerciale degli Stati Uniti sono da ricercarsi soprattutto all’interno: scarsa propensione al risparmio e deficit pubblico cronico.
Le vere responsabilità del disavanzo commerciale degli Stati Uniti sono da ricercarsi soprattutto all’interno
La crisi del 2008 costrinse il paese a politiche fiscali espansive che fecero esplodere il deficit pubblico. Nonostante un parziale miglioramento della bilancia commerciale negli anni successivi, il disavanzo rimase elevato. Il risparmio privato era debole e il deficit pubblico si mantenne strutturalmente alto, con una nuova impennata durante la pandemia del 2020. Oggi il deficit pubblico statunitense è pari all’8% del Pil. Il risparmio delle famiglie si attesta attorno al 4% del reddito disponibile; meno della metà di quello tedesco e un decimo rispetto a quello cinese. La bilancia commerciale dei beni registra un disavanzo pari al 4-5% del Pil, mentre il saldo delle partite correnti oscilla fra il -2 e il -3%. La conclusione è chiara: attribuire le responsabilità del disavanzo commerciale esclusivamente a fattori esterni – come l’ingresso della Cina nel WTO, il ruolo globale del dollaro o i flussi di capitali – è comodo, ma fuorviante.
Oggi il deficit pubblico negli Stati Uniti è pari all’8% del Pil e il risparmio delle famiglie si attesta attorno al 4% del reddito disponibile
La vera chiave sta nelle politiche domestiche. Il disavanzo è pressoché Made in USA. Se gli Stati Uniti volessero correggere i loro squilibri esterni, dovrebbero correggere i propri squilibri strutturali: il basso risparmio delle famiglie e l’ampiezza del disavanzo pubblico. Senza una strategia di riequilibrio interno, nessuna barriera doganale né rivalutazione valutaria potrebbe davvero cambiare le sorti della bilancia commerciale americana. Solo affrontando questi nodi strutturali, gli Stati Uniti potranno recuperare equilibrio e credibilità economica internazionale.