Salute circolare, One Health, pandemia, antibiotico-resistenza e sfide sanitarie del futuro: ne abbiamo parlato con Ilaria Capua, Professoressa – DVM, PhD, Senior Fellow of Global Health, Johns Hopkins University, School of Advanced International Studies – SAIS Europe, nel corso dell’intervista rilasciata per la realizzazione del 3° Rapporto sulla Salute e sul Sistema sanitario di Eurispes-Enpam.
Professoressa Capua, partendo dal concetto di One Health, lei ha elaborato, negli ultimi anni, quello di “salute circolare”. Ci spiega da dove è partita e come è arrivata in fondo?
One Health è un concetto che risale agli anni Sessanta, elaborato in un’epoca completamente diversa da quella attuale. Per molti anni se ne sono occupate un numero molto limitato di persone, tra cui io.
Chi se ne occupava ai suoi esordi?
Quasi sempre i veterinari. Occuparsene equivaleva a richiamare i medici o chi si occupava di sanità pubblica a lavorare insieme su alcune cose, tipo la rabbia. Ancora oggi la rabbia uccide 55mila bambini ogni anno. Si tratta di una malattia che, se supera un certo livello di avanzamento, determina la morte. Non si può fare niente: quando il virus arriva in una certa zona del cervello, non lascia scampo. Se si vaccinano i cani per la rabbia – era questo il ragionamento – il bambino che viene morso dal cane non si prende la rabbia. È vero che il bambino potrebbe fare la terapia post contagio: a seguito di un morso, il dottore gli somministra il siero associato a vaccino e, se il tutto accade entro la prima settimana, riesce a sopravvivere. Ma la probabilità che muoia è troppo alta per rischiare di arrivare in ritardo. E questo valeva anche per altre malattie, non solo per la rabbia. Un concetto nato negli anni Sessanta, però, è pre-digitale, è pre-tutto: non c’erano microscopi elettronici, non c’era la PCR, non esistevano i sistemi moderni che abbiamo adesso. Quando è arrivata la pandemia, a un certo punto “One Health” è diventata la parola chiave per affrontare tutti i problemi del mondo. Ma One Health non contiene gli elementi necessari per affrontare la complessità degli eventi che dobbiamo affrontare adesso. Siamo nell’epoca dell’Intelligenza artificiale, nell’epoca in cui abbiamo registrato l’anno più caldo di sempre e c’è la crisi climatica. La storia di One Health è simile a quella di una star divenuta famosa quando ormai era troppo vecchia.
Come ha impostato la sua riflessione?
Nel 2016 sono andata negli Stati Uniti e, in quell’anno, ho iniziato a ragionare su una versione di One Health più contemporanea. Il 2016 è stato anche l’anno delle Olimpiadi di Rio de Janeiro e il Brasile, come si ricorderà, era l’epicentro di Zika, che all’epoca nessuno conosceva. La preoccupazione che Zika provocasse malformazioni nei feti era altissima. Le atlete, essendo giovani, si chiedevano: “Perché dovrei andare alle Olimpiadi e rischiare di contrarre questa malattia?”. Ho iniziato a riflettere su un approccio One Health più inclusivo, più contemporaneo e, soprattutto, che utilizzasse i big data, l’Intelligenza artificiale e gli obiettivi di sostenibilità. Da un lato, questi strumenti sono fondamentali come fonte di dati: oggi misuriamo tutto, dal clima all’umidità, e ciò è particolarmente rilevante per le malattie trasmesse da vettori, come le zanzare. Dall’altro lato, non possiamo pretendere di diventare sostenibili senza includere, negli obiettivi di sostenibilità, delle strategie che difendano la salute umana, quella delle piante, degli animali, dell’acqua, degli oceani e così via.
Il fatto di essere negli Stati Uniti ha avuto un ruolo?
Negli Stati Uniti dirigevo un centro interdisciplinare che mi ha dato modo di lavorare con antropologi, anche su temi come la religione, apparentemente lontana dalle malattie ma che, per esempio, ha un legame con la diffusione dell’HIV. Questo centro mi ha permesso di confrontarmi con molteplici prospettive, perché l’Università della Florida è un Ateneo molto grande che ospita diverse discipline. Facevo da catalizzatore tra i dipartimenti: ho collaborato con criminologi, esperti di Social network analysis per studiare la diffusione delle informazioni all’interno delle comunità e altro ancora. Poi è arrivata la pandemia.
Qual è stata la lezione della pandemia?
Abbiamo imparato che la scienza da sola non basta. Non è possibile affrontare problemi complessi, come una pandemia, basandosi esclusivamente sulle risorse disponibili nel mondo della scienza. Questo approccio non funziona. Infatti, affermo spesso che nel caso del Covid-19 il negazionismo ha fatto più danni dello stesso virus. Altre pandemie, come la SARS 1, sono state fermate grazie alla mobilitazione di un sistema capace di bloccare la diffusione dell’infezione. Questa volta, invece, il contesto era diverso. Tra il Capodanno lunare cinese e a causa di leader di democrazie occidentali che hanno minimizzato il problema, si è creato un terreno fertile per la diffusione del virus. Il concetto di salute circolare, che inizialmente era in una fase embrionale, ha cominciato a evolversi.
Qual è il principio di fondo di “salute circolare”?
Il principio è che è vero che la salute umana, delle piante e degli animali deve essere vista come un insieme, ma non può essere gestita solo da medici che parlano con veterinari e viceversa – c’è bisogno di un vero approccio multidisciplinare. Ho quindi iniziato a elaborare questo concetto, scrivendo libri e tenendo numerose conferenze sull’argomento. In queste occasioni utilizzo una narrativa basata sui quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco; si tratta infatti di elementi comprensibili e familiari anche a un pubblico non scientifico. Per illustrare questo approccio, parto da un’immagine semplice: un terrario con il tappo. Spiego che viviamo su un pianeta chiuso. Non esiste un tappo da aprire per eliminare i rifiuti che abbiamo accumulato negli oceani, compresa un’isola di plastica cinque volte più grande dell’Italia. Non c’è nemmeno un sistema di ventilazione per liberare l’atmosfera dai gas e dalle sostanze tossiche che produciamo. Essendo in un sistema chiuso, e traendo ispirazione da Ippocrate e dai quattro elementi, ho sviluppato salute circolare, una versione di One Health molto più ampia.
È molto evocativa l’immagine di un terraio con il tappo.
La terra è viva. In un cucchiaino di terra ci sono più creature di quante persone ci siano sul pianeta. La terra filtra l’acqua, porta via le impurità, produce l’80% del cibo che consumiamo e ospita sia gli animali da compagnia sia quelli da reddito. Se le mucche americane contraggono l’influenza e si beve latte crudo, per esempio, il contagio è inevitabile. Siamo completamente interconnessi e dipendenti da ciò che avviene sulla terra. Anche gli animali selvatici sono coinvolti: distruggendo i loro habitat, ci esponiamo a nuovi patogeni. Il virus di Marburg è trasmesso dai pipistrelli: se entri in una caverna in Uganda e vieni esposto a escrementi di pipistrello, è possibile che si contragga il virus. Allo stesso modo farmaci che scarichiamo nel terreno, ad esempio antibiotici, alterano il microbioma della terra, che è essenziale per mantenerla fertile e capace di produrre risorse vitali.
E poi c’è l’attività dell’uomo.
Esatto. Gli insediamenti produttivi sono un altro problema. Anche l’acqua e gli oceani stanno subendo un depauperamento significativo. Stiamo distruggendo la biodiversità, sia terrestre che marina, pescando troppo e riempiendo l’acqua di plastica. La plastica, oltre a essere dannosa in sé, ha la capacità di legare determinate sostanze tossiche. Pensiamo a un barattolo di plastica in frigo con del pesto: quando lo laviamo, un semplice giro di sapone non è sufficiente per eliminare l’unto. Questo accade perché la plastica chela, ovvero lega le sostanze. E non lega solo l’unto del sugo, ma anche cadmio, piombo, benzene, arsenico e mercurio. La plastica, poi, si degrada in microplastiche, che entrano nella catena alimentare o vengono inalate. In questo senso, gli studi sulle nanoplastiche si stanno moltiplicando.
Ecco che oltre alla terra, anche l’acqua è a rischio.
Abbiamo trasformato il mare in una discarica. La nostra specie non può sopravvivere in un mondo con oceani degradati. Il 70% della popolazione mondiale vive sulle coste, dove l’innalzamento delle acque e la perdita di biodiversità rendono la sopravvivenza sempre più difficile. Non parlo del Mediterraneo, ma di luoghi ancora più vulnerabili. L’acqua è anche vettore di malattie, come il colera, e ospita insetti come le zanzare. Pensiamo all’alluvione di Valencia: quante pozzanghere giganti di acqua stagnante potrebbero persistere per decenni? Negli Stati Uniti, con gli uragani, ho visto territori completamente saturi d’acqua, dove le zone allagate restano tali per anni. Questa acqua si collega con l’aria in uno scambio costante.
E l’aria?
Siamo riusciti a inquinare anche l’aria, e non è stato facile. È vero che l’Europa contribuisce per l’8% alle emissioni globali, e l’Italia con una percentuale ancora inferiore, ma quello che c’è sopra la Pianura Padana non l’hanno fatto né la Cina né l’India: l’abbiamo fatto noi. Durante il Covid, è emerso chiaramente che nei luoghi con aria inquinata si registravano tassi di mortalità e di gravità maggiori, nonché un numero più elevato di casi. L’inquinamento indebolisce le difese immunitarie. Sono stati pubblicati degli studi che mostrano come i bambini esposti all’aria inquinata presentino deficit cognitivi. L’aria, dunque, non è solo quella che respiriamo, ma è anche quella “arrabbiata”, come la definisco io: tempeste di vento e fenomeni estremi.
L’Italia, ultimamente, non sfugge ai fenomeni estremi.
Pensiamo a quanto accaduto in Trentino qualche tempo fa, con la caduta massiva di alberi. A parte i danni immediati, questa situazione ha favorito un parassita che si nutre di alberi morti, che è proliferato a tal punto da attaccare anche gli alberi vivi. Qualcuno ha sostenuto che nel giro di 10-15 anni potremmo perdere i pini rossi. Eventi come le tempeste di vento e gli uragani alterano profondamente gli ecosistemi. Distruggono habitat, trasportano pollini esogeni, insetti e malattie delle piante. L’aria alterata ha conseguenze tangibili e devastanti.
Infine, c’è il fuoco.
Con il fuoco non mi riferisco solo al riscaldamento globale, ma anche agli effetti concreti sugli ecosistemi. Nei rettili, per esempio, il sesso viene determinato dalla temperatura di incubazione delle uova. In Florida, sono ormai 4-5 anni che a causa delle alte temperature nascono quasi esclusivamente tartarughe di mare femmine. Le elevate temperature erodono la biodiversità, impediscono la sopravvivenza di specie come le lucertole e, oltre a colpire i sistemi dai quali dipendiamo, hanno un impatto diretto sulla salute umana. Poi ci sono gli incendi, la cui portata è sempre più devastante. Fino a 20 anni fa si parlava quasi solo degli incendi in California, con la preoccupazione che bruciassero le sequoie giganti. Oggi, assistiamo a eventi come quelli che hanno colpito Rodi, dove l’intera isola è stata devastata, o quelli in Spagna, Portogallo e Canada, o di quelli che hanno oscurato i cieli di New York. Gli incendi producono polveri sottili che si diffondono nell’aria, e torno a sottolineare che noi viviamo in un sistema chiuso.
Big data, Intelligenza Artificiale. Diceva che “salute circolare” include anche questi.
Proprio così. Grazie ai big data e all’Intelligenza artificiale, il concetto di salute circolare include One Health ma va oltre, integrando fattori che oggi siamo in grado di studiare e misurare. Oggi, disponiamo di informazioni inimmaginabili rispetto al passato. Non si tratta, com’era per la rabbia, di vaccinare il cane per salvare il bambino, ma di affrontare problemi complessi come l’antibiotico-resistenza. L’antibiotico-resistenza è multifattoriale, dipende da diversi fattori. Tra questi, l’abuso nella medicina umana e in quella veterinaria: gli antibiotici sono stati usati in modo eccessivo per anni, spesso come “copertura”. Si usano anche in agricoltura, per trattare malattie respiratorie nel bestiame, persino come potenziali anabolizzanti attraverso la modulazione del microbiota dell’apparato gastroenterico. In alcuni paesi, si usano persino per curare malattie batteriche delle piante. Un altro problema che alimenta il fenomeno dell’antibiotico-resistenza è il mancato smaltimento dei rifiuti a base di farmaci: accade che si gettino i farmaci avanzati o scaduti nel gabinetto, contaminando ed inquinando le acque. Un’altra componente che si aggiunge alla precedente è la scarsa igiene personale: le persone non si lavano le mani, visitano i pazienti in ospedale e portano a casa batteri resistenti, esponendo i più giovani al contagio. Le infezioni ospedaliere sono l’effetto più evidente di questo fenomeno. Usando grandi quantità di antibiotici, gli ospedali favoriscono la selezione di batteri super resistenti. L’OMS già nel 2015, prima della pandemia, avvertiva che l’antibiotico-resistenza sarebbe diventata la prima causa di morte al mondo entro il 2050, superando il cancro. Questo ci riporterebbe a un’era pre-antibiotica. Il direttore generale dell’OMS, Tedros, ha recentemente sottolineato che, senza un cambio di rotta, non sarà più possibile eseguire interventi chirurgici di base. La rimozione di un nodulo benigno o la correzione di un alluce valgo diventeranno rischiose a causa del pericolo di sepsi o infezioni letali. Per contrastare questa crisi, il report del 2015 Review on Antimicrobial Resistance ha fornito una roadmap chiara, ponendo le basi per iniziative globali, nazionali e locali. Tra le raccomandazioni: ridurre l’uso di antibiotici in agricoltura, creare una coalizione internazionale, rafforzare la sorveglianza negli ospedali, utilizzare più vaccini per prevenire infezioni secondarie, educare la popolazione e promuovere l’igiene.
Di tutto questo “salute circolare” tiene conto.
Salute circolare propone di integrare queste azioni negli obiettivi degli SDG, Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, creando una convergenza tra diversi settori: salute, agricoltura, educazione, gestione ambientale. Il senso è che lavorando in sinergia ed evitando approcci frammentati, possiamo affrontare problemi complessi.
Può fare un esempio in cui questa sinergia rappresenta non solo un beneficio ma una strada obbligata?
Un esempio emblematico è la zanzara tigre, presente ormai su tutto il territorio italiano. Questa zanzara è un vettore “competente”, ovvero capace di trasmettere numerosi virus tra cui la Dengue. Mentre in passato il virus arrivava soltanto tramite viaggiatori infetti, oggi si osservano focolai autoctoni, poiché le condizioni climatiche e ambientali favoriscono la riproduzione degli insetti. Combattere la Dengue non richiede solo interventi sanitari, ma un lavoro di squadra con urbanisti, architetti e gestori del verde pubblico. È essenziale educare le persone a eliminare l’acqua stagnante nei sottovasi o in altre aree domestiche. La globalizzazione ha amplificato i problemi complessi: 200 anni fa i viaggiatori infetti erano un’eccezione, oggi il traffico internazionale facilita la diffusione di malattie.
Quanto è importante il ruolo della cultura?
È determinante. Ci sono problemi culturali e comportamentali che non possono essere risolti solo con le politiche. Se una persona ha un farmacista di fiducia che le fornisce l’antibiotico senza prescrizione, oppure butta gli antibiotici avanzati nel gabinetto, i problemi restano. Salute circolare si propone anche di coinvolgere la popolazione. Se il principio è “uno vale uno” e tutti vogliono esprimere la propria opinione o fare a modo proprio, allora bisogna responsabilizzare le persone.
E poi c’è il tema, a proposito di antibiotici, che svilupparli si rivela spesso antieconomico.
Il costo per sviluppare un nuovo antibiotico è altissimo: circa 1 miliardo di dollari, di cui 300 milioni occorrono per arrivare dalla molecola iniziale a un farmaco potenzialmente commerciabile. A questi si aggiungono i costi delle prove di innocuità e dei trial clinici. Le aziende farmaceutiche si trovano davanti a un paradosso: perché dovremmo investire enormi risorse per sviluppare un farmaco, che poi non possiamo utilizzare per via dell’uso indiscriminato che ne favorisce la resistenza? Non è sostenibile economicamente. Le partnership pubblico-privato, in questo contesto possono rappresentare una soluzione.
Qui entra in gioco l’Intelligenza Artificiale.
L’IA ha un ruolo cruciale nella drug discovery e nello screening delle molecole. Se si hanno a disposizione 100 molecole, un algoritmo può analizzarle velocemente, sfruttando dati provenienti da tutto il mondo, ed identificare, tra queste, le molecole con problemi evidenti: ad esempio, nefrotossicità, rischio in gravidanza o una predisposizione a creare resistenza. Questo consente di concentrare i test di laboratorio solo sul 10% delle molecole iniziali, ottimizzando tempi e risorse.
Professoressa Capua, cosa ci aspetta in futuro?
Io credo profondamente nella cross-fertilizzazione dei saperi. Mi piace dire che io stessa ho fatto un “salto di specie” nel senso figurato, perché insegno a studenti di relazioni internazionali, giovani con una fame disperata di conoscenza in questo àmbito scientifico. Hanno vissuto la pandemia, affrontano quotidianamente il problema del cambiamento climatico, ma spesso non hanno le basi scientifiche né comprendono le interconnessioni che legano questi fenomeni. Non posso dirle cosa scopriremo in futuro, ma posso affermare che, se continuiamo a restare confinati nei nostri àmbiti disciplinari, nella nostra “comfort zone”, i nostri studenti non cresceranno mai. Perché non prevedere che i professori universitari, insegnino in facoltà diverse dalla loro negli ultimi anni della loro carriera? Immagini un pediatra che va a insegnare geografia e spiega agli studenti di quella facoltà che, se i bambini bevono acqua contaminata da piombo, sviluppano problemi di salute. Da lì, gli studenti possono collegare l’aspetto sanitario alla presenza di una miniera di piombo o alla contaminazione del fiume che attraversa un’area specifica. Questo tipo di approccio interdisciplinare nasce dalla necessità di uscire dai nostri limiti accademici, che spesso ci bloccano. La fisica, per esempio, ha avuto sviluppi incredibili nella modellizzazione epidemiologica, fornendo strumenti per comprendere e prevedere la trasmissione delle malattie. Chi avrebbe mai immaginato che, studiando il movimento delle particelle gassose, si sarebbero potuti creare modelli di diffusione delle malattie infettive? Eppure, questa è la potenza della cross-fertilizzazione: rompere le barriere tra discipline per generare conoscenze nuove e applicazioni sorprendenti.