Nell’àmbito del lavoro svolto per la realizzazione del Terzo Rapporto sulla Salute e il Sistema Sanitario dell’Eurispes, pubblichiamo l’intervista a Beatrice Mazzoleni, Segretaria nazionale di FNOPI (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche).
Dottoressa Mazzoleni, sappiamo che in Italia c’è un fabbisogno di 15mila infermieri ogni anno e che se ne laureano tra gli 11 e 12mila ‒ 11mila e 500 l’anno scorso. In che tempi questo gap può essere risolto?
Questo gap lo abbiamo calcolato negli ultimi anni, prevedendo semplicemente quelle che sarebbero state le uscite. Il turnover per un certo momento è rimasto fermo prevalentemente per mancanza di concorsi e quindi sembravamo poter mantenere un equilibrio. Lo sblocco, specie dal 2020 in poi, ha allargato questa forbice. È una situazione che purtroppo, vedendo i numeri in nostro possesso, non può essere risolta molto facilmente, proprio per questo disequilibrio creatosi negli ultimi anni e per via della questione demografica. Tenendo conto dell’invecchiamento della popolazione italiana, con le relative necessità, e della correlata contrazione delle nuove generazioni, sarà difficile poter giungere a un allineamento. La questione è, adesso, riuscire a utilizzare nel miglior modo possibile i laureati ogni anno e riuscire a farli restare il più possibile in un mondo lavorativo complesso come quello della sanità. Le ultime ricerche ci confermano che oggi per i giovani di 30 anni facilmente si prevede una linea di lavoro di almeno 45 anni. Su tutto questo impattano la carenza, la competitività, l’attrattività, eccetera. È un sistema in grosso affaticamento e oggi il sistema è sostenuto anche da infermieri provenienti dall’estero.
Lei parlava dell’inverno demografico e dell’invecchiamento della popolazione. C’è anche un tema di esodo legato al pensionamento degli infermieri, una gobba pensionistica. Stando così le cose, cioè con un trend inerziale, oggi mancano 65mila unità di infermieri, presto si arriverà a 120mila. Cosa pensate si debba fare?
È una risposta che è difficile dare guardando solo alla nostra professione, dobbiamo guardare al sistema e alla popolazione. Partendo dall’assunto che il gap numerico di infermieri non lo possiamo colmare, vanno trovate strategie alternative. È un ragionamento che parte dalla formazione: cercare di mantenere un sistema di qualità, cercare di attrarre il più possibile le giovani generazioni, mantenere un trend di iscrizioni ai test di un certo livello e non scendere sotto gli attuali numeri. Una formazione che sia di tipo flessibile, che vada incontro alle necessità delle nuove generazioni, approcci formativi che permettano anche al giovane di rendere sostenibile la sua formazione. Poi c’è l’impatto dell’entrata nel mondo del lavoro nel quale è necessario rendere più flessibili i rapporti di lavoro e liberare il potenziale: noi abbiamo degli infermieri che, soprattutto nel pubblico, hanno un rapporto di esclusività. Questo vincolo di esclusività, che oltretutto non è riconosciuto dal punto di vista economico, dovrebbe essere rimosso. Il che non vuol dire liberalizzare completamente, ma mettere a disposizione del mercato ulteriore personale infermieristico. Ci sono poi i modelli organizzativi, non solo sugli ospedali, ma in generale del percorso di cura. Va più che mai pensata quella che noi abbiamo definito una filiera assistenziale con la governance infermieristica. Con una guida infermieristica bisogna coinvolgere la parte civile, i famigliari e i caregiver. È quello che già sta succedendo sul territorio, dove non tutte le attività vengono erogate direttamente dal professionista, ma il professionista ha in mano la pianificazione del percorso, l’educazione, la formazione di altre persone e, quindi, l’erogazione diretta con un controllo professionale. Anche dal punto di vista organizzativo, questo potrebbe essere portato all’interno degli ospedali per riuscire a renderli più sostenibili. Il professionista diventa il fulcro che garantisce un percorso più sicuro del paziente.
Una presa in carico veramente socio-sanitaria…
Assolutamente. Anche perché in questo momento siamo in una situazione di difficoltà in cui la parte infermieristica – ma possiamo dire in generale la parte sanitaria – sta sostenendo un sistema, ma con modalità già straordinarie. Abbiamo calcolato che nel 2023 gli infermieri hanno erogato circa 9,5 milioni di ore di straordinari con una spesa nel pubblico di 200 milioni di euro. Se questo costo potesse essere reinvestito con modelli organizzativi più flessibili, potrebbe creare questa filiera in linea con il bisogno, citato dall’OMS, di umanizzazione delle cure e della cura di prossimità, del coinvolgimento dei familiari, dei caregiver, del comune, di tutta la rete che può sostenere una persona. Per fare tutto questo, dobbiamo partire dalla prevenzione: in àmbito pediatrico, scolastico. Permettere alla popolazione di vivere il maggior numero di anni possibile in buona salute, con una buona qualità di vita, allontanando il più possibile il tempo della dipendenza.
Come superiamo idealmente il vincolo dell’esclusività? Immaginiamo di essere nel 2050.
Potremmo pensare a due tipologie di ruoli per gli infermieri dal punto di vista clinico-assistenziale. L’idea potrebbe essere di avere un infermiere, quindi un dipendente pubblico, che garantisca la sua attività, la sua operatività nell’ambito ospedaliero, piuttosto che nell’ambito del territorio, e che fornisca la sua prestazione e la sua professionalità dentro il sistema pubblico. Il che vuol dire fornire un pacchetto di ore settimanali da contratto, senza vietargli di fare ore aggiuntive, magari anche d’accordo con l’azienda di cui è dipendente, e mettere a disposizione la sua professionalità anche per altre strutture. Non dimentichiamoci che abbiamo una grande sofferenza sulle RSA, c’è una situazione di grande abbandono. Alcune case di riposo sono state chiuse, non stiamo dando una risposta ai grandi anziani o a chi ha delle dipendenze. Quindi, riuscire a strutturare una specie di welfare tra aziende per utilizzare su più aree la parte professionale degli infermieri nell’ambito pubblico, su ambulatori piuttosto che nell’ambito territoriale o quant’altro. Poi c’è il privato. Noi abbiamo 50mila liberi professionisti in Italia e questo valore è in aumento. I liberi professionisti hanno più opzioni: lavorare in accordo con altre strutture – quindi fare dei contratti con il sistema pubblico – oppure lavorare in forma privata pura. In questa situazione, gli infermieri possono avere più opportunità, più possibilità di costruirsi la loro vita lavorativa sulla base della necessità del loro percorso di vita. A 20 anni si possono fare un certo numero ore di lavoro, a 30 anni un’infermiera mamma ha delle necessità, a 50 la persona avrà un diverso tipo di necessità. Questo richiede una grande flessibilità organizzativa. Noi siamo cresciuti con i classici turni, mattina-pomeriggio-notte, oppure ci sono le giornate, oppure le sezioni della notte. Abbiamo esperienze internazionali dove i turni aziendali sono organizzati sulla base di una clusterizzazione della popolazione infermieristica, o comunque dei professionisti sanitari. Questo aiuterebbe di sicuro. E poi c’è la formazione che molti colleghi continuano ad acquisire ma che spesso fornisce competenze che non vengono utilizzate, permettendo di cambiare l’attuale approccio che un infermiere vale uno. Uno è uno numericamente, ma sappiamo molto bene che gli infermieri hanno delle competenze molto stratificate e che pertanto andrebbero incardinati organizzativamente secondo ciò che sanno e che sanno fare.
Parliamo di formazione e di numero chiuso in particolare. Noi sappiamo che attualmente, in Italia, sommando tra percorsi di laurea triennale e magistrale, ogni anno sono disponibili circa 35mila posti. Di questi, 20mila sono per il triennio. Sappiamo anche, però, che in molti casi la domanda è stata inferiore all’offerta di posti. Questo accesso programmato, dunque, a differenza di quello per la facoltà di medicina, non sembra essere il problema.
L’accesso programmato è una decisione di tipo politico. È nato a livello europeo, quindi ci si muove in modo coordinato con altri paesi; già dal 2011 era partita una joint action europea per la definizione dei fabbisogni delle professioni sanitarie. Questo perché è ormai chiaro che nella globalizzazione siamo tutti comunicanti, e dove un paese si sbilancia, ciò influisce sull’altro. La concertazione dei numeri avviene su più fronti: con le Regioni, le Federazioni, i Ministeri e le Università. Da un lato c’è il nostro “sistema salute” che ha bisogno, oggi, di 26mila infermieri l’anno. Si tratta di un numero determinato in accordo con le Regioni. Dall’altra parte abbiamo le Università la cui capacità per mantenere un’adeguata qualità formativa è di 20mila posti. In sede di selezione non c’è ora una vera selezione, perché effettivamente c’è uno sbilanciamento dal punto di vista delle richieste: abbiamo carenza di candidati al Nord, mentre va molto meglio al Sud dove la professione è anche una risposta sociale. La prima cosa che noi stiamo chiedendo al Ministero dell’Università è di cambiare le modalità del test e renderlo più flessibile. A uno studente che è stato ritenuto idoneo al Sud, dove magari i posti sono stati tutti occupati, bisogna dare la possibilità di spostarsi in un’altra Università. Lavorare a silos, come adesso, ci fa perdere 1.200/2.000 candidati all’anno.
Se il numero chiuso in medicina venisse rivisto, vi sarebbero effetti sulla vostra categoria professionale?
L’apertura dei posti di medicina potrebbe sottrarre risorse sul versante infermieristico. Potremmo essere favorevoli all’abolizione dei numeri chiusi, ma cercando di trovare dei meccanismi di riqualificazione. C’è da fare un lavoro di consapevolezza sui giovani, perché a volte non si sa neanche, a quell’età, che professione si sta cercando. Si fa infermieristica perché non si è riusciti a fare medicina? Non è vero, sono due cose completamente diverse. Ci sono, potenzialmente, degli studenti che provano sia da una parte che dall’altra, ma è una percentuale minima. Sono due lavori completamente diversi, e forse una delle necessità dal punto di vista di comunicazione è proprio quella di far conoscere nel miglior modo possibile gli infermieri e le professioni sanitarie. Noi abbiamo organizzato un evento, il 4 luglio, con la Conferenza dei Rettori a Roma e abbiamo diffuso un video per presentare il potenziale infermieristico, perché nell’idea giovanile il ruolo degli infermieri è: si lavora in ospedale, sei l’eroe del Covid. È una rappresentazione molto riduttiva. Quindi sul numero chiuso siamo davanti a due strade. O lo si mantiene concentrando l’attenzione sulle risorse formative delle professioni sanitarie in modo strutturato, oppure si apre a tutti e tra dieci/quindici anni ci troveremo dei disoccupati il che, a cascata, ridurrà l’attrattività delle professioni sanitarie.
Specialità cliniche per la vostra professione. A che punto siamo?
Le specializzazioni cliniche in infermieristica sono una novità parziale, nel senso che nascono negli anni Novanta, in un momento in cui era già dichiarata l’esistenza di infermieri specialisti in diverse aree ed erano già identificate sei aree cliniche tra cui la salute mentale, quella pediatrica, la terapia intensiva, eccetera. Quello che vediamo oggi è un ulteriore passo verso le necessità del sistema, la complessità dei nostri pazienti e l’esigenza di riorganizzare la filiera assistenziale attorno a una governance forte. Le specializzazioni infermieristiche sono state sviluppate, finora, con uno strumento universitario che ha un valore ridotto, cioè i master di I livello. È invece strutturata e più riconoscibile la laurea magistrale, che abbiamo già da 25 anni. Tuttavia, il +2 è un indirizzo prettamente manageriale, infatti serve per accedere ai concorsi da dirigente. L’idea nostra è che questo percorso, che ha la garanzia di qualità, debba valorizzare anche l’ambito clinico. Due anni, peraltro molto richiesti dai giovani infermieri, con un focus clinico. Andremmo a decomprimere la triennale, che in questo momento è l’unico strumento con cui noi tentiamo di formare questi 12mila infermieri preparandoli ad ogni àmbito di assistenza. È del tutto evidente che la possibilità che in tre anni si possa preparare un infermiere ad assistere ‒ dal bambino al paziente in terapia intensiva, dal paziente in sala operatoria a quello in medicina ‒ è inverosimile. Queste specializzazioni rappresentano una risposta alla necessità di strutturare competenze cliniche importanti che permetterebbero di governare questa filiera assistenziale, inclusa la parte dei caregiver, delle famiglie e la parte della popolazione civile. In secondo luogo, darebbero un’idea di potenziale carriera ai nostri giovani e quindi presentarebbero un’infermieristica diversa. Ciascuno, in base al proprio percorso di vita e a ciò che ha studiato, potrà lavorare in diverse aree, ma con un reale riconoscimento del suo percorso di crescita professionale. Occorrerà ovviamente anche un cambio normativo che consenta alle aziende di attivare modalità concorsuali diversificate. Oggi, ci sono i bandi generalizzati per gli infermieri e i bandi per i dirigenti. L’idea invece è che se un’azienda ha bisogno di potenziare l’area critica, farà un bando per infermieri con queste competenze. Le aziende ottimizzeranno anche i periodi di inserimento e di formazione. Si tratta di percorsi di specializzazione con caratteristiche più flessibili rispetto al mondo medico perché nel mondo medico, conseguita una specialità, si rimane a lavorare lì. La nostra idea è di avere basi comunicanti, avere più aree di specializzazione – in questo momento ne stiamo strutturando tre – dove l’infermiere, ad un certo punto di vita per necessità personali o necessità di percorso di carriera, può riutilizzare una parte del suo percorso di studio e agganciarlo a un altro, cambiando così area di lavoro. Noi questo lo vediamo attraverso il nostro Centro di ricerca nazionale, il CERSI. In un recente studio abbiamo visto che una delle specializzazioni in atto è quella dell’infermiere di famiglia/di comunità, istituito nel 2020. Siamo andati a vedere come operano i nostri infermieri che in questo momento non hanno una laurea magistrale dedicata, ma si stanno autoformando, tra master di I livello, corsi aziendali e altro. Osserviamo ottimi outcomes sulla salute dei pazienti, un netto miglioramento della qualità di vita degli infermieri, un basso turnover e un grande riconoscimento da parte dalla popolazione che, ormai, ha identificato l’infermiere di famiglia/di comunità un altro nodo della rete. Se sono una donna di 70 anni che ha qualche problema di salute, ma sono autonoma, l’infermiere di famiglia/di comunità inizialmente fa un servizio di monitoraggio della rete sociale, per cui attiva i servizi sul territorio; poi dirà a questa signora: “io vengo a trovarla, o la chiamo una volta al mese; lei, però, se ha bisogno mi allerti”. Questo ha un potere di alleggerimento enorme del pronto soccorso, il cui 60% dei codici sono bianchi con necessità di prestazioni di bassissimo livello. Nuove specializzazioni, quindi, incardinate nell’organizzazione e con contratti di lavoro specifici.
Le specializzazioni quali sono?
L’infermiere di famiglia/comunità; dell’area critica – dalle terapie intensive al pronto soccorso, all’emergenza territoriale – e dell’ambito pediatrico. Oggi, rispetto a quest’ultima famiglia professionale, in Italia abbiamo 9mila infermieri pediatrici. Stanno dando un apporto fondamentale a una popolazione che ha delle specificità enormi. Il sistema non ci sta permettendo di dare risposte, ad esempio, ai bimbi cronici, ormai diventati adulti. Vengono presi in carico da un infermiere pediatrico a 3/4 anni di vita insieme a loro le famiglie, ma quando quel bambino compie 18 anni di età deve cambiare professionista perché l’infermiere pediatrico non ha la possibilità di assistere l’adulto, secondo il suo profilo professionale. È una grande carenza del nostro sistema. La specializzazione permetterebbe invece di aumentare ancora di più le competenze su questi bambini e le loro famiglie e, dall’altra parte, permettere le transitional care. Questo per noi è un profilo di eccellenza rispetto alla popolazione pediatrica che oltretutto, al giorno d’oggi, si sta complicando sempre di più. Basti pensare alle peculiarità della salute mentale – e noi pensiamo anche per quest’area a una prossima specializzazione – che negli anni si è focalizzata prevalentemente su patologie di salute mentale sugli adulti. Oggi, invece, sappiamo di avere una next gen post-Covid per cui dobbiamo già pensare ora a come prenderla in carico, perché i giovani di oggi saranno i fruitori dell’SSN di domani e dobbiamo pensare alla sua sostenibilità a lungo termine.
Problemi di salute mentale che crescono anche tra i giovanissimi.
Esatto. Ansia, tantissima ansia, crisi di panico, depressione. Gli ultimi Rapporti lo dicono chiaro. Noi ci preoccupavamo prevalentemente dei ragazzi che uscivano dalle scuole superiori negli anni 2020/2021 ma loro ‒ ci rendiamo conto oggi ‒ erano molto più strutturati, erano già dei piccoli adulti. Quelli che ci siamo dimenticati, invece, sono gli adolescenti di quell’epoca, che adesso stanno arrivando con una grande incertezza per il futuro. Non hanno punti di riferimento e questo li destabilizza e li impaurisce.
Le sostanze stupefacenti?
Assolutamente sì. L’età media si è abbassata tantissimo. I ragazzi hanno questi comportamenti che potremmo definire autolesivi da più punti di vista: dalle sostanze stupefacenti all’alcool, ma anche negli atteggiamenti sessuali. È mancata una parte di supporto da questo punto di vista, quindi spostano l’attenzione su sostanze che permettono loro di tenere alta la carica emotiva.
Può fare una panoramica quantitativa degli infermieri nel nostro Paese?
Abbiamo 460mila infermieri iscritti agli albi nazionali, gli albi sono due: Infermieri e Infermieri pediatrici. 9mila sono infermieri pediatrici, gli altri sono generalisti, circa 452mila. Abbiamo poi circa 45mila liberi professionisti, 3mila infermieri delle Forze Armate. 267mila infermieri lavorano nel SSN, gli altri si distribuiscono tra libera professione e privato accreditato o privato puro. Abbiamo poi la suddivisione per fasce d’età, a cui è agganciata la gobba pensionistica, e l’articolazione per genere. La nostra nasce come una popolazione femminile, ma anche in questo caso abbiamo grosse disparità sul territorio. Se mediamente il 66% della popolazione infermieristica è femminile, al Nord questa percentuale tocca l’85%, al Sud si attesta attorno al 55%.
Parlava di “clusterizzazione” in riferimento ad alcune esperienze straniere.
Ho in mente l’esperienza canadese. Rispetto a noi sono avanti di circa dieci anni sul problema infermieristico. In Canada il problema prioritario della carenza infermieristica è il confine con gli Stati Uniti. Hanno messo in atto una serie di azioni, a cominciare dalla leva economica anche se è ormai chiaro che non è la leva che fa spostare un professionista da una parte all’altra, o perlomeno lo fa per un tempo ridotto. Dopodiché, hanno azionato tutta una serie di leve strategiche: il life work balance, quindi tutta una serie di servizi interni di welfare, che vanno dal sostegno alla salute per la famiglia del professionista, all’asilo nido interno, alla palestra, ai corsi di benessere; sono intervenuti sulla parte organizzativa di turnistica. Un esempio di tali approcci può darcelo il Magnet Hospital, modello che è in espansione in alcune aree europee.
Un must have della letteratura è Patricia Benner che, parlando di carriera degli infermieri e adottando una classificazione che, a sua volta, recupera da Dreyfus – quindi basata sull’esperienza – sostiene che ci sono tre gruppi di espressione professionale: il novizio, l’esperto competente e l’avanzato. In base a queste nuove specialità, cosa succede quando un infermiere che ha una laurea magistrale, e ha 27/28 anni, arriva sul campo e trova dei colleghi più maturi ma con meno formazione accademica?
Mi fa molto piacere che sia stata recuperata la classificazione di Benner in quanto questa studiosa riesce a mettere insieme il percorso formativo, che non può essere l’unico item di valutazione per un professionista, con la parte esperienziale, importantissima e che non possiamo perdere. Nonostante in questo momento stiamo sostenendo un sistema sanitario con competenze di esperti, perché la formazione strutturata non ce l’abbiamo ancora, il fatto di riuscire a metterla insieme ci permetterà di avere e valorizzare la parte delle esperienze che già oggi noi agiamo. In questo momento siamo davanti ad infermieri che magari hanno una laurea triennale, ma che stanno gestendo ambulatori complessi o reparti interi. Negli ultimi mesi, per esempio, è stato creato in alcune realtà il ruolo del caring nurse che viene impiegato in Pronto Soccorso per via delle sue abilità comunicative importanti. Professionisti con elevate capacità ed esperienze, ma privi di una strutturazione formativa che non esiste. I novizi sono quelli con la triennale durante i primi due/tre anni di lavoro. Devono essere affiancati, crescere. Grazie anche alla formazione continua in medicina, diventano sempre più formati, esperti e competenti. Pian piano diventeranno, come li chiama Benner, “avanzati”. Nel mondo internazionale quello che noi definiamo infermiere specialista con la laurea magistrale è l’advanced practitioner nurse. In questo momento abbiamo centinaia di infermieri con un PhD clinico che non stiamo utilizzando, non permettendo loro di agire le loro conoscenze per i cittadini e il sistema.
Avete dati aggiornati sugli infermieri italiani che lavorano all’estero?
Sono circa 30mila. Lo Stato italiano ha investito economicamente sulla formazione infermieristica ma poi non ha usato l’eccellente prodotto di questo investimento. Lo ha invece messo a disposizione di altri paesi. Quello che questi giovani colleghi ci raccontano è la loro voglia di vedere che cosa c’è fuori. Hanno un approccio alla vita molto più globalizzato e questo è un dato positivo. Il secondo elemento è il loro interesse verso la flessibilità lavorativa. “All’inizio ero un novizio, mi hanno messo a fare le cose minime, ma poi l’azienda mi ha permesso di studiare, di andare avanti”, ci dicono. Hanno trovato autonomia e responsabilità. Abbiamo infermieri nel Regno Unito che fanno piccoli interventi chirurgici, che gestiscono sale operatorie, che sono direttori generali di ospedali clinic, che garantiscono la risposta di piccole strutture private, che gestiscono tutta la filiera nel territorio. Sono protagonisti di quello che si chiama task sharing o task shifting. Le specializzazioni che noi chiediamo sono anche un avanzamento di competenze di cui ha bisogno il territorio. All’estero questo è già sdoganato, addirittura con normative non ancora pienamente applicate, ad esempio in Spagna, dove ci sono delle categorie infermieristiche specializzate che gestiscono anche tutta la prescrizione farmaceutica relativa alle patologie lievi, come un’influenza con un antibiotico, una medicazione, ecc.
Per 30mila italiani che sono fuori, sappiamo quanti stranieri, invece, lavorano da noi?
In Italia lavorano circa 23.000 infermieri stranieri di cui 15.674 provengono da paesi Ue e 9.456 da paesi extra Ue. Si concentrano soprattutto in Lombardia, Lazio, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto. I paesi di maggior provenienza sono quelli dell’Est europeo e, in misura minore, India e Perù. Questi sono gli infermieri “regolari”, quelli cioè che hanno seguito la procedura di legge per essere ammessi e poi iscritti agli ordini professionali.
Poi ce ne sono circa 13.000 entrati in Italia con i provvedimenti emergenziali legati al Covid e alla guerra in Ucraina, che al momento non sono sotto il controllo degli ordini, anche se a livello istituzionale si stanno regolamentando gli ingressi. Stiamo cercando di non perdere questo potenziale perché, dopo 4 anni trascorsi in Italia, l’infermiere straniero è formato. Stiamo quindi cercando di strutturare con i Ministeri un percorso per non disperdere questa risorsa che andrà a scadere nel mese di dicembre 2025. Occorre inserirli nel flusso di riconoscimento del titolo e farli iscrivere agli ordini. Questo garantirà sicurezza al paziente, perché in questo momento questi infermieri non possono assicurarsi e non possono fare la formazione continua.
Che cosa fare per aumentare la soddisfazione professionale degli infermieri?
Stiamo ragionando su più aree in contemporanea. Prioritaria è sicuramente la parte della formazione di cui abbiamo parlato prima. Ragionare in modo sistemico con l’evoluzione sulle lauree magistrali e ipoteticamente, in un prossimo futuro, anche sulle scuole di specialità così da recuperare anche i dottorati di ricerca sul versante dell’organizzazione. Dobbiamo revisionare una normativa organizzativa, contrattuale e accademica che è molto vecchia.
A proposito di normativa vetusta, cosa serve dal lato policies?
Siamo d’accordo sull’idea che l’evoluzione del sistema sanitario vada verso una maggiore prossimità al paziente. Oltretutto, veniamo da un periodo in cui si parla di continuità ospedale/territorio. Il paradigma, in realtà, va proprio ribaltato. Tutta la salute, infatti, dovrebbe essere erogata il più possibile a domicilio. Se suddividiamo l’arco della vita di una persona, possiamo affermare che, la salute erogata a domicilio nel corso della vita è pari al 98% rispetto al 2% dei trattamenti ospedalieri. Qui ci troviamo in linea con l’obiettivo delle case di comunità, dell’ospedale della comunità. Il Dm 70 e poi il Dm 77 parlano la lingua infermieristica, perché ci trovano protagonisti.
Il privato attrae di più rispetto al pubblico?
Accadeva anni fa. Non è più così perché i contratti sono tendenzialmente allineati, anzi mi viene da dire che il privato ha dei ritmi e delle richieste superiori rispetto al pubblico da un certo punto di vista. Quello che invece osserviamo è l’abbandono di strutture ospedaliere da parte degli infermieri che vanno a lavorare al domicilio dai pazienti, dove peraltro cresce il riconoscimento sociale da parte della popolazione, una leva strategica molto forte per gli infermieri.
Qual è il punto di vista di FNOPI sulle aggressioni al personale sanitario?
Questa è una tematica che monitoriamo da anni. Fino al 2019/2020 la tenevamo mappata ma in modo più teorico, poi abbiamo dato vita a un focus. Secondo i dati di uno studio che abbiamo condotto come FNOPI tra il 2021 e il 2022 il 32% degli infermieri era stato vittima di aggressioni. Abbiamo svolto poi con altre modalità un altro studio nel 2023, proprio con l’Osservatorio del Ministero della Salute, e i dati ci hanno restituito un valore pari al 40% di infermieri aggrediti. Non sempre i dati di aggressione vengono dichiarati o, meglio, non sempre vengono denunciati. La cosa grave è che i professionisti sanitari stanno vivendo le aggressioni come qualcosa che ormai fa parte del loro ruolo. Aggressione fisica, aggressione verbale: le fattispecie sono diverse. Le aree di maggiore attenzione sono sicuramente quelle del Pronto Soccorso, poi i reparti di medicina, ma in generale purtroppo non ci sono aree indenni. Il messaggio indiretto che ci arriva è che il Pronto Soccorso non sta riuscendo a dare le risposte che i cittadini si aspettano. Ancora più a monte, evidentemente, mancano adeguate cure domiciliari. Non stiamo rispondendo alle necessità della cronicità dei pazienti, delle famiglie, dei caregiver. Come FNOPI abbiamo attivato dei percorsi formativi strutturati sulle tecniche di de-escalation, sulla difesa fisica che stanno mettendo in campo alcuni ospedali. Se però arrivi alla difesa fisica vuol dire che non hai disattivato prima il problema. L’infermiere comunicatore, cui ho accennato prima, fa parte di questa risposta complessiva: nelle sale di attesa dei Pronto Soccorso si occupa proprio di disinnescare potenziali fattori di violenza. Abbiamo visto che riuscire a coinvolgere la popolazione dei cittadini è la chiave, compresa l’azione di spiegare alle persone le difficoltà organizzative di gestione. Così facendo, nella presa in carico pazienti e familiari diventano degli alleati e non nemici. È necessario prevedere giuste conseguenze per chi aggredisce e dall’altra lavorare per una cultura sociale del rispetto di chi esercita una professione di cura.
Come si distribuiscono queste aggressioni nel nostro Paese?
Le vediamo maggiormente nelle aree disagiate rispetto ai servizi o con più basso livello di istruzione. I Pronto Soccorso delle aree periferiche delle grandi metropoli, in quartieri che sono anche ben conosciuti, sono i più difficoltosi da gestire. C’è sicuramente un contesto culturale non favorevole, in cui ogni forma di autorità è messa sempre in discussione, in una spirale di rabbia crescente nella nostra società. Professionisti sanitari, docenti, Forze dell’ordine, fino ad arrivare a un capotreno o al personale di bordo di un aereo… sembrano tutti essere bersagli facili sui quali riversare una insoddisfazione generale rivolta a servizi fondamentali per la cittadinanza: il diritto alla salute, all’istruzione, alla sicurezza, alla mobilità. Niente però può e deve giustificare reazioni violente, che diventano poi azioni vigliacche e ancora più inaccettabili quando perpetrate nei confronti “del primo che capita sotto tiro”, come nel caso dei nostri infermieri esperti di Triage, che ogni giorno, in tutti i Pronto Soccorso, vengono a essere il primo punto di contatto tra il paziente e il Servizio sanitario nazionale. Alle Istituzioni preposte rinnoviamo quindi la richiesta, sempre più urgente, di misure e soluzioni per una situazione che sta diventando sempre più insostenibile e intollerabile.
Le indagini sulle aggressioni da lei richiamate hanno valenza statistica?
Sì. Aggiungo un altro dato: del 40% che ha dichiarato di aver subìto aggressioni, la metà ha sostenuto di aver subìto da 4 a 10 aggressioni nell’arco di un anno. Il 55% addirittura in misura maggiore e con diverse forme. C’è bisogno considerare questi professionisti, tutelarli e pensare a dei percorsi per agevolare il ricorso a legali esperti in materia, anche nell’ottica di contenere i costi che poi inevitabilmente si generano se si va in giudizio. Il vissuto di un infermiere, di un professionista aggredito è insomma un vissuto che fa fatica ad essere elaborato. Ci sono studi internazionali che ci parlano di episodi di burnout, stress, disaffezione, tanto è vero che in questi anni si registrano molti casi di abbandono delle professioni di cura e assistenza, o comunque di scarsa attrattività presso le nuove generazioni che progettano il proprio futuro lavorativo.
Ci aiuta a comprendere meglio il fenomeno del turnover del personale infermieristico?
C’è il turnover dei pensionamenti, con l’effetto della gobba pensionistica. Mentre l’altra urgenza è la liberalizzazione del mercato del lavoro: essendoci un’offerta di professionisti inferiore alla domanda, le opportunità professionali si sono moltiplicate. Negli ultimi due o tre anni stiamo assistendo a una grande migrazione Nord-Sud a seguito della riapertura dei concorsi al Sud, dopo anni di blocchi come le Regioni con piani di rientro, di chi vuole riavvicinarsi alla propria residenza, C’è ancora una forte attrattività del pubblico, rimane forte l’attrattività del posto fisso e delle garanzie che questo può dare. Nel prossimo futuro, a nostro avviso, si svilupperà sempre di più invece la mobilità: l’apertura di mercato supererà ulteriormente i confini nazionali e i giovani guardano ai loro obiettivi di vita. Quei 30mila infermieri italiani all’estero continueranno probabilmente ad aumentare. Più che bloccare gli spostamenti, dovremmo diventare più attrattivi anche noi, non solo verso i paesi che partono da un livello inferiore al nostro e che presentano tutta una serie di barriere culturali. Se cominciassimo a diventare attrattivi magari per la Spagna, l’Inghilterra, eccetera, acquisiremmo dei potenziali molto importanti di scambio. Sempre con riferimento alla questione del turnover, vedo sempre più strategiche le modalità di gestione delle cosiddette risorse umane. Si tratta di un ruolo fondamentale che deve riuscire a farsi contaminare dal mondo delle professioni sanitarie, tenendo conto che queste presentano delle differenze rispetto al mondo dell’azienda o della ditta produttrice di telefonini, o di altro. Nessuno è meglio dell’altro, nessuno è peggio dell’altro, ma si tratta di professionisti che hanno necessità completamente diverse. Anzitutto la flessibilità. Può essere, ad esempio, che se io lavoro in una cura domiciliare di cure palliative non ho bisogno di riposi ogni 3 giorni, perché io voglio vedere il percorso di questo paziente che sto accompagnando nell’ultimo viaggio verso la morte. Dall’altra parte, magari, avrò bisogno di più riposi attaccati ogni certo numero di giorni per decomprimere la mia fatica relazionale di accompagnamento della famiglia. Ecco perché credo che oggi più che mai il ruolo delle risorse umane sia veramente strategico.
Un ultimo quesito. Il riconoscimento sociale dell’infermiere sembra essere un tema ancora rilevante. È così?
Credo che la comunicazione più potente, lo strumento più forte che ha un infermiere, stia nel momento in cui ci si incontra. Purtroppo, però, quello è un momento in cui la persona ha bisogno. In quel momento la modalità comunicativa cambia e la percezione dell’infermiere si fa nitida: i pazienti e i familiari, quando incontrano l’infermieristica, capiscono cosa c’è dietro. Credo che anche noi infermieri dobbiamo cambiare la modalità di comunicazione in quanto la storia di subordinazione verso i medici è prettamente italiana. Nel bene e nel male, gli infermieri possono essere i migliori (o i peggiori) testimonial della loro professione e professionalità. Intendo dire che i cittadini e i media ci vedono spesso così come noi ci percepiamo e ci presentiamo loro. Non serve a nulla rinnegare le origini, se inquadrate in modo corretto.
Per esempio?
La prima infermiera della storia, Florence Nightingale, è adorata, da sempre celebrata a livello mondiale. Gli infermieri italiani le sono un po’ meno affezionati, ma è lei che ha creato, messo insieme la ricerca, l’utilizzo del dato nell’infermieristica. Ha segnato il cambiamento a metà del 1800. Florence Nightingale è colei che ha affermato internazionalmente un’infermieristica autonoma e responsabile sin dalla nascita. In Italia, invece, l’infermiere nasce su richiesta e necessità del mondo medico, pertanto la professione è stata creata e plasmata come la volevano i medici. La liberazione da questa subordinazione è avvenuta a metà degli anni Novanta. Sono passati pochi anni ‒ trenta, quest’anno. È comunicativamente, ripeto, che dobbiamo lavorare. Intanto, nella comunicazione diretta, quando ci si trova davanti alle persone e agli assistiti. Dal punto di vista operativo, nella quotidianità, il ruolo dell’infermiere, sebbene rimangano alcuni vecchi retaggi, è diventato chiaro. È chiaro nei reparti e nelle équipe multidisciplinari che la collaborazione è necessaria. Siamo imbrigliati a doppia maglia: uno non vive senza l’altro. Il livello della formazione è una chiave di questo processo culturale: chi studia di più riesce a comunicare anche a suon di dati, ricerche tra medici e infermieri sulle qualità dei pazienti. E poi ci sono i banchi di scuola: bisogna far interagire i professionisti già durante la loro formazione. Tu medico ti formi in questa aula, tu infermiere ti formi in quest’altra aula. Due persone e due ruoli separati, ma che devono cominciare a frequentarsi. A un certo punto, dovrete collaborare e lavorare insieme, meglio se vi siete conosciuti prima.
Probabilmente, anche l’industria culturale dovrà giocare un ruolo…
Assolutamente. È necessaria una nuova narrazione. Devo dire che l’apparato comunicativo di FNOPI ha fatto un grandissimo lavoro a riguardo: abbiamo, ad esempio, collaborato con RaiPlay e con i principali protagonisti della distribuzione di contenuti on demand, per inserire sulle piattaforme prodotti in grado di raccontare le varie sfaccettature della professione. Si è cominciato a fare una buona azione di informazione sulla popolazione, diversa e molto più chiara. Non necessariamente parlando noi come FNOPI dei nostri infermieri su vari media, ma facendo in modo che la professione infermieristica inizi a rientrare, come tante altre nobili professioni intellettuali, nella normale dialettica usata dall’industria culturale del Paese. Per questo, oggi è molto più frequente che programmi e fiction anche di tipo generalista dedichino spazi a protagonisti-infermieri. Ovviamente, questo faro puntato addosso si porta dietro anche qualche cliché del passato, qualche esagerazione, finanche qualche caricatura, ma è la normale dinamica che si realizza quando una figura ‒ prima marginale nel dibattito pubblico ‒ inizia a diventare centrale e ricorrente.