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Più finanziamenti e valore al capitale umano in Sanità: intervista a Nino Cartabellotta, Presidente GIMBE

di
Antonio Alizzi

Pubblichiamo l’intervista con Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, che promuove l’integrazione delle migliori evidenze scientifiche nelle decisioni politiche, manageriali, professionali inerenti la salute dei cittadini.

La crisi di sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale è conclamata: come si può garantire un sistema sanitario sostenibile in grado di erogare i livelli essenziali delle prestazioni?

La crisi di sostenibilità del SSN è in gran parte dovuta a un lungo periodo di definanziamento, che ha segnato il decennio 2010-2019. Durante questo periodo, alla sanità pubblica sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro, con una crescita media del Fondo Sanitario Nazionale dello 0,9% annuo, un tasso inferiore a quello dell’inflazione. L’emergenza Covid-19 ha poi aggravato la situazione, evidenziando carenze di personale e risorse che hanno limitato la capacità del SSN di garantire i livelli essenziali di assistenza (LEA). Serve un rifinanziamento strutturale che riporti la spesa sanitaria pubblica in linea con la media europea, oltre a una profonda revisione dei meccanismi di programmazione e valorizzazione del personale sanitario. È fondamentale migliorare le condizioni di lavoro e la valorizzazione del capitale umano per evitare la fuga verso il settore privato o all’estero, e garantire così la sopravvivenza di un SSN in grado di offrire servizi di qualità.

Quali interventi macroeconomici sono necessari per garantire un finanziamento sostenibile del SSN?

Nel 2023 la spesa sanitaria pubblica in Italia si attesta al 6,2% del Pil, percentuale inferiore sia rispetto alla media Ocse del 6,9%, sia rispetto alla media europea del 6,8%. E per spesa sanitaria pubblica pro capite siamo solo al 16° posto tra i 27 Paesi europei dell’area Ocse e in ultima posizione tra quelli del G7 e con un gap con la media dei paesi europei di € 807 pro capite, che si traducono in una cifra monstre di oltre € 47,6 miliardi. Ecco perché serve un progressivo e consistente rilancio del finanziamento pubblico per la sanità, oltre che coraggiose riforme di sistema per garantire a tutti la tutela della salute, un diritto costituzionale fondamentale e inalienabile. La politica deve avere ben chiaro che la perdita di un SSN pubblico, finanziato dalla fiscalità generale e fondato su princìpi di universalità, eguaglianza ed equità, determinerebbe un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti. E senza una rapida inversione di rotta da tracciare nella Legge di Bilancio 2025, siamo destinati a rinunciare silenziosamente al diritto alla tutela della salute, già compromesso per le fasce socio-economiche più deboli, per anziani fragili e nel Mezzogiorno. E scivoleremo inesorabilmente da un Servizio Sanitario Nazionale fondato per garantire un diritto costituzionale a tutte le persone, a 21 Sistemi Sanitari Regionali regolati dalle leggi del libero mercato, dove le prestazioni saranno accessibili solo a chi potrà pagare di tasca propria o avrà sottoscritto costose polizze assicurative.

Come valuta l’efficacia delle riforme introdotte con il PNRR sulla qualità delle cure e sull’accessibilità ai servizi?

La Missione Salute del PNRR rappresenta una grande opportunità per potenziare il SSN, ma la sua attuazione deve essere sostenuta da varie azioni politiche. Innanzitutto, per attuare il Dm 77 bisogna mettere in campo coraggiose riforme di sistema, finalizzate in particolare a ridisegnare il ruolo e le responsabilità dei medici di famiglia e facilitare l’integrazione con l’infermiere di famiglia; in secondo luogo, servono investimenti certi e vincolati per il personale sanitario dal 2027, oltre che un’adeguata rivalutazione del fabbisogno di personale infermieristico, la cui carenza oggi rappresenta un grande ostacolo per attuare il Dm 77; infine, occorre una rigorosa governance delle Regioni per colmare i gap esistenti che non può ripercorrere, come previsto dal contratto istituzionale di sviluppo, la fallimentare strategia dei Piani di rientro basata sull’attuazione dei poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle Regioni inadempienti. Ma soprattutto la politica, oltre a credere nell’impianto della Missione Salute già avviato e inserirlo in un quadro di rafforzamento complessivo del SSN. In assenza di queste misure finiremo per indebitare le future generazioni solo per finanziare solo un costoso “lifting” del SSN.

L’autonomia differenziata aumenta le disuguaglianze sanitarie tra le Regioni italiane?

L’autonomia differenziata in sanità è inevitabilmente destinata ad ampliare le disuguaglianze regionali avvantaggiando le Regioni più forti del Nord e penalizzando ulteriormente quelle già deboli del Sud. Qualche esempio? La maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale provocherà una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni in grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose, impoverendo ulteriormente il capitale umano del Mezzogiorno; l’autonomia nella definizione del numero di borse di studio per scuole di specializzazione e medici di medicina generale determinerà una dotazione asimmetrica di specialisti e medici di famiglia. Inoltre, le maggiori autonomie sul sistema tariffario rischiano di aumentare le diseguaglianze nell’offerta dei servizi e favorire l’avanzata del privato. Le Regioni meridionali saranno sempre più dipendenti dalle ricche Regioni del Nord con un effetto paradosso: il massimo incremento della mobilità verso le Regioni settentrionali rischia di peggiorare l’assistenza sanitaria per i loro residenti. In tal senso, una “spia rossa” si è già accesa in Lombardia che nel 2021 si trova sì al primo posto per mobilità attiva (€ 732,5 milioni), ma anche al secondo posto per mobilità passiva (-€ 461,4 milioni): in altre parole, un numero molto elevato di cittadini lombardi va a curarsi fuori Regione. Perché è impossibile aumentare oltre un certo limite la produzione di servizi e prestazioni sanitarie.

L’espansione della sanità privata mette in discussione l’universalismo del SSN?

Il privato accreditato rappresenta una grande risorsa per il SSN, ma deve mantenere la funzione di integrazione al pubblico. Ovvero deve erogare le prestazioni che servono, dove servono e quando servono. Purtroppo, l’utilizzo improprio dello strumento dell’accreditamento in alcune Regioni ha portato all’espansione incontrollata del privato accreditato. In un contesto di indebolimento della sanità pubblica si è già registrato un aumento dell’offerta privata per soddisfare i bisogni di salute: nel 2022 il numero di strutture sanitarie private accreditate sono quasi la metà di quelle che erogano l’assistenza ospedaliera (48,7%) e il 59,1% di quelle per la specialistica ambulatoriale. E sono prevalentemente private le strutture per l’assistenza residenziale (85%) e semiresidenziale (72,3%) e quelle riabilitative (78,6%). E il problema diventa una minaccia quando le strutture private vengono acquisite dalle assicurazioni, creando un sistema parallelo interamente privato, sia nel finanziamento sia nell’erogazione delle prestazioni sanitarie. Un sistema in grado di sostituirsi interamente al pubblico, seguendo le regole del libero mercato.

Come può il SSN affrontare la crescente tossicità finanziaria del cancro senza compromettere l’universalismo del sistema?

Serve un rafforzamento del finanziamento pubblico e una migliore gestione delle risorse perché il costo dei farmaci oncologici innovativi oggi non li rende equamente accessibili. Ovviamente, bisogna potenziare l’accesso a percorsi di prevenzione che riducono il costo complessivo delle cure. Infatti, per quanto riguarda l’adempimento ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) nel 2022 a livello nazionale si rileva un netto peggioramento sugli stili di vita e sugli screening oncologici, in particolare nelle Regioni del Sud.

Quali misure concrete suggerisce per affrontare il problema delle liste di attesa?

Secondo l’Istat, il 4,5% della popolazione ha dichiarato di aver rinunciato a curarsi lo scorso anno a causa dei lunghi tempi di attesa, un dato in aumento rispetto al 2022 e quasi raddoppiato rispetto ai livelli pre-pandemia. Il Governo è intervenuto con un decreto legge che, tuttavia, non prevede risorse aggiuntive e potrà essere pienamente operativo solo previa approvazione di almeno sette decreti attuativi con scadenze non sempre definite e tempi di attuazione che rischiano di diventare biblici. Inoltre, il Dl non include misure per ridurre la domanda inappropriata di esami diagnostici e visite specialistiche. Occorrono interventi strutturali che vadano oltre i decreti emergenziali. In primis, bisogna investire sul personale sanitario aumentando gli organici, e non stremare ulteriormente quello già in servizio, con il rischio di alimentare ulteriormente la fuga dei professionisti dal SSN.

Come assicurare una digitalizzazione omogenea su tutto il territorio nazionale?

L’enfasi sulle grandi opportunità offerte dalla telemedicina nella riorganizzazione dell’assistenza sanitaria si sono concentrate soprattutto sui dispositivi tecnologici, e molto meno sulla necessità di risolvere due criticità fondamentali per prevenire nuove diseguaglianze. Innanzitutto, l’elevato livello di digital illitteracy che richiede un programma di alfabetizzazione digitale di professionisti sanitari, pazienti, familiari e caregiver. In secondo luogo, la necessità di digitalizzare le infrastrutture: infatti, la piena attuazione delle riforme previste dal PNRR è strettamente legata alla digitalizzazione del Paese (identità digitale, adozione del cloud, servizi pubblici digitali) e alla disponibilità su tutto il territorio nazionale di una connettività veloce e uniforme.

Quali strategie suggerisce per affrontare la crisi di burnout tra il personale sanitario?

È necessario ridurre i carichi di lavoro e migliorare le condizioni organizzative e la sicurezza su lavoro. Quello sanitario, infatti, è diventato tra i settori più interessati dal burnout, con pesanti ricadute sul benessere e la salute dei singoli e dell’intera organizzazione. Bisogna investire in percorsi di formazione e valorizzazione del personale, promuovendo al contempo un clima lavorativo sano e collaborativo. E ovviamente, bisogna aumentare le assunzioni perché alla radice del burnout ci sono sovraccarichi di lavoro conseguenti alla carenza di personale.

Quali altre azioni strategiche dovrebbero essere intraprese per mantenere il carattere pubblico e universale del SSN?

La Fondazione GIMBE – con il Piano di Rilancio del SSN – ha da tempo indicato la terapia per curare il nostro SSN: aumentare progressivamente il finanziamento pubblico per allinearlo almeno alla media dei paesi europei; potenziare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni; garantire l’aggiornamento continuo dei livelli essenziali di assistenza per rendere subito accessibili le innovazioni, oltre che la loro esigibilità su tutto il territorio nazionale; rilanciare le politiche sul personale sanitario; riprogrammare l’offerta dei servizi socio-sanitari in relazione ai reali bisogni di salute della popolazione; regolamentare il rapporto pubblico-privato e la sanità integrativa; investire in prevenzione e promozione della salute; potenziare l’informazione istituzionale basata sulle evidenze scientifiche; aumentare le risorse per la ricerca indipendente; rimodulare ticket e detrazioni fiscali per le spese sanitarie.

L’intervista a Nino Cartabellotta è contenuta all’interno del 3° Rapporto su Salute e Sistema Sanitario realizzato da Eurispes ed Enpam.

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