Sarà un autunno difficile, i dati lo confermano, le conseguenze della crisi economica innescata dalla pandemia non sono del tutto prevedibili. Parla di “realismo” il Sottosegretario del Ministero dell’Economia, Pier Paolo Baretta, nella videointervista realizzata con il magazine online dell’Eurispes. Allo stesso tempo, secondo il Sottosegretario, esistono “elementi che ci fanno dire che sarà possibile affrontarlo”.
Sottosegretario Baretta, molti commentatori vedono un autunno nero per la nostra economia: si può essere più o meno ottimisti?
Il realismo dice che l’autunno sarà molto complicato; i dati macroeconomici ce lo confermano. Siamo passati in due mesi dal 2,2 al 10,4 di indebitamento e il debito pubblico è schizzato dal 132% al 160/66%. Il Pil, come sappiamo, si attesta sul -9. Questi dati sono l’esito non tanto di politiche, quanto della scelta di arginare e combattere il più possibile gli effetti economici del Coronavirus, i quali sono stati devastanti, poiché totalmente imprevisti, senza regole precedenti e dinamici, nel senso che sono venuti crescendo progressivamente. Le conseguenze sono ancora tutte aperte: per questo, l’autunno, realisticamente, sarà un autunno molto complicato. Ci sono, però, elementi che ci fanno dire che sarà possibile affrontarlo. L’elemento positivo è rappresentato dal dibattito con l’Europa e le risorse che dall’Europa riceveremo, risultato del negoziato di queste ultime settimane. Penso alle risorse per lo SURE (cassa integrazione europea), penso ai fondi del MES (tutti finalizzati alla Sanità e senza condizioni), penso ai 170 miliardi (circa) che possono arrivare dal Recovery Fund. Questa è una condizione importantissima, perché il rilancio dell’economia, o per lo meno l’inversione di tendenza, in questo momento non può essere affidato soltanto agli ammortizzatori – che in parte dovranno continuare –, ma si deve accompagnare ad un rilancio di investimenti pubblici e privati che rimettano in moto il sistema economico e affrontino anche le difficoltà dei mercati. Per questo il realismo ci dice che sarà un autunno difficile, ma la politica ci dice anche che abbiamo gli strumenti per affrontarlo.
La sua è una formazione sindacale. Penso ai casi di Porto Marghera e, oggi, dell’Ilva di Taranto. Queste aziende strategiche senza l’aiuto dello Stato, come peraltro è avvenuto per FCA, rischiano di fallire?
Sì, bisogna affrontare la trasformazione che c’è in molti settori, il peso che la tecnologia ha nel cambiamento delle modalità di produzione ma, anche e soprattutto, i nuovi parametri. Se prendiamo l’Ilva di Taranto o Porto Marghera, non c’è dubbio che oggi il parametro “ambiente” e il parametro “sostenibilità” sono coniugati fondamentalmente con i criteri di politica industriale. Diversamente dal passato, non esiste una gerarchia che mette l’ambiente all’ultimo posto. Immaginare secondo i criteri di sostenibilità – penso all’Agenda Europa 2030 – è molto importante, perché significa avere una lettura di come poter ripensare il modello di produzione industriale. Tutto ciò, però, ha bisogno di grandi risorse, pubbliche e, ovviamente, anche private. Questa è la sfida, bisogna saper selezionare questa capacità di ripensare un modello in tale chiave. È coniugabile una prospettiva di sostenibilità con una prospettiva di sviluppo economico-industriale.
Quanta continuità c’è fra le Leggi finanziarie della Seconda e della Terza Repubblica? Quanto l’introduzione del vincolo di bilancio ha inciso sulla capacità di spesa?
La discussione sull’art.81 della Costituzione è stata una discussione parlamentare molto interessante, molto serrata, che si è conclusa in un modo che merita di essere ulteriormente conosciuto e approfondito. Nel testo dell’art.81 della Costituzione non appare la parola “pareggio”, bensì la parola “equilibrio”, ed è stato il risultato di un’importante analisi. “Equilibrio” di bilancio che tenga conto dei cicli avversi e dei cicli favorevoli dell’economia. Quindi, abbiamo a disposizione una strumentazione costituzionale che ci obbliga ad un grande rigore nei conti, ma che ci dà anche margini per una gestione che affronti le emergenze. Se così non fosse, non saremmo riusciti a fare quello che abbiamo fatto in questi mesi, vale a dire aver investito 80 miliardi di fronte ad una situazione di emergenza assolutamente straordinaria che, ovviamente, non è la linea del “pari” di bilancio. Ma, contemporaneamente, abbiamo l’obbligo e il dovere, in un arco di tempo strategico, di immaginare come si dovrà rientrare da questa situazione esposta. Quindi, è molto importante il concetto di “equilibrio”, lo sostengo da sempre, e sono stato anche tra coloro che lo hanno favorito, e la differenza tra “pareggio” ed “equilibrio” non è una differenza sul valore della ricerca della quadratura dei conti. Tutt’altro; è, invece, una differenza legata all’idea di gestione politica di questi obiettivi.
C’è una sorta di dualismo tra Ministero dell’Economia e delle Finanze e Palazzo Chigi, soprattutto perché il Ministero dell’Economia è nel mezzo tra il vertice politico del Governo e la Ragioneria dello Stato che a volte fa la parte del freno. È una mia impressione?
Non si è mai visto un amministratore che scialacqui, è nell’ottica delle cose. Guai se avessimo una Ragioneria dello Stato che si ponesse in un’ottica di non controllo dei conti pubblici. Ho una considerazione molto alta della Ragioneria conoscendola direttamente, perché, a parte la professionalità, è un ufficio che ha una responsabilità diretta e propria. Pur essendo al MEF, il concetto di “bollinatura”, cioè il fatto che il Ragioniere generale dello Stato dia il suo consenso ad una legge – ovviamente nell’ottica che abbiamo appena detto dell’art.81 della Costituzione – gli dà quasi una sorta di responsabilità, perché è indipendente dagli equilibri politici e, infatti, spesso si vede il ruolo della Ragioneria nella capacità, o nella proposta ai politici, di tener conto del quadro di riferimento. Pensiamo ad una situazione come quella attuale, nella quale, per l’appunto, abbiamo modificato i tendenziali a fronte di una situazione così drammatica. Ho sempre pensato, e penso tutt’ora, che la dialettica tra la politica e i tecnici sia un valore aggiunto della democrazia e che, quindi, bisogna sapere che esiste un ruolo delle tecnocrazie, bisogna sapere che esiste un ruolo forte e di indirizzo ovviamente prioritario della politica. Non bisogna negarsi a vicenda, ma costringersi a ragionare insieme.
La Confindustria, nelle ultime ore, sembra voler incarnare una sorta di opposizione al Governo e alle sue politiche. Ci sarà in futuro una collaborazione? Cambieranno le cose?
Sottosegretario Baretta, una cosa che chiede la Confindustria in particolare, ma anche il piccolo imprenditore che non ne fa parte, è la riforma del Codice degli appalti. Siamo entrati nell’ordine delle idee?
Diciamo che il primo Codice degli appalti è stato riformato già una volta. Non basta: il Coronavirus ci ha dimostrato che si può fare di più, si deve fare di più. Può sembrare uno slogan, ma dal momento che lo usano tutti assumiamolo come tale: il criterio “ponte Morandi” è una modalità con la quale si può immaginare di costruire la struttura degli appalti. È un esperimento che sta riuscendo, per questo si può immaginare di renderlo, in qualche modo, un punto di riferimento nella politica espansiva dei prossimi tempi.
Nei mesi della pandemia, e ancora oggi, sono venute a mancare ingenti entrate fiscali – penso, per esempio, a quelle del gioco legale (mentre quello illegale sta prosperando). È stato un errore chiudere i giochi?
Per un veneziano come Lei, fare il Sindaco della Serenissima potrebbe essere una sfida stimolante. Da dove comincerebbe? Dal turismo (ormai allo stremo), dai problemi ciclici dell’acqua alta, dallo spopolamento della città, o dal passaggio delle navi veloci che oscurano la bellezza di Venezia?
Comincerei dall’idea che Venezia deve tornare ad essere una città viva, dei veneziani. Dobbiamo riuscire a far sì che Venezia torni ad essere una città nella quale i veneziani siano protagonisti della loro vita, cosa che negli ultimi anni spesso non è successa a causa dell’eccesso di turismo, quindi no alla monocultura turistica. È vero che oggi siamo nella situazione inversa, dobbiamo andare alla ricerca dei turisti, perché di certo Venezia muore se è schiacciata da troppo turismo, ma muore anche se non lo ha; tuttavia, bisogna cambiare il paradigma. Venezia è una città viva dove la sostenibilità e la qualità del vivere sono possibili e se riusciamo a vincere questa sfida allora l’ospite, o il turista, non entra in un museo a cielo aperto, ma entra in una città che vive, la condivide, partecipa. Questo renderebbe anche più facile la regolazione dei flussi, che penso vada fatta attraverso una prenotazione soprattutto per momenti nei quali c’è un eccesso di presenza, ma è fondamentale questa idea di restituire ai veneziani la città e renderla viva. Il che vuol dire un progetto sulla cultura: Venezia è, oggettivamente, la capitale europea della cultura: se lo deve intestare questo titolo e deve essere in grado di praticare tutto questo attraverso un’ipotesi di turismo di qualità. Ma se diciamo no alla monocultura turistica, bisogna dare un ruolo anche a Porto Marghera, un territorio industriale molto importante che, oggi, ha bisogno di investimenti e che potrebbe diventare luogo di un’industria moderna green, data la presenza di una portualità importante. Quindi, una pluralità di interventi sempre nel rispetto dell’equilibrio delicatissimo che questo territorio – che è uno dei più importanti terreni umidi del mondo – e la sua laguna mostrano. Da questo punto di vista penso che le grandi navi vadano tolte rapidamente dal bacino di San Marco. È da tempo che lo diciamo, ma bisogna anche essere sinceri: tutti abbiamo dei ritardi. Non sono solo le grandi navi, ma anche i grandi portacontainer a non dover entrare mai in Laguna. Quindi, forse, si dovrebbe ragionare nell’ottica di strutture che solo apparentemente sono avveniristiche, ad esempio nell’ottica di un porto di altura che consenta di non perdere i grandi traffici e avere soluzioni che salvaguardino l’equilibrio di Venezia. La sfida, come diceva lei, è molto impegnativa e, come ho cercato di dire, è anche molto ricca di modalità diverse, ma il nucleo di fondo è che Venezia è una città, non è un museo, e se è una città ci vado volentieri anche come turista, ma mi inserisco in un ambiente rigenerato, nel quale c’è vita e nel quale posso godere appieno della modalità del vivere. Questo, è il cambio di paradigma necessario.