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Dieta e longevità, due fattori chiave per la salute: intervista con il Prof. Valter Longo

di
Antonio Alizzi

Nell’àmbito del lavoro svolto per la realizzazione del Terzo Rapporto sulla Salute e il Sistema Sanitario dall’Eurispes, pubblichiamo l’intervista a Valter Longo, Professore di Biogerontologia e Direttore dell’Istituto sulla Longevità University of Southern California – Davis School of Gerontology di Los Angeles e Direttore del programma di ricerca di Longevità e Cancro presso l’Istituto di Oncologia Molecolare IFOM di Milano.

Professor Longo, i temi di cui lei si è occupato in questi anni hanno a che vedere con il vivere in salute. Ha una definizione di salute, dello stare in salute?

Stare in salute ha a che fare con l’età biologica. La stragrande maggioranza dei ventenni ha un’età biologica di circa 20 anni ed è in perfetta salute. Questa è la definizione: essere nello stato fisiologico e biologico di un ventenne privo di malattie ma anche di disfunzioni come possono essere l’ipertensione, l’iperglicemia, infiammazioni sistemiche, eccetera.

Lei dice spesso che una cosa è l’invecchiamento, un’altra è la senescenza. Mi piace quel riferimento che fa ai maratoneti quando dice che il picco delle loro performance è attorno ai 32-33 anni, quindi non quando ne avevano 20. E lo stesso accade per la letteratura e per molte altre arti. Ci aiuta a capire che differenza c’è tra “invecchiamento” e “senescenza”?

L’invecchiamento, che può essere come quello di un violino o di un vino, può essere un miglioramento, può portare dei miglioramenti. La senescenza, invece, definisce un accumulo di danno e la disfunzione. A differenza dell’invecchiamento, la senescenza è sempre associata a un peggioramento. È evidentemente una questione più che altro semantica. Se usiamo invecchiamento anche per definire la senescenza va benissimo. Ma è un modo per dire che le parole contano e un invito a prestare attenzione al fatto che stiamo perdendo attenzione sui dettagli, e i dettagli sono fondamentali. Certe volte fanno la differenza tra la vita e la morte. Per questo capire la differenza tra senescenza e invecchiamento è importante.

Lei dice che aggiungere 10-20 anni di vita media non è l’obiettivo ultimo, quanto invece aggiungerli ma vivendo in buona salute. Contrastare, dunque, la senescenza?

Non solo contrastare la senescenza, ma ringiovanire. Fare dei veri e propri reset sistemici che permettono al corpo umano di rimanere relativamente giovane, funzionale. La mia School of Gerontology alla USC è basata proprio sull’invecchiamento. Ho sempre detto: non mi interessa molto l’invecchiamento, mi interessa più com’è che si rimane giovani, o com’è che si ritorna a essere giovani. Quindi adesso, pian piano, ci stiamo spostando dal rallentare il peggioramento, l’invecchiamento. Uso la metafora degli pneumatici di un’auto come esempio: tu puoi stare tutta la vita a studiare com’è l’usura di uno pneumatico, oppure puoi cambiarlo ogni due anni e ripartire da zero. Questa è la differenza tra gerontologia e iuventologia. È molto più importante pensare a come ritornare a essere funzionali e giovani. La massima ambizione è arrivare a 110 anni. Ovviamente non ci arriverai giovane, ma ci puoi arrivare il più giovane possibile, il più funzionale possibile. Negli anni ho incontrato centenari, persone di 108-110 anni che erano in quelle condizioni. Emma Morano, 117 anni, si ricordava quasi tutto, era ancora funzionale, mangiava da sola. Di certo non era giovane, ma la donna, la persona più vecchia della storia d’Italia, era funzionale in quasi tutti i sistemi.

 

Lei ha identificato “i pilastri della longevità”: l’epidemiologia, gli studi clinici, lo studio dei centenari, lo studio dei sistemi complessi. In questi pilastri della longevità vedo una certa multidisciplinarietà: biologia, chimica, lo studio dei centenari. C’è, soprattutto, lo studio di sistemi complessi. Che connessione ha con la longevità, e quindi con la salute pubblica, lo studio dei sistemi complessi?

Quello dei sistemi complessi è un pilastro molto importante perché è l’unico basato su qualcosa che noi conosciamo totalmente, perché lo costruiamo noi. Costruiamo lo space shuttle e sappiamo come invecchia, come si ossida, come perde funzione, quali parti devono essere cambiate e quando. Ci permette di vedere le modifiche di qualcosa che molecolarmente sappiamo esattamente cos’è. Il resto dei pilastri, invece, è basato su dei sistemi che si sono evoluti per miliardi di anni e sappiamo ancora solo parzialmente cosa sono e come funzionano.

Lei ha capito che le malattie croniche non trasmissibili possono trovare una risposta importante di tipo nutrizionale, anche terapeutica. Tant’è vero che ad un certo punto le viene in mente che i malati oncologici potevano trarre beneficio da un digiuno di diversi giorni, addirittura bevendo solo acqua. Questa cosa però trovò degli ostacoli fino a quando il governo degli Stati Uniti non decise di finanziare la ricerca.

Io ho sempre visto la nutrizione, partendo dal lievito, come un controllo pseudo farmaceutico, dei geni che controllano, a loro volta in maniera molto coordinata, le funzioni cellulari. Queste funzioni cellulari possono includere il controllo del tasso d’invecchiamento e potenzialmente il ringiovanimento. Per quanto concerne il digiuno, era capire che questo dà dei segnali opposti alle cellule normali e a quelle del cancro. La cellula del cancro è per definizione una cellula ribelle e quindi nessuno aveva mai, che io sappia, trovato un modo di distinguere le cellule cancerogene dalle cellule normali. Il digiuno in effetti era forse uno dei pochi modi in cui tutte quelle normali andavano da un lato e tutte quelle del cancro dall’altro. Da lì il digiuno ad acqua, che molti hanno visto come “sì, vabbè, ha testato questa cosa per vedere l’effetto che fa”. E invece no, c’era una teoria molto precisa che poi ha funzionato sui topi. In effetti, il topo che veniva messo a digiuno con sola acqua diventava molto protetto dalla chemioterapia, e le cellule del cancro non solo non erano protette, ma venivano sensibilizzate.

Quindi le stesse terapie farmacologiche funzionavano meglio, perché andavano a individuare meglio le cellule malate?

Funzionavano molto meglio. All’inizio avevamo guardato solo la protezione del topo, poi abbiamo iniziato a testare anche quanto il digiuno fosse efficace contro il tumore. E abbiamo visto che era molto meno il danno al topo, molto più il danno al tumore. Adesso ci sono altri metodi per farlo, anche se non è ancora facile, ma a quel tempo era difficilissimo curare un topo da un tumore, e questo succedeva solo quando combinavi chemioterapia e digiuno. Non lo vedevamo mai solo con la chemio o solo col digiuno. Era una differenza enorme. C’era qualcosa di molto potente che stava cambiando: il digiuno stava influenzando la progressione di un tumore. Successivamente, abbiamo fatto il primo studio clinico, all’USC Norris Comprehensive Cancer Center, dove tantissimi pazienti hanno rifiutato il digiuno ad acqua, vedendolo come una presa in giro. Noi avevamo pensato: il paziente oncologico è molto motivato, se l’ospedale gli dice “questo è uno studio clinico, devi metterti per 4 giorni solo a bere acqua”, lo farà. E invece no.

Il paziente vuole sempre che gli si dia qualcosa, che gli si prescriva qualcosa.

Esatto. Il paziente si è ribellato e si è ribellato anche l’oncologo. Il paziente si lamentava con l’oncologo, l’oncologo iniziava a preoccuparsi e a dire “ma forse qui non stiamo facendo uno studio clinico molto intelligente”. Fu così che ad un certo punto il governo americano ha sponsorizzato la mia dieta mima-digiuno.

Nel formulare questo piano nutrizionale la sua idea è stata: ti faccio mangiare, ma in realtà dal punto di vista biologico gli effetti che ho sul tuo corpo sono come se tu digiunassi.

Sì, questa non era un’intuizione, perché noi da tanti anni lavoravamo proprio su quello che dicevo prima, la connessione tra ogni ingrediente e ogni via di segnalazione. Per noi il cibo non è cibo; per noi il cibo è una composizione, un cocktail di farmaci. Noi vediamo il cibo come un cocktail di farmaci, ognuno dei quali fa accadere qualcosa. Modificando la composizione di questo cocktail possiamo controllare tutte queste vie di segnalazione sia nel cancro che nelle cellule normali.

Quindi lei seleziona nella dieta mima-digiuno degli attivatori di reazioni?

Esatto, aggiungiamo quelli che non attivano e leviamo quelli che attivano quello che non vogliamo attivare, o quello che vogliamo spegnere, come se fosse un vero digiuno.

Arriviamo all’IGF-1 che, dal punto di vista degli indicatori che vanno tenuti sotto controllo, ha molto a che vedere con l’invecchiamento, con quel processo di accumulo di danni e detrimento.

L’IGF-1 è il principale fattore di crescita nel corpo umano, come lo è anche nel topo. Noi, per esempio, da tanti anni studiamo queste persone dell’Equador che arrivano a circa 1,10 m di altezza perché hanno bassissimi livelli di IGF-1. E la stessa cosa è vera per un topo. Se non hai l’IGF-1, dunque, cresci molto meno del normale. Questo fattore di crescita però dà anche il segnale a molte cellule nel corpo umano, come nel topo, di rimanere in una modalità pro-riproduttiva e pro-crescita anche quando il corpo umano non cresce più. Si tratta potenzialmente di un segnale pro-invecchiamento, che ti spinge a riprodurti, a crescere. L’IGF-1 è importante per gli effetti del digiuno sull’invecchiamento. Utilizziamo questa conoscenza per dare da mangiare al paziente, ma allo stesso tempo per ridurre l’IGF-1 soprattutto dopo 4-7 giorni. Ci sono delle mima-digiuno che durano 4 giorni, la maggior parte dura 5 giorni, alcune durano 7 giorni.

Diabete, cancro, sclerosi multipla. La mima-digiuno viene studiata da anni per più patologie. Che evidenze danno le sue ricerche?

Siamo a punti diversi per patologie diverse. Lo stadio più avanzato è sicuramente quello di diabete e pre-diabete: siamo arrivati al quinto studio clinico, tra l’altro quasi tutti svolti da Università indipendenti, come la University of Heidelberg, la University of Leiden, l’Università di Tor Vergata, eccetera. Sul pre-diabete e diabete vediamo effetti tra i tre e i 12 cicli consecutivi di dieta mima-digiuno.

Cinque giorni al mese di questo pacchetto che viene consegnato al paziente?

Il pacchetto secondo noi è fondamentale. Sono migliaia di anni che si parla di cibo come medicina, però questo non è mai successo. Sì, abbiamo le diete, ma poi è difficilissimo implementarle. Allora noi abbiamo pensato di mettere il cibo proprio nel pacchetto così da permettere all’Università, all’ospedale, di testarlo in quel mondo come se fosse un farmaco, standardizzato in maniera molto precisa. Abbiamo cercato di introdurre questo concetto: dobbiamo mettere la medicina in un box, deve essere sempre identica per quell’uso. Gli studi per il pre-diabete e il diabete sono chiari: la dieta mima-digiuno induce la regressione del pre-diabete e anche del diabete, senza cambiare lo stile di vita.

12 cicli consecutivi una volta al mese fanno tornare indietro la malattia?

Non c’è bisogno di 12 cicli: Heidelberg ha fatto vedere che dopo 6 cicli il 70% dei pazienti aveva già ridotto il numero di farmaci. Il 70% dei pazienti riduce i farmaci con una diminuzione dell’emoglobina glicata molto alta. Non vogliamo che il paziente trascorra il resto della vita col diabete, e non vogliamo neanche dirgli “Devi cambiare dieta”, perché se il paziente fosse in grado di cambiare dieta l’avrebbe già fatto. Il sistema funziona, quindi, da 3 a 12 cicli. Lo studio di Leiden ha fatto 12 cicli consecutivi e hanno funzionato nello stesso modo. Leiden fa vedere anche che non c’è nessun cambiamento nello stile di vita, a parte un aumento significativo, ma minore, dell’esercizio fisico. Chi faceva la dieta mima-digiuno in effetti inizia a fare un po’ più di sport verso la fine dei 12 cicli, probabilmente perché stava meglio, aveva un peso inferiore, e quindi si sentiva più in grado di fare esercizio fisico. Sul diabete siamo sicuramente in una fase più avanzata. Adesso stiamo facendo un grosso studio randomizzato in Calabria con 500 pazienti sia con quella che chiamo la “dieta della longevità” sia con la dieta del digiuno. Sarà uno studio un po’ più conclusivo per i pre-diabetici. Stiamo anche pensando ad un altro studio dello stesso livello clinico con la Sapienza, Harvard.

Il cancro?

Il cancro è molto più complicato del diabete, nel senso che ci sono tantissimi tipi di cancro, tantissime terapie. Adesso ci sono una ventina di studi clinici sul cancro. Molti hanno dato risultati molto positivi, e diversi di questi sono stati fatti all’Istituto Nazionale dei Tumori a Milano dal professor de Braud e dal professor Vernieri. Uno di questi studi preliminari, che aveva solo 14 pazienti nel gruppo della mima-digiuno più chemioterapia, e 84 pazienti nel gruppo di controllo, ha mostrato quasi un raddoppio della sopravvivenza media del paziente con tumore alla mammella triplo negativo. Si tratta di risultati iniziali, ma molto interessanti. Per il cancro bisognerà fare centinaia di studi. Stiamo cercando di stimolare tutti gli ospedali a fare i loro studi. Ognuno individua il tumore che vuole studiare e lo abbina all’immunoterapia, alla chemio, alla terapia ormonale, alle chinasi, eccetera.

Lei dice alle persone in buona salute, o comunque prive di patologie particolari: “Ci si deve nutrire in un certo modo fino a 25 anni, poi in un modo specifico fino ai 65, e ancora diversamente dopo i 65”. E se una persona è leggermente in sovrappeso dopo i 65 anni non è detto che sia un aspetto negativo – lei dice – anzi può essere più protetta da malattie. Dice anche che se una persona over 65 torna a mangiare proteine animali questo va bene. È corretto?

È corretto, anche se evidentemente si tratta di generalizzazioni. La cosa grave a livello mondiale – e l’abbiamo visto negli Stati Uniti, dove dal 10% di obesità degli anni Sessanta, si è passati ora al 40% – è che il Paese non ha fatto assolutamente niente per questo. Ora lo stiamo vedendo in Italia, in Europa, dove il 60% delle persone è in sovrappeso e obeso. Anche l’Europa non fa assolutamente niente per questo. Mancano completamente i professionisti della longevità, mancano i professionisti della salute. Non perché il medico non sia bravo. Recentemente, ho fatto una presentazione insieme al Dean della School of Medicine di Stanford e gli ho detto che la scuola di medicina dovrebbe iniziare e finire con dei corsi di longevità sana. Ma non è così a Stanford, non è così a Harvard, non è così a Milano. Mancano professionisti dedicati. C’è una personalizzazione, una conoscenza molecolare dei pilastri e una modulazione che va fatta sia nei pazienti col cancro sia nelle persone normali. Cambiare, vedere come va dopo un mese, rimodificare, dopo 3 mesi rifarlo, poi fare nuovi test. È un lavoro che non esiste adesso, non lo fa nessuno a parte i team presso le cliniche della mia fondazione, ed è un lavoro fondamentale. Noi diciamo che mantenere un organismo sano fino a 110 anni è una disciplina molto diversa.

Per esempio?

Per esempio, 16 ore al giorno di dieta chetogenica o 16 ore al giorno di digiuno, dal punto di vista della medicina moderna sono molto positivi, perché dopo la dieta chetogenica per due mesi o 16 ore al giorno di digiuno, stai molto meglio, hai perso peso e hai una serie di altri benefici metabolici. Peccato però che se lo fai per tutta la vita, questo ti accorcia la vita. La medicina della longevità guarda a tutte queste cose, ha un orizzonte più lungo e adesso guarda anche alla parte psicologica. Non mi interessa che perdi peso se poi lo riguadagni. Nel momento in cui ti faccio perdere peso, lo perdi una volta e lo devi mantenere.

Professore, le malattie autoimmuni aumentano del 17% all’anno. Cosa significa per la salute pubblica?

Significa che dovremmo essere molto preoccupati. Da dove viene questa crescita? Stiamo vedendo tumori che si manifestano in persone sempre più giovani. Anche questa esplosione di malattie autoimmuni ha delle radici in vari fattori: probabilmente in tanti farmaci assunti, mescolati a nuovi ingredienti nel cibo e non solo. Una volta, chi cresceva in Calabria o in Sicilia, o anche a Milano, aveva una dieta, stagionale e locale, e con tradizioni specifiche. Oggi no, e questo comporta rischi. Come succede per il glutine che può portare a malattie autoimmunitarie in individui geneticamente predisposti. Allo stesso modo, possiamo ipotizzare che ci siano altri cibi in grado di scatenare infiammazioni e autoimmunità. Abbiamo impiegato cinquant’anni per capire che il glutine può causare una malattia autoimmune. Spesso non si tratta di un singolo cibo: possono esserci combinazioni di fattori come l’alcol associato a certi cibi, o un antibiotico assunto insieme a un alimento specifico. Non è semplice individuare le cause a livello epidemiologico. Probabilmente ci sono una serie di combinazioni che non sono solo nutrizionali, potrebbero essere anche legate allo stress. Testavamo proprio questo in laboratorio: la combinazione tra lo stress e certi ingredienti potrebbe essere alla base dell’infiammazione.

Professore, immaginiamo di avere un appuntamento con i Ministri della Salute europei. Tutti seduti attorno a un tavolo, le dicono: “Professore, per quella che è la sua esperienza e i suoi àmbiti di ricerca, qual è l’elenco delle priorità e delle urgenze?”

Ho incontrato quasi tutti i Ministri della Salute italiani e non è successo assolutamente niente. Non perché non volessero; molti erano entusiasti, volevano fare la differenza. Ho visto molto interesse anche da vari partiti. Non so perché, ma alla fine non è successo. Direi ai ministri europei, e anche del mondo: “Rendiamoci conto che il sistema americano, per esempio, che spende quasi il 20% del Pil in sanità, è al 40esimo posto nella qualità dei sistemi sanitari mondiali”. Non ci vuole un genio per capire che c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo. L’Europa sta commettendo lo stesso errore. Lo stile di vita, la nutrizione – soprattutto la nutrizione – ma anche il sonno, lo sport, l’attività fisica dovrebbero essere le priorità numero uno, due, tre, quattro e cinque per l’Europa.

Come ci si arriva?

Non ci si arriva con delle idee lanciate una tantum. In questi giorni, per esempio, ogni volta che si accende la Tv si sente parlare del Festival di Venezia. Siamo bombardati di notizie su questo evento. Però non si parla mai del 60% di sovrappeso e obesità in Europa. È come se fossimo diventati una sorta di “world of entertainers” e ci dimenticassimo delle questioni centrali per la salute e la felicità della persona. Non possiamo permetterci di fare così. Dico sempre: immaginiamo che non esistano scuole e che tutti i bambini siano lasciati a se stessi per la propria educazione. Se fosse così, come ci aspetteremmo che questi bambini possano essere istruiti? In pratica, è ciò che sta accadendo per lo stile di vita: non ci sono scuole di stile di vita e non ci sono insegnanti. Il medico non è formato per fare questo tipo di lavoro e, giustamente, non ha né il tempo né il compito di occuparsene. E allora chi lo fa?

E allora chi lo fa?

Al momento, il nutrizionista è la figura che ci si aspetta svolga questo compito, ma spesso è uscito da una scuola di biologia senza avere fatto neppure una classe su nutrizione o sport. È come se ci fosse un’intenzione globale – probabilmente alimentata anche dalle lobby di cibo, farmaceutica, eccetera – di mantenere le cose così come sono. Un paziente diabetico a vita è un cliente che porta profitti costanti per chi vende farmaci e servizi di cura. Questo modello è nato negli Stati Uniti, ma sta arrivando anche in Europa. Vedremo l’Europa dedicare il 20% del proprio Pil al mantenimento di persone malate, per tenerle in vita fino a 100 anni in condizioni di salute scadenti.

Quindi è fondamentale portare all’attenzione pubblica i temi centrali per la salute.

Non solo pubblica, ma strutturale. Bisogna mettere al centro un esercito di nutrizionisti e creare scuole che formino una nuova figura professionale del “lifestyle”.

Come la chiamerebbe questa figura?

Forse potremmo chiamarla clinical lifestyle physician, o qualcosa del genere. Dovrebbe essere un titolo equivalente a quello di medico.

Una nuova specializzazione?

Esattamente. Sono anni che lavoriamo con l’Ordine dei Biologi senza ancora aver raggiunto una vera soluzione. Ci sono varie opinioni, ed è giusto che sia così. Però è evidente che serve qualcuno con un livello di preparazione e routine simile a quello del medico. Qualcuno che lavori per prevenire, non solo per curare. Dovrebbe accompagnare le persone per evitare che debbano arrivare all’ospedale. Migliorare la longevità e la qualità della vita, combattere l’invecchiamento. Non basta prevenire una malattia. Prevenire il cancro, ad esempio, non è sufficiente se poi si rischia un infarto vent’anni prima. Il concetto è rimanere giovani il più a lungo possibile. Se riporti il fegato, il pancreas e altri organi in uno stato più giovane a livello biologico, è naturale che questo ridurrà il rischio di tante malattie. È un approccio molto diverso da quello di focalizzarsi solo su singole patologie come obesità o fumo. Se riusciamo a mantenere una persona con 60 anni cronologici ma 45 anni biologici, la prevenzione sarà enorme in termini di rischio di malattie.

Quali sono le attuali ricerche su cui sta lavorando e che potrebbero portare a sviluppi ambiziosi?

Stiamo lavorando su più ricerche, concentrandoci molto sui processi di riprogrammazione e rigenerazione cellulare. Usiamo la dieta mima-digiuno e il refeeding per riprogrammare le cellule, in modo da riparare e ringiovanire vari sistemi. Questo approccio viene applicato al diabete, alle malattie autoimmuni, all’Alzheimer e al Parkinson. L’obiettivo è ambizioso: se si riesce a riportare una persona al livello di salute e funzionalità di un ventenne, si ha la possibilità di eliminare o prevenire molte patologie. È quasi fantascienza, ma è quello su cui lavoriamo da anni e sta dando risultati promettenti.

Prima menzionava delle azioni non attuate, anche a livello italiano.

Avevamo proposto a vari rappresentanti del Governo di formare 10.000 nutrizionisti per occuparsi dei 5 milioni di italiani più a rischio o già malati. La nostra idea era quella di preferire nutrizionisti con un dottorato di ricerca, abituati a risolvere problemi complessi. I pazienti diventerebbero quasi un “progetto di ricerca” su cui lavorare per 2-3 anni. Una figura professionale specifica che avevamo suggerito di formare al San Raffaele, all’Humanitas, o nelle varie Università italiane. L’obiettivo non è solo curare la malattia, ma portare la persona a un miglioramento duraturo della salute e della qualità della vita.

Cosa bisognava fare concretamente per realizzare questo progetto?

Mettere d’accordo i partiti politici. Erano tutti interessati, anche perché si trattava di creare 10.000 posti di lavoro. La parte politica era interessata a questa prospettiva. Il passo successivo avrebbe dovuto essere una collaborazione tra l’Accademia, l’Ordine dei Biologi, e i governi locali per creare un programma di formazione nazionale che fornisse le basi e la formazione pratica per questa nuova figura professionale. Avevamo già fatto varie riunioni con i professori universitari, con l’Ordine dei Biologi. Eravamo pronti a partire con un percorso formativo nazionale. Se il governo avesse varato una legge in tal senso, i costi che avevamo ipotizzato, circa 500 milioni di euro all’anno, sarebbero stati ampiamente compensati. I risparmi generati dal miglioramento della salute pubblica avrebbero ripagato l’investimento in pochi anni. Molti pazienti diabetici non avrebbero più avuto bisogno dei farmaci importati o delle cure estremamente costose, ad esempio, che gravano sul sistema sanitario. Ora come ora, il paziente – sia in Italia che negli Stati Uniti – è lasciato solo. Spesso si affida a Google o passa da uno specialista all’altro, senza che nessuno si assuma davvero la responsabilità di risolvere il suo problema.

Professore, qual è la sua visione per il futuro? Cosa ha imparato dai centenari e come incorpora questi insegnamenti nella sua vita quotidiana?

I centenari sono fondamentali. Rappresentano uno dei cinque pilastri su cui si basa il mio lavoro. Sono persone che sono già arrivate a 100 anni, quindi chiaramente hanno fatto qualcosa di giusto. Ho sempre visto il loro stile di vita come una lezione preziosa, un’indicazione di come si possa vivere a lungo e bene. Ci sono molte storie affascinanti. Ad esempio, una volta ero con una troupe televisiva francese a intervistare una signora centenaria calabrese. Le chiedemmo, con traduzione dalla figlia, quante volte alla settimana mangiasse carne. Lei ci guardò un po’ confusa e poi rispose: “Carne? L’ho mangiata una volta sola, tanti anni fa, quando mi sono intrufolata in un matrimonio perché eravamo poveri”. Questo era il loro rapporto con la carne: qualcosa di raro, legato alla povertà, mentre noi oggi la consideriamo un alimento quotidiano. Un altro esempio è Emma Morano, che a 117 anni era la persona più longeva al mondo e quella più longeva della storia in Italia. Una mia ricercatrice, Franca, le chiese cosa avremmo potuto portarle in dono, e alla fine optammo per una torta. Gliel’abbiamo data e lei la mise via senza prestarci molta attenzione. Franca mi disse: “Forse avevo ragione io, era meglio portare una sciarpa”. Ma appena andammo via, la figlia ci chiamò e ci disse: “Emma ha già finito tutta la torta!” Aveva semplicemente aspettato che ce ne andassimo per gustarsela da sola. È incredibile pensare che a quasi 117 anni si godesse ancora la torta.

Ha un obiettivo ambizioso, un sogno che vorrebbe realizzare?

Il mio sogno è creare una comunità globale, il “club della longevità”, con milioni di persone che seguano princìpi per vivere meglio e più a lungo. A breve, partirà anche un mio podcast, chiamato “Il movimento della longevità”, e stiamo lavorando a diverse iniziative tra le quali una rubrica sul Corriere della Sera per raggiungere più italiani. Anche se non riusciremo mai a convincere tutti, speriamo che un numero crescente di persone adotti uno stile di vita longevo e sano. Abbiamo un team di professionisti preparati che si impegnano a fornire informazioni scientificamente corrette ma anche indicazioni pratiche. Vogliamo creare una comunità, anche in Italia, di persone che vogliono migliorare la propria salute e quella della propria famiglia.

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