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Neuroscienze, active aging, riserva cognitiva: intervista con la Prof.ssa Raffaella Ida Rumiati

di
Antonio Alizzi

Neuroscienze, Active aging, riserva cognitiva, riconoscimento del ruolo delle donne in Sanità nell’intervista con la Prof.ssa Raffaella Ida Rumiati, Direttore Neuroscience and Society Lab, SISSA – Scuola Superiore di Studi Avanzati.

Nel contesto della ricerca, specie quella scientifica, quali sono, secondo lei, le principali sfide etiche che abbiamo davanti? E in àmbito clinico e medico, come si possono bilanciare le esigenze di innovazione con la responsabilità verso la persona?

Le principali sfide etiche nella ricerca scientifica riguardano la protezione dei dati, la sicurezza dei partecipanti e la trasparenza dei risultati. In un contesto di crescente utilizzo di tecnologie avanzate, come l’Intelligenza artificiale, è essenziale garantire il consenso informato e tutelare la privacy. In àmbito clinico e medico, il bilanciamento tra innovazione e responsabilità richiede una valutazione attenta dei benefici a lungo termine rispetto ai rischi, sempre con un’attenzione al benessere del paziente. La ricerca, quindi, deve mirare a soluzioni non solo scientificamente valide, ma anche eticamente sostenibili, rispettando la dignità e i diritti umani. Nel campo delle neuroscienze, l’approvazione dei progetti da parte dei comitati etici è ormai una prassi consolidata. Tecniche come le interfacce cervello-computer, la stimolazione cerebrale (ad esempio, la stimolazione magnetica transcranica e la stimolazione cerebrale profonda) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI), pur offrendo vantaggi diagnostici e clinici, potrebbero compromettere la privacy e l’autonomia mentale dei partecipanti, esponendoli a intrusioni nei loro pensieri e decisioni. È fondamentale prestare particolare attenzione ai partecipanti vulnerabili, come bambini, anziani e pazienti con disabilità. Inoltre, la gestione dei dati neuroscientifici richiede un’attenzione speciale alla riservatezza e all’uso responsabile, per evitare usi impropri o contrari agli interessi dei partecipanti. La neurostimolazione potrebbe essere impiegata anche per il miglioramento fai-da-te delle prestazioni cognitive, sollevando importanti questioni etiche, tra cui il rischio di ampliare le disuguaglianze sociali, favorendo solo coloro che possono permettersi tali interventi. Una sfida etica particolarmente complessa riguarda gli organoidi cerebrali, modelli tridimensionali di cervello umano sviluppati da cellule staminali per lo studio e la cura di malattie neurologiche e psichiatriche. Se questi organoidi dovessero evolversi fino ad acquisire caratteristiche simili alla coscienza, sorgerebbero interrogativi su come trattarli eticamente e su eventuali diritti da riconoscere loro. In conclusione, la tutela della dignità e dei diritti dei partecipanti e dei pazienti deve rimanere al centro dell’attenzione, per garantire che la ricerca contribuisca al benessere umano senza compromettere valori etici fondamentali, anticipando anche le conseguenze etiche e sociali di tecnologie in evoluzione.

Le donne medico del SSN hanno superato gli uomini. Qual è lo stato attuale del riconoscimento delle donne non solo in sanità, ma nella società in generale? Quali cambiamenti o politiche ritiene fondamentali per garantire un’effettiva equità di genere, anche a livello di leadership e di opportunità?

Nel SSN italiano, le donne mediche hanno ormai superato gli uomini in numero, con una crescente femminilizzazione della professione, soprattutto tra le più giovani. Tuttavia, la loro presenza varia significativamente tra le diverse specialità: in discipline come ginecologia e ostetricia, pediatria, dermatologia e oftalmologia, le donne sono più numerose, mentre in specialità come chirurgia, anestesiologia e ortopedia gli uomini rimangono prevalenti. Inoltre, la distribuzione geografica della presenza femminile nel SSN evidenzia una maggiore concentrazione al Nord rispetto a Centro, Sud e Isole. Nonostante il superamento numerico, le donne medico nel SSN continuano a incontrare serie difficoltà nell’accedere a posizioni di leadership e responsabilità. È fondamentale adottare politiche che promuovano modelli di leadership inclusivi e incentivino una maggiore presenza femminile nelle posizioni decisionali. Inoltre, un cambiamento culturale che incoraggi anche gli uomini a condividere le cure familiari e domestiche potrebbe ridurre le difficoltà che le donne affrontano, favorendo così un’effettiva equità di genere nel sistema sanitario.

La relazione tra cibo e cervello è un tema centrale nelle sue ricerche. Cosa ci dicono le neuroscienze e cosa emerge dai suoi studi?

Negli ultimi anni, il mio laboratorio si è concentrato sull’identificazione dei meccanismi neuronali che influenzano le preferenze e le scelte alimentari. Abbiamo esplorato le risposte cerebrali alle caratteristiche visive del cibo, il ruolo dei circuiti di ricompensa nei comportamenti alimentari e l’impatto dell’alimentazione su funzioni cognitive come memoria e attenzione. In particolare, in numerosi studi, abbiamo testato l’ipotesi, emersa nell’ambito della primatologia, che l’uso del fuoco per la preparazione del cibo abbia determinato l’evoluzione dei nostri antenati in Homo sapiens. Abbiamo quindi trovato prove che il nostro cervello elabora visivamente i cibi cotti in modo diverso rispetto a quelli crudi. I nostri studi EEG hanno chiarito la dinamica temporale dell’elaborazione visiva del cibo, mostrando che la distinzione cotto/crudo avviene in una fase precoce. Abbiamo anche dimostrato che il riconoscimento degli alimenti cotti è più rapido e accurato rispetto a quello degli alimenti crudi, forse anche perché i cibi cotti sono più calorici e più comuni. Infatti, in un campione di centenari, abbiamo osservato il pattern opposto, poiché i cibi processati sono stati storicamente meno frequenti nella loro dieta. Gli studi condotti su diverse popolazioni neurologiche, tra cui individui con morbo di Parkinson, ictus, demenza e anoressia, ci hanno permesso di chiarire come queste condizioni influenzino i comportamenti legati al cibo. In conclusione, il nostro lavoro offre una comprensione più approfondita delle interazioni tra cervello e alimentazione, evidenziando come diversi fattori possano modellare i comportamenti alimentari sia in condizioni di salute che di patologia.

Cosa significa active aging? Quali strategie o interventi, dal punto di vista delle neuroscienze, risultano efficaci per favorire un invecchiamento attivo e sano?

L’invecchiamento attivo si riferisce a un approccio che promuove il benessere fisico, mentale e sociale degli anziani, incentivando la loro partecipazione sociale, l’autosufficienza e il miglioramento della qualità della vita. Dal punto di vista neuroscientifico, alcune strategie si sono dimostrate particolarmente efficaci nel sostenere l’invecchiamento sano. L’esercizio mentale e fisico regolare, e una vita sociale vivace, ad esempio, favoriscono la plasticità cerebrale, riducendo il rischio di declino cognitivo. L’allenamento cognitivo, che stimola la memoria e le funzioni esecutive, ha evidenziato effetti positivi nel rallentare i processi di invecchiamento cerebrale. Inoltre, le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva, come la tDCS (stimolazione transcranica a corrente diretta), sono state associate a benefici significativi nella potenza e nella connettività cerebrale, contribuendo a un miglioramento delle capacità cognitive. Combinando questi approcci, è possibile favorire un invecchiamento sano e attivo, ritardando l’insorgenza di patologie neurodegenerative.

Il concetto di riserva cognitiva è ampiamente usato per spiegare le differenze individuali nella resistenza al declino cognitivo. Come descriverebbe questo concetto e quali ritiene siano i suoi principali limiti?

La riserva cognitiva (RC) è un costrutto che spiega le differenze nelle traiettorie del declino cognitivo tra l’invecchiamento sano e quello patologico. Il concetto di riserva cognitiva si riferisce alla capacità del cervello di adattarsi e compensare l’invecchiamento o le patologie neurodegenerative, attraverso strategie alternative, per mantenere le funzioni cognitive. In sostanza, si può pensare alla riserva cognitiva come a una sorta di backup che consente a una persona di mantenere un buon livello di funzione cognitiva anche quando il cervello invecchia o subisce danni. Questo concetto è stato utilizzato per spiegare perché alcune persone, nonostante abbiano patologie come l’Alzheimer o altre demenze, presentano sintomi più lievi rispetto ad altri con simili danni cerebrali. La riserva cognitiva è influenzata da vari fattori, tra cui l’istruzione, l’occupazione, l’attività sociale e il coinvolgimento in attività stimolanti a livello cognitivo. Tuttavia, ci sono alcuni limiti nel costrutto di RC. In primo luogo, non c’è un accordo su quali siano i fattori che contribuiscono alla riserva cognitiva, il che rende difficile confrontare i diversi studi. Non è ancora chiaro come la riserva cognitiva si traduca in una protezione effettiva contro il declino cognitivo, e quanto questa “riserva” possa durare nel tempo o quanto effettivamente possa essere aumentata attraverso interventi. Inoltre, il costrutto tende a concentrarsi principalmente su fattori educativi e ambientali, ma non pesa il ruolo di fattori ereditari che potrebbero, anch’essi, giocare un ruolo cruciale nel determinare la vulnerabilità o la resilienza cognitiva. Infine, quello che manca ancora è una maggiore comprensione della relazione tra indicatori che influenzano la cognizione e compensazione cerebrale. A questo scopo, abbiamo appena completato una rassegna della letteratura (Mauti et al. 2024), abbiamo analizzato gli studi sulla RC che hanno utilizzato la fMRI per indagare l’influenza che diversi indicatori esercitano su due meccanismi neurali della RC: la riserva neurale relativa all’efficienza delle reti cerebrali, e la compensazione neurale che corrisponde alla attivazione di aree cerebrali ulteriori. I risultati che abbiamo ottenuto suggeriscono che, con l’età, aumenta l’attività cerebrale in risposta a compiti cognitivi, e che la compensazione avviene soprattutto in presenza di compiti complessi o di patologie. Gli effetti degli indicatori portano a un incremento della riserva neurale ‒ quindi una minore attività cerebrale ‒ tanto negli anziani quanto nei giovani. I risultati evidenziano l’importanza di un impegno prolungato in attività che stimolino la mente, come fattore protettivo per la funzione cognitiva durante l’invecchiamento. Il nostro laboratorio è impegnato nella realizzazione di ricerche che permattano di perfezionare il quadro teorico ed empirico della RC, con particolare attenzione alla relazione tra indicatori socio-comportamentali e la loro relazione con il declino cognitivo e i meccanismi neurali sottostanti.

L’intervista alla neuroscienziata Raffaella Ida Rumiati è contenuta all’interno del 3° Rapporto su Salute e Sistema Sanitario realizzato da Eurispes ed Enpam.

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