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Neuropsicologia, demenze, disturbi dell’apprendimento: intervista con Micaela Arfò Guarrasi

di
Antonio Alizzi

Tra le interviste in profondità condotte nell’àmbito del III Rapporto sulla Salute e il Sistema sanitario, pubblichiamo un intervento della Dott.ssa Micaela Arfò Guarrasi, Psicologa, Specialista in Neuropsicologia, Dirigente Psicologa ASL Roma 3, UOC – SPDC Ospedale G.B. Grassi. L’intervista affronta i temi legati alle diagnosi in neuropsicologia, con focus su demenza e sui disturbi dell’apprendimento scolastico (DSA).

La demenza viene definita l’epidemia silente del terzo millennio. Può spiegarci perché?

Il motivo di tale definizione è legato alla continua crescita di casi che si registrano ogni anno nel mondo. I 35 milioni di casi rilevati nel 2010 sono destinati a raddoppiare nel 2030 e a triplicare nel 2050. Si riscontrano circa 7 milioni di nuovi casi ogni anno. Il progressivo invecchiamento della popolazione, sia nei paesi occidentali sia in quelli in via di sviluppo, sta trasformando questa patologia in un problema significativo in termini di sanità pubblica. Per via dei casi in continua crescita, l’OMS ha definito la demenza una priorità mondiale di salute pubblica. E l’Italia non è messa meglio: secondo l’Osservatorio delle demenze, coordinato dall’ISS, nel nostro Paese sono circa 1.100.000 le persone affette da demenza e di questi il 50-60% soffrono di Alzheimer, pari a circa 600mila anziani. Come patologia rappresenta una fra le maggiori cause di disabilità il cui andamento cronico-degenerativo ha un forte impatto in termini socio-sanitari, sia perché un numero sempre maggiore di famiglie ne sono drammaticamente interessate, sia perché il loro trattamento richiede una rete integrata e qualificata di servizi sanitari e socio-assistenziali.

Studi recenti parlano di fattori di rischio che esporrebbero allo sviluppo di demenza. Ci può illustrare quali sono?

Principale fattore di rischio della demenza è senza dubbio l’età, che si configura come indicatore non modificabile; infatti, il progressivo invecchiamento della popolazione, da solo, è sufficiente a determinare l’incremento dei casi. D’altro canto, però, la ricerca scientifica è fortemente orientata verso l’identificazione dei fattori di rischio cosiddetti modificabili, quelli sui quali è possibile intervenire mettendo in atto politiche socio-sanitarie di prevenzione sia primaria che secondaria. La Lancet Commission, una commissione di esperti a livello internazionale, ne ha individuati 12, quali il basso livello di scolarità, l’ipertensione, l’ipoacusia, il fumo, l’obesità, la depressione, la scarsa attività fisica, il diabete, l’isolamento sociale, l’eccessivo consumo di alcool, i traumi cranici e l’inquinamento atmosferico.

Qual è l’importanza di fare diagnosi precoci?

L’importanza di una diagnosi corretta e tempestiva è legata soprattutto alla possibilità di attuare i Percorsi Diagnostico Terapeutici ed Assistenziali (PDTA) specifici per la demenza, che prevedono la presa in carico del malato e dei suoi familiari secondo il modello di intervento bio-psico-sociale. Attraverso il PDTA il paziente viene preso in carico dai servizi territoriali, nello specifico, dai CDCD (Centri Disturbi Cognitivi e Demenze) dove riceve una diagnosi ed inizia un percorso di cura che coinvolge anche i caregivers. Attualmente disponiamo di due tipologie di trattamenti: cure farmacologiche e cure non farmacologiche. Mente la terapia farmacologica si è rivelata non risolutiva, il trattamento non farmacologico ‒ primo tra tutti il training di stimolazione cognitiva ‒ si è dimostrato particolarmente utile nel rallentare il progredire della malattia, soprattutto se applicato in fase iniziale. Nelle fasi moderate della malattia, invece, il percorso terapeutico può prevedere l’inserimento del paziente in un Centro Diurno Alzheimer, fino al ricovero in RSA nelle fasi più avanzate. Esistono poi i trattamenti volti a modificare il contesto ambientale e relazionale, tra questi citiamo gli interventi psico-educazionali ed i gruppi di auto-mutuo-aiuto, entrambi utili ad alleggerire il carico assistenziale del caregiver. Sebbene l’efficacia degli interventi non farmacologici sia stata ampiamente dimostrata dalla ricerca scientifica, la loro effettiva applicazione a livello clinico si scontra con la realtà dei servizi territoriali dove è frequente la carenza di personale qualificato e di risorse economiche per attuare interventi evidence-based.

Quanto è cruciale la valutazione neuropsicologica nella fase iniziale delle demenze? Può spiegarci il ruolo centrale di questa valutazione?

Per Esame Neuropsicologico si intende una misurazione oggettiva delle funzioni cerebrali superiori, quali la memoria, il linguaggio, il ragionamento, l’attenzione, le funzioni esecutive, le prassie, le funzioni di visuo-percettive, ma anche la capacità di regolare comportamento e l’emotività, che potrebbero risultare compromessi all’interno di un quadro dementigeno. La valutazione neuropsicologica è particolarmente utile, sia all’interno del processo diagnostico, perché permette di discriminare tra le diverse forme di demenza, sia nella fase di trattamento, perché consente di pianificazione interventi riabilitativi mirati e individualizzati, tra cui la riabilitazione neurocognitiva ed il training di stimolazione cognitiva. Per questi motivi l’Esame Neuropsicologico è citato all’interno delle Linee Guida per la diagnosi e il trattamento della Demenza e del Mild Cognitive Impairment, quale strumento cruciale ed irrinunciabile per giungere ad una corretta diagnosi delle demenze.

Negli ultimi anni si parla sempre di più dei disturbi dell’apprendimento scolastico (DSA). Cosa si intende per DSA?

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) rientrano nella categoria dei disturbi cosiddetti del Neurosviluppo, la cui causa è da ricercarsi in disfunzioni neurobiologiche che interferiscono con il normale processo di acquisizione della lettura, della scrittura e del calcolo. Si definiscono “specifici” perché rimangono circoscritti ad un dominio cognitivo, senza interessare il funzionamento intellettivo più generale. Si riscontrano in persone dotate di una normale intelligenza, delle volte anche superiore alla media, e in assenza di deficit neurologici o sensoriali (visivi o uditivi), disturbi psicopatologici primari, svantaggio socio-culturale, assenteismo cronico o istruzione inadeguata. Si manifestano soprattutto durante i primi anni della scuola primaria o secondaria di primo grado, ma possono presentarsi anche in età adolescenziale o adulta quando il carico delle richieste ambientali cresce superando le abilità dello studente. La loro prevalenza oscilla tra il 2,5 e il 3,5% della popolazione in età pediatrica e rappresentano quasi il 30% degli utenti che afferiscono ai servizi di neuropsichiatria infantile in età scolare.

Esistono diversi disturbi dell’apprendimento. Ci aiuta a fare chiarezza sulle diverse forme?

In base all’ICD-10, cioè la classificazione internazionale delle malattie, vengono comunemente distinte quattro condizioni cliniche: Dislessia, Disortografia, Disgrafia, Discalculia. La Dislessia identifica il disturbo specifico della lettura, intesa come abilità di decodifica del testo scritto. La lettura ad alta voce può presentarsi lenta, imprecisa e faticosa; le parole possono presentare aggiunte, omissioni o sostituzioni di vocali o consonanti, il riconoscimento della parola nella lettura può essere difficoltoso. La Disortografia è il disturbo specifico della scrittura intesa come abilità di competenza ortografica o di rispetto delle regole grammaticali. Si manifesta con errori ortografici o di punteggiatura e difficoltà di trascrizione delle parole nei casi in cui non vi sia corrispondenza diretta fra grafema e fonema, come accade nelle lingue non trasparenti quali l’inglese. La Disgrafia indica il disturbo specifico della grafia intesa come abilità grafo-motoria, questo disturbo altera la capacità di tracciare segni grafici, come le lettere, in modo fluido e leggibile. Infine, per Discalculia si intende il disturbo specifico delle abilità di calcolo, cioè la padronanza nell’uso delle operazioni fondamentali, quali addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione, oppure delle capacità di calcolo matematico più astratto, di ragionamento matematico e di risoluzione di problemi matematici. La persona con discalculia presenta scarsa comprensione dei numeri, conta sulle dita piuttosto che ricordare i fatti numeri come fanno i coetanei.

Quale è il decorso evolutivo di questi disturbi?

I DSA hanno effetti persistenti e spesso invalidanti per la vita del ragazzo (ad esempio, abbandono scolastico, difficoltà lavorative) e può causare disturbi secondari di interesse psicopatologico, quali bassa autostima, percezione di scarsa autoefficacia, comportamenti di evitamento, fino a sviluppare un disturbo ansioso-depressivo o problemi nella sfera comportamentale quando si presentano in comorbilità con il disturbo dell’attenzione con iperattività (ADHD). L’evoluzione dei DSA è condizionata da alcune variabili indipendenti tra loro, quali la gravità iniziale del disturbo, l’associazione di difficoltà nelle tre aree lettura, scrittura e calcolo, la tempestività della diagnosi e l’adeguatezza degli interventi adottati, il livello cognitivo, la presenza di altri disturbi neuropsicologici o disordini psichiatrici, ecc. In ogni caso, la precocità della diagnosi, della presa in carico e degli interventi riabilitativi svolgono un ruolo cruciale nella riduzione dell’entità del disturbo, nel rendimento scolastico e nella prognosi complessiva psichiatrica e sociale a lungo termine.

Esistono interventi efficaci per il trattamento dei DSA?

Per il trattamento dei DSA non esistono interventi di tipo farmacologico, mentre esistono evidenze scientifiche sull’efficacia di trattamenti di tipo “abilitativo”. A tal proposito, le Linee Guida sulla gestione dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento suggeriscono di sviluppare azioni in due differenti direzioni: interventi logopedici e cognitivi ed interventi di potenziamento erogati a livello scolastico. Sulla base di queste evidenze il trattamento deve essere erogato quanto più precocemente possibile, tenendo conto del profilo emerso dalla diagnosi e deve basarsi su modelli evidence based.

Ci parla dell’importanza della legge 170/2010?

La legge n.170 dell’8 ottobre del 2010 (“Norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in àmbito scolastico”) tutela il diritto allo studio e indica iniziative e misure necessarie per un’adeguata promozione dello sviluppo dei bambini e ragazzi con DSA. La legge 170/2010 e le Linee Guida del MIUR riconoscono un ruolo cruciale alla scuola e all’Università coinvolgendole attivamente nell’individuazione delle metodologie da mettere in atto per garantire a tutti gli studenti il raggiungimento dei medesimi obiettivi formativi, dando spazio al loro potenziale e rispettando le loro peculiarità. La legge 170/2010 punta a ridurre le implicazioni di tipo psicologico, relazionale e sociale che questi disturbi comportano e intende favorire il dialogo tra tutti i soggetti coinvolti a vari livelli, quali la scuola, le famiglie ed i servizi sanitari territoriali.

Quale ruolo svolge la scuola nella gestione tempestiva e corretta dei DSA?

Il ruolo della scuola è determinante nell’individuare precocemente gli alunni che potrebbero avere un DSA e nell’attuare prontamente interventi di potenziamento che aiutino l’alunno a superare le difficoltà che presenta. Qualora i problemi di apprendimento fossero resistenti, gli insegnati devono consigliare alla famiglia di avviare un percorso diagnostico presso i Servizi Sanitari Territoriali (TSMREE). Una volta accertato il disturbo ed ottenuta una certificazione per Disturbo Specifico dell’Apprendimento, gli insegnanti sono tenuti ad elaborare il PDP (Piano Didattico Personalizzato) che tenga conto delle specificità dello studente con DSA. Il PDP è un documento obbligatorio di programmazione che delinea tutti gli interventi previsti a sostegno degli studenti che hanno esigenze didattiche particolari come i DSA, senza essere disabili. Gli insegnati redigono il documento entro il primo trimestre scolastico e lo condividono con la famiglia, che lo deve approvare.

La legge 170/2010 parla di provvedimenti dispensativi e compensativi. Di cosa si tratta?

Gli strumenti compensativi e dispensativi sono «strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria», sia essa la scrittura, la lettura o il calcolo e permettono al bambino o al ragazzo di studiare e apprendere con efficacia. Gli strumenti compensativi hanno lo scopo di garantire l’autonomia dello studente compensando le carenze funzionali determinate dal disturbo, non incidono sul contenuto cognitivo, ma possono accrescere la velocità e la correttezza dell’esecuzione del compito e quindi migliorare il risultato finale. Sono un esempio di strumenti compensativi: i programmi di sintesi vocale, che trasformano il testo scritto in audio, la calcolatrice, i programmi di videoscrittura con correttore ortografico, le mappe concettuali, ecc. Le misure dispensative, invece, consistono nell’evitare compiti poco utili sul piano funzionale, come ad esempio la lettura ad alta voce, l’uso del corsivo o dello stampato minuscolo, copiare dalla lavagna, scrivere sotto dettatura, prendere appunti a mano; rientra in questa categoria anche la possibilità di programmare le interrogazioni e di avere più tempo a disposizione rispetto ai compagni nelle verifiche a tempo.

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