La plastica, materiale versatile e durevole che ha rivoluzionato innumerevoli settori della vita moderna, ha altresì generato, specie negli ultimi anni, una crescente preoccupazione per il suo impatto ambientale a lungo termine. Con una produzione globale di oltre 400 milioni di tonnellate annue e in continuo aumento, la gestione del fine vita di questi prodotti è diventata una delle sfide ambientali della nostra epoca per governi, industria e società civile. In questo contesto, il commercio transfrontaliero di rifiuti plastici ha assunto dimensioni rilevanti, configurandosi come un settore economico a sé stante con proprie dinamiche, attori e problematiche. Al crocevia tra logiche economiche, regolamentazioni ambientali e diseguaglianze globali, questo settore muove ogni anno milioni di tonnellate di materiali, attraversando confini, mercati e legislazioni in un flusso incessante che spesso sfugge al controllo pubblico e sfida le categorie convenzionali di “merce” e “scarto”. Dietro alla facciata della transizione ecologica, infatti, si nasconde una dinamica complessa in cui ciò che in un paese è rifiuto, in un altro diventa risorsa da trattare, riciclare o — nei casi peggiori — semplicemente abbandonare.
La gestione dei rifiuti plastici è diventata una delle sfide ambientali della nostra epoca per governi, industria e società civile
L’origine di questo commercio affonda le sue radici negli anni Settanta e Ottanta, quando la crescente produzione di plastica e la pressione per ridurre i costi di smaltimento nei paesi industrializzati spinsero molte nazioni ad esportare i propri rifiuti verso economie in via di sviluppo. Questa prassi, inizialmente giustificata con il principio della cooperazione internazionale e del riutilizzo delle risorse, ha progressivamente rivelato i suoi limiti, dando origine a forme di dumping ambientale[1] e a un’asimmetria strutturale nella gestione dei carichi ecologici. Il caso della Cina — per lungo tempo principale destinatario di rifiuti plastici occidentali, fino all’imposizione del blocco alle importazioni nel 2018 — ha rappresentato una cesura storica, costringendo la comunità internazionale a ripensare regole, responsabilità e strumenti di monitoraggio. Da diversi anni, i governi di tutto il mondo stanno lavorando per ridurre l’impatto dell’inquinamento da plastica, sia attraverso politiche nazionali e locali sul recupero dei materiali e la gestione dei rifiuti, sia attraverso un mosaico di accordi bilaterali, regionali e multilaterali. Ma la realtà quotidiana di questo mercato resta frammentaria e opaca. La classificazione doganale dei materiali, le lacune nei sistemi di tracciamento, le differenze nei livelli di trattamento e le disuguaglianze economiche tra paesi continuano a produrre zone d’ombra in cui il rischio di traffici illegali o pratiche non sostenibili è tutt’altro che remoto.
La crescente produzione di plastica ha spinto i paesi industrializzati ad esportare i propri rifiuti verso economie in via di sviluppo
L’ultima edizione del report OCSE Monitoring trade in plastic waste and scrap 2025 restituisce un’immagine complessa e sfaccettata di questa dinamica globale, evidenziando come il fenomeno, lungi dall’essersi arrestato, abbia assunto nuove forme, spostando i suoi epicentri geografici e sollevando interrogativi etici e politici di estrema attualità. Nel 2023, il commercio internazionale dei rifiuti plastici ha proseguito la sua traiettoria discendente, un trend che, sebbene innescato soprattutto da misure unilaterali – come il già citato celebre “National Sword” imposto dalla Cina nel 2018, che ha limitato drasticamente le importazioni del paese – sembra oggi consolidarsi anche sotto la spinta di accordi multilaterali come la Convenzione di Basilea[2] e la Decisione dell’OCSE[3] in materia di movimenti transfrontalieri di rifiuti. Nel solo arco temporale 2014–2023, il volume globale di rifiuti plastici commercializzati si è ridotto della metà, segnando una cesura netta nel flusso internazionale di materiali difficili da trattare e spesso destinati a paesi con capacità di riciclo limitate. L’elemento di discontinuità maggiore è stato l’approvazione, nel 2021, di alcuni emendamenti alla Convenzione di Basilea, che hanno introdotto controlli più rigorosi sul commercio transfrontaliero di rifiuti plastici con l’obiettivo di garantire che solo materiali facilmente riciclabili e privi di contaminazioni pericolose possano essere liberamente scambiati. Queste modifiche sono state parzialmente incorporate anche nella Decisione OCSE, creando un sistema di controllo a più livelli che ha contribuito a ridefinire le dinamiche del commercio.
Per dumping ambientale si intende la produzione o l’esportazione di materiali in paesi senza o con pochi vincoli di carattere ambientale
Tuttavia, a dispetto di una diminuzione complessiva delle esportazioni, il 2023 ha mostrato un’inversione di tendenza per alcune categorie di rifiuti e per specifiche rotte commerciali. In particolare, le esportazioni dei paesi OCSE verso Stati non membri – spesso a basso o medio reddito – hanno registrato un incremento del 15%, interrompendo il percorso virtuoso di riduzione avviato dopo il 2020. Malaysia, Vietnam e Indonesia, già tra i maggiori destinatari nel decennio precedente, sono tornati a essere principali hub di destinazione: le esportazioni verso ciascuno di questi paesi sono aumentate dal 2022 al 2023, in particolare verso l’Indonesia (da 0,21 a 0,27 milioni di tonnellate) e la Malesia (da 0,54 a 0,61 milioni di tonnellate). Ciò solleva inevitabilmente il dubbio se, i nuovi strumenti di controllo siano sufficienti o se, come spesso accade nelle dinamiche globali, i flussi si riorganizzino piuttosto che cessare. Il problema non è soltanto quantitativo ma qualitativo: i dati indicano che i rifiuti plastici esportati tra paesi OCSE tendono a essere di valore superiore – e quindi potenzialmente più riciclabili – rispetto a quelli spediti verso paesi extra-OCSE, il che suggerisce che la componente “problematic waste” continui a dirigersi verso contesti meno attrezzati per il riciclo e lo smaltimento. Un caso emblematico è rappresentato dalla voce doganale HS 391530 – rifiuti di PVC[4] – che nel 2023 ha registrato ancora quasi il 20% delle esportazioni dirette verso paesi non-OCSE, nonostante la loro classificazione come rifiuti pericolosi richieda un controllo stringente. In due casi su tre, queste spedizioni partivano dal Giappone.
Malaysia, Vietnam e Indonesia, già tra i maggiori destinatari nel decennio precedente, sono tornati a essere principali hub di destinazione
Uno dei contributi analiticamente più interessanti del report riguarda la comparazione tra il flusso di rifiuti plastici e quello di carta non differenziata: due flussi che hanno seguito traiettorie simili per natura e destinazione, ma solo uno dei quali – quello plastico – è stato oggetto di una stretta normativa multilaterale. Il risultato? A parità di condizioni, il commercio di rifiuti plastici è risultato nel 2023 inferiore del 15% rispetto a quanto ci si sarebbe aspettati se avesse seguito l’andamento della carta, suggerendo un effetto deterrente effettivo dei controlli internazionali. Ma al di là delle cifre, ciò che il documento OCSE sottolinea con forza è la dimensione politica e morale di un commercio che, pur regolato, resta opaco. Il rischio è che si perpetui una forma di dumping ambientale mascherato da cooperazione economica: una “transizione circolare” che finisce per scaricare sugli anelli più deboli della catena globale la parte più sporca della sostenibilità. In altre parole, mentre nei paesi industrializzati cresce la retorica dell’economia verde e del riciclo virtuoso, non si arresta la tendenza a esternalizzare i costi ambientali e sanitari verso economie più fragili.
La Convenzione di Basilea prevede un maggiore controllo sul traffico dei rifiuti plastici, ma i dati differiscono dalla realtà operativa
Il report non ignora gli sforzi compiuti: diversi paesi stanno migliorando il tracciamento dei rifiuti, alcuni hanno attivato controlli doganali più rigorosi e, le segnalazioni al Segretariato di Basilea, seppur ancora parziali, sono aumentate. Eppure permane un evidente scollamento tra i dati ufficiali e la realtà operativa: nel 2023, solo una piccola frazione dei rifiuti soggetti a notifica e a procedura PIC[5] sono stati effettivamente registrati come tali nei database di Basilea. Tale procedura, ispirata ai principi di trasparenza e della responsabilità condivisa prevede che il paese esportatore di rifiuti pericolosi o altri rifiuti specifici, notifichi al Segretariato di Basilea l’intenzione di esportare un determinato carico di rifiuti, specificando: tipo e quantità di rifiuto, destinazione, modalità di trasporto, tipo di trattamento previsto nel paese ricevente. Il carico può partire solo dopo la ricezione del consenso formale da parte del paese ricevente e deve essere accompagnato da documentazione tracciabile lungo l’intera catena logistica. L’intero processo ha l’obiettivo di evitare che rifiuti pericolosi o problematici circolino in assenza di controlli o vengano esportati all’insaputa dei governi dei paesi destinatari. L’assenza di un volume consistente di questi rifiuti nei registri ufficiali previsti dalla Convenzione di Basilea, testimonia la persistenza di zone grigie nella filiera del commercio transfrontaliero.
Mentre nei paesi industrializzati cresce la retorica del riciclo virtuoso, si esternalizzano i costi ambientali verso le economie più fragili
Ciò che emerge da questo quadro è la necessità di andare oltre l’impianto regolatorio attuale, costruendo meccanismi di sorveglianza più efficaci, promuovendo la trasparenza dei flussi e soprattutto responsabilizzando i produttori dei rifiuti – pubblici e privati – sulla destinazione finale dei propri scarti. Sebbene pensando al lungo termine, molte tendenze si stiano muovendo in una direzione positiva, la battaglia contro l’inquinamento da plastica non può vincersi con le sole statistiche commerciali o con accordi multilaterali dall’efficacia limitata. È necessaria una governance internazionale del rifiuto che sappia coniugare giustizia ambientale, solidarietà tra Nord e Sud del mondo e una reale volontà di chiudere il cerchio dell’economia circolare senza relegare le sue contraddizioni agli angoli invisibili del pianeta. Ogni chilo di plastica che attraversa una frontiera senza garanzie non è solo un fallimento normativo, ma una rinuncia collettiva alla coerenza del nostro impegno ecologico.
*Mariarosaria Zamboi, ricercatrice dell’Eurispes.
[1] Per dumping ambientale si intende la produzione o l’esportazione di materiali in paesi senza o con pochi vincoli di carattere ambientale.
[2] La Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione è un trattato internazionale, sotto l’egida del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, pensato per ridurre i movimenti di rifiuti pericolosi tra i paesi e, in particolare, per impedire il trasferimento di rifiuti pericolosi dai paesi sviluppati verso i paesi in via di sviluppo. Il testo è stato adottato il 22 marzo 1989 ed è entrato in vigore il 5 maggio 1992. La Convenzione è stata ratificata da 189 paesi, compresa l’Unione europea; gli Stati Uniti e Haiti l’hanno sottoscritta ma non ratificata.
[3] Decisione OECD/LEGAL/0266.
[4] Polimeri di cloruro di vinile.
[5] Prior Informed Consent (Consenso informato preventivo). La procedura prevede che il Paese esportatore notifichi.