Le nuove emergenze impongono un ripensamento del welfare e del ruolo dei sindacati. Intervista al Presidente Tiziano Treu

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L’autunno sarà molto caldo. I sindacati convocati dal nuovo Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sono tornati ad agitare le piazze. La spinta inflativa, il caro energia, gli indici di bassa crescita e, come se non bastasse, il preoccupante allargamento della fascia di povertà, denunciato dal Rapporto della Caritas, compongono un quadro socioeconomico a tinte fosche. In questo contesto diventa prioritaria la riforma del welfare, per andare incontro a nuovi bisogni del corpo sociale. Tiziano Treu, Senatore della Repubblica, giuslavorista, già Ministro del Lavoro, oggi presiede il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro; egli conosce molto bene i percorsi evolutivi del Welfare State in Europa e delle dinamiche di un mercato del lavoro oggi in piena trasformazione. Insieme a Franco Bassanini e Giorgio Vittadini, ha presentato una ricerca (Una società di persone? ed. Il Mulino) che sottolinea la responsabilità che i sistemi di rappresentanza continueranno ad avere nell’era del web e delle crisi ricorrenti.  

Presidente Treu, Internet doveva segnare il trionfo della disintermediazione; si scopre invece che sta nascendo anche il sindacato dei blogger. Abbiano fatto male i nostri calcoli?

Bauman, parlando di società liquida, aveva anticipato quello che è successo in questi anni sulla spinta della rivoluzione digitale che ha stravolto i paradigmi tradizionali di riferimento e le categorie stesse su cui abbiamo fondato la conoscenza. La Rete ha modificato assetti produttivi e organizzazione del lavoro. I corpi intermedi hanno continuato ad avere, al di là di quanto si pensava in un primo momento come si è visto molto bene durante la pandemia, una funzione di coesione sociale, costituendo un vero e proprio antidoto all’individualismo e alla lacerazione del corpo collettivo. L’opinione pubblica, fatto non secondario, ha riconosciuto la capacità di reazione e l’utilità sociale dei sindacati e delle associazioni di categoria.   

Mario Draghi ha cercato di disegnare un nuovo patto sociale, recuperando il metodo, inaugurato dal Presidente Ciampi, della concertazione e del dialogo con le forze di rappresentanza. Conclusasi quella esperienza di governo, quali scenari si aprono?   

L’esperienza dell’ultimo Esecutivo non può andare dispersa. L’Europa, varando la Next Generation ha dato un segnale positivo. La crisi economica, che ha preceduto gli anni della pandemia, era stata dominata da un unico termine: austerità. La chiamata alla solidarietà, la definizione del PNRR hanno segnato una svolta. La sostenibilità è l’obiettivo prioritario della nuova fase. Lo sviluppo economico deve contemperare l’inclusività, smorzando le spinte disgregatrici, questo il “nocciolo” dell’agenda Draghi di cui tanto si è parlato nella campagna elettorale. Adesso speriamo che prevalga la consapevolezza della gravità della situazione e che il nuovo Esecutivo si dimostri all’altezza della complessità delle sfide.

Per affrontare le tante emergenze cui lei faceva riferimento bisognerà trovare un punto di equilibrio tra le scelte economiche e i criteri di giustizia sociale, che vanno rispettati se si vuole evitare il conflitto tra gli iper garantiti e la massa crescente degli esclusi. Tutto questo presuppone una nuova stagione di investimenti pubblici e privati. Le pare che ci siano le condizioni per attuare un “new deal” del XXI secolo? 

Non ci sono alternative. L’Ue ci finanzierà se saremo in grado di presentare progetti concretamente realizzabili, soprattutto rispondenti a un modello di crescita, non di breve periodo, ma durevole e sostenibile anche dal punto di vista sociale. Gli ingredienti ci sono, occorre continuare nella direzione intrapresa perché il sistema possa evolvere, superando le tante diseguaglianze. L’aspetto più preoccupante riguarda l’avanzata delle povertà, documentato dall’ultimo Rapporto della Caritas.  Non è certo un problema solo italiano, perché in tutto l’Occidente le sperequazioni tra ricchi e poveri hanno raggiunto livelli inaccettabili, tanto che negli ultimi quindici anni la fascia di sofferenza si è allargata. Non a caso il PNRR indica giovani donne e Sud come primi punti di attenzione per le politiche sociali e del lavoro, individuando in queste fasce quelle che hanno pagato e stanno pagando il prezzo più alto delle crisi in atto. Combattere queste storture credo sia la priorità per sindacati e associazioni di categoria che operano in ogni angolo del pianeta.   

La pandemia, come ha ricordato in molte occasioni il Santo Padre, ci ha fatto comprendere che “nessuno si salva da solo”. La solidarietà, alla base dell’art. 2 della Costituzione sembra essersi presa una “rivincita”. Che cosa dobbiamo apprendere da questa esperienza?

Durante l’emergenza è emersa, in modo per certi aspetti imprevisto e spontaneo, una sorta di welfare community, creata proprio dalle associazioni di volontariato, dal Terzo settore e dai sindacati che hanno risposto ai bisogni di un Paese, che in quel momento appariva “smarrito” e “disorientato”. Il Cnel ha realizzato una ricerca, insieme all’ Istat focalizzata su questi fenomeni. È emerso molto bene come le diseguaglianze riguardano più aspetti della vita: educazione, reddito, lavoro, aspettativa di crescita, salute, tutti fattori che vanno presi e contrastati insieme. Per andare incontro all’emergenza di famiglie che vedono un’erosione del proprio potere d’acquisto, determinata dalla forte spinta inflativa, bisognerà definire un disegno di politica industriale e del lavoro di ampio respiro, trovando magari lo spunto per ridefinire un welfare e un sistema di protezione sociale più universalistico.

Intende dire che per riformare il welfare state, bisogna aprire alla prospettiva di una collaborazione tra pubblico e privato?

Parlerei soprattutto di un welfare che si concentra sulle comunità e che sia nel contempo capace di valorizzare le risorse degli enti intermedi. Il welfare non ha solo bisogno di risorse economiche, per reggere alle sollecitazioni del corpo sociale, deve ripensare la sua vocazione, per rifondarsi sui servizi di prossimità. “Servizi alla persona”, sarà questa la frase chiave, necessaria a superare la crisi. Senso di abbandono, stress, disagio mentale: sono tutti i mali che assalgono uomini e lavoratori. Stiamo parlando di un insieme di componenti che richiedono un sistema di protezione sociale prima di tutto equo, moderno, innovativo, solido, universalistico. È evidente che i compiti del nuovo welfare potranno essere espletati solo a condizione di coinvolgere sindacati e associazioni di categoria che devono fare da ponte tra Istituzioni e soggetti privati.  

Perché non rimanga un’utopia, Stato e privati sapranno trovare un punto di incontro per disegnare un welfare europeo?  

In un libro del 2010 (Organizzare l’altruismo ed. Laterza n.d.r.) scritto insieme al filosofo Mauro Ceruti, avevamo messo a confronto diversi modelli continentali di stato sociale, auspicando un’armonizzazione di culture, visioni, tradizioni. Sarà decisivo trovare un linguaggio comune tra diverse realtà nazionali, in un’Europa sempre troppo divisa e oggi lacerata dal conflitto in Ucraina. L’Europa ha ritenuto per molto tempo che il welfare fosse di competenza solo statale. I governi hanno di fatto seguito Smith nella definizione delle politiche economiche e Beveridge nella formulazione delle politiche sociali, senza però che questi due universi trovassero un punto di raccordo. Questa impostazione è destinata a fallire. Fortunatamente, segnali nuovi stanno arrivando.  Dagli aiuti a sostenere la crescita, alle misure per cercare di combattere la disoccupazione, l’adozione del salario minimo, sono tutti interventi che hanno dimostrato che per vincere le situazioni critiche bisogna bandire egoismi e “sovranismi”, servono piuttosto politiche concertate. Non devono insomma più esserci un Nord e un Sud del Continente in perenne conflitto

Con quali strumenti si potrà governare il cambiamento?

Per stare al mondo digitale, occorre un salto di qualità nell’acquisizione delle conoscenze. Basti pensare che l’80% delle persone adulte dovranno alfabetizzarsi al digitale. Ottanta anni fa abbiamo lottato per combattere in Italia l’analfabetismo con riforme scolastiche che hanno permesso – pensiamo all’avvento della scuola media unica negli anni Settanta – di universalizzare l’istruzione. Oggi siamo chiamati a fare un salto analogo; se non riusciremo a padroneggiare gli strumenti hi tech, rischiamo che il digital divide si tramuterà in un fossato incolmabile per cittadini, Istituzioni e imprese, tagliando fuori da ogni possibilità di crescita il sistema-paese nel suo complesso. La povertà educativa è, ricordiamocelo, un fenomeno pericoloso che va combattuto in tutte le fasce di età, dai bambini agli anziani, se vogliamo scongiurare un inesorabile declino.

Quale sarà il profilo del sindacalista di domani?

Il sindacato è dentro il grande sforzo, che il Paese sta compiendo, per andare incontro al futuro. Già in molti paesi i sindacati utilizzano le tecnologie digitali per effettuare le assemblee a distanza, per praticare nuove forme di proselitismo, esercitare il diritto di sciopero, e mettere in campo azioni collettive, come l’invio massivo di mail finalizzato al blocco dei siti aziendali, con lo scopo di sensibilizzare il management e la proprietà al pieno rispetto dei diritti dei lavoratori. Ma commetteremmo un errore se ci concentrassimo solo sugli strumenti. Sono le persone che dobbiamo mettere al centro. Il fattore umano da conquistare è diverso dal signor “cipputi”, icona di sessanta anni fa. Lo smart working adottato in modo massivo è stato un interessante banco di prova. Quello che occorre adesso, al di là della definizione di protocolli e regole, è ridare un senso e una dignità al lavoro. Oltre alla potenza della tecnica, dobbiamo fare emergere il valore del lavoro, che è alla base del nostro impianto costituzionale su cui si fonda il patto sociale e su cui si regge la civile convivenza.  

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