Liberisti o liberali?

Asservirci alla ideologia liberista della supremazia del mercato e confidare nella sua capacità autoregolativa oppure impiegare il denaro pubblico per rafforzare la struttura sociale ed economica del Paese? Il dibattito è stato al centro, in questi giorni, dei lavori degli Stati Generale dell’economia. Un tema sul quale si è più volte soffermato il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, anche attraverso le pagine del suo nuovo libro L’Italia del “Nì” (Minerva Edizioni). Nella rubrica Metafore per l’Italia proponiamo una di queste riflessioni.

«Occorre che lo Stato ritorni a essere protagonista e guida del futuro degli italiani. Occorrerebbe riscoprire il senso di comunità e di appartenenza che aveva animato la rinascita del Paese nel secondo dopoguerra, riscoprendo il sano buon senso che abbiamo gradualmente dismesso.
Nel corso degli anni, asserviti alla ideologia liberista della supremazia del mercato e confidando nella sua capacità autoregolativa, abbiamo progressivamente demonizzato il ruolo e le funzioni dello Stato, considerandolo come il nemico da abbattere perché pensato causa di tutti i mali e ostacolo al progresso.
Il paradosso è che, in Italia, a intervenire più duramente sulla riduzione del ruolo dello Stato, sono state le forze di sinistra, quasi che dovessero pagare un pegno al liberismo per ottenere la patente di liberali. Ma liberalismo e liberismo sono due cose non sempre coincidenti. Si guardi a quello che ha fatto Obama nell’America della crisi, ispirandosi a quella di Roosevelt degli anni Trenta. O, per restare più vicini a noi, si pensi alle politiche protezionistiche dei governi francesi, o alle “riserve indiane” nelle quali “l’economia sociale di mercato”, teorizzata e realizzata dai tedeschi, ha piazzato il sistema bancario dei länder ben al riparo dalle indicazioni e dalle verifiche della Ue. È un processo, questo, che parte da lontano, dall’inizio degli anni Settanta, quando demmo vita alle Regioni, che avrebbero dovuto essere gli avamposti della modernità e di una nuova qualità di partecipazione dei cittadini alla gestione della Cosa Pubblica. Che cosa siano diventate le nostre Regioni è davanti agli occhi di tutti. Salvo alcune lodevoli eccezioni, esse sono spesso centri incontrollabili di spesa, fabbriche di nuove burocrazie, ricovero per politici di scarsa qualità, moltiplicatori di consigli di amministrazione, rallentatori di percorsi amministrativi e decisionali.
Lo Stato si è via via privato di una serie di poteri e di competenze senza che ciò producesse una maggiore efficienza della macchina amministrativa e un miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Sappiamo perfettamente che tali giudizi potranno sollevare i rilievi e le obiezioni di quanti, nel tempo, hanno ritenuto che il trasferimento di poteri sul territorio potesse imprimere nuova vitalità e smalto al Paese, ma così non è stato. Basti pensare alla coincidenza evidente tra la nascita delle Regioni e l’inesorabile aumento, nel corso degli anni, del debito pubblico. Se non a una vera e propria fiera delle vanità, molte Amministrazioni regionali hanno fatto a gara per primeggiare in un campionato in cui vince chi più e meglio sfrutta il Sistema sanitario che, nazionale, è rimasto purtroppo solo nel nome ma che, malgrado la regionalizzazione e la cattiva stampa di cui gode, è ancora uno dei fiori all’occhiello del Paese.
Forse, la soluzione del deficit di qualità potrebbe essere quella di affidare loro la responsabilità di una vera e propria autonomia, riconoscendo a tutte uno Statuto speciale. Danni altrettanto importanti li ha provocati la teoria del “privato è bello, il pubblico è brutto” che ci ha portato a smantellare la presenza dello Stato sul fronte economico e produttivo. Ci siamo privati degli asset strategici attraverso i quali l’Italia fu trasformata da Paese agricolo e arretrato in una potenza economica e industriale.
Le vittime si chiamavano Iri, Stet, Efim, Sme, Telecom, Italstat, e tante altre ancora, sacrificate sull’altare del libero mercato e a vantaggio soprattutto dei competitor di altri Paesi europei e non solo. Gli stessi Paesi che, mentre noi smantellavamo i simboli stessi della nostra crescita, blindavano sotto il controllo dello Stato quelli che venivano
considerati asset strategici intoccabili». (Aforisma 13, 2019)

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