Dott. Vincenzo Macrì, se è vero che il nostro Sistema sanitario, nel confronto internazionale, rimane uno dei migliori al mondo per la capacità di assicurare la salute dei nostri cittadini, come emerso anche dal 1° Rapporto sul sistema sanitario italiano, “Termometro della salute”, realizzato da Eurispes ed Enpam sotto l’egida dell’Osservatorio su Salute, Previdenza e Legalità, bisogna comunque evidenziare che esistono criticità, ritardi e problemi. L’Osservatorio Eurispes/Enpam sta lavorando al prossimo Rapporto: possiamo anticipare le tematiche sulle quali vi state concentrando?
Il primo Rapporto sulla Salute, pubblicato nel 2017, ha già offerto un quadro generale del sistema sanitario del nostro Paese, come istituito con la legge 23 dicembre 1978 n. 833. Nella prefazione a quel Rapporto segnalavo come con quella riforma si dava attuazione all’art. 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». Un sistema che si colloca ai primi posti del mondo anche rispetto ai paesi più ricchi dell’Europa occidentale e degli stessi Stati Uniti d’America. Già nell’articolo 1 della legge si stabiliscono i princìpi generali che presiedono alla riforma, secondo i quali: «La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Il Servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio». Mi sia consentito segnalare ancora come la legge, agli articoli da 33-34-35 e 64, riprende i contenuti della legge 13 maggio 1978, n.180 (meglio nota come “legge Basaglia”), con la quale si abrogava la legge del 1904 e si liberavano gli infermi di mente dall’incubo del ricovero nei manicomi, luoghi destinati “alla custodia e cura” degli infermi di mente in quanto pericolosi a sé e agli altri. Ne parlo sia perché quella legge segnava una vera e propria rivoluzione che concludeva una triste esperienza di segregazione, molto spesso perpetua, degli infermi di mente in strutture semidetentive sia perché presi parte alla redazione della legge 180, quale esperto giuridico, della Commissione ministeriale per la riforma dell’assistenza psichiatrica.
Quali sono secondo lei gli “aspetti patologici” del Sistema sanitario nazionale?
Stabilita la qualità della riforma e gli effetti che produsse nel più ampio quadro del welfare nazionale e dell’attuazione dei precetti costituzionali in materia di salute, di sicurezza e di igiene degli ambienti di lavoro, così come della possibilità anche per gli indigenti di usufruire gratuitamente dei servizi sanitari nazionali, non si può ignorare come la sua attuazione concreta non fu uniforme sull’intero territorio nazionale. Ancora oggi, e forse più che in passato, è evidente una stridente diversificazione tra le regioni del Centro Nord e quelle del Sud e delle Isole, sotto il profilo dell’organizzazione dei servizi, della qualità dell’assistenza pubblica e privata, della disponibilità di risorse umane e finanziarie oltre che di strutture. Peraltro, è bene chiarire che anche nelle regioni del Centro-Nord non mancano aspetti critici e vere e proprie “patologie”. Già nel primo Rapporto, era stata fatta una accurata ricostruzione di tali fenomeni: assenteismo, frequenza di fenomeni corruttivi, “mala gestio”, sprechi delle risorse, favoritismi, illeciti nell’affidamento di forniture e servizi, infiltrazioni della criminalità organizzata, interferenze della politica regionale e nazionale in ordine alle nomine dei dirigenti delle aziende territoriali, cattiva distribuzione delle risorse e parziale ripartizione delle stesse tra settore pubblico e settore privato.
Sono diverse le Regioni, il cui sistema sanitario è passato o è tutt’ora sotto le “forche caudine” della gestione commissariale. Si può fare un bilancio di tali gestioni? Quali sono state le conseguenze rispetto all’offerta dei servizi sanitari per i cittadini?
Quella delle gestioni commissariali della Sanità è senza dubbio uno dei punti di maggiore criticità del sistema sanitario. L’incapacità di alcune Regioni di assicurare una ordinata gestione del sistema sanitario, ed in particolare di quello ospedaliero, unita alle ristrettezze delle risorse, dovute ai “tagli” che la politica nazionale opera quasi annualmente in questo settore (insieme a quelli dell’istruzione e della giustizia) conduce alla nomina di commissari governativi per la gestione straordinaria, con il compito di assicurare Piani di rientro della spesa, talvolta cresciuta senza controllo. Ne deriva l’insofferenza degli Enti Regione verso tali modalità di affidamento della Sanità regionale, atteso che si tratta del settore nel quale il volume della spesa di competenza regionale è superiore ad ogni altro. È altrettanto vero che accade anche che i Commissari governativi, pur di raggiungere gli obiettivi di rientro finanziario, taglino il volume della spesa, sacrificando strutture sanitarie di prossimità, che invece sono essenziali per i cittadini, come i reparti di maternità, ortopedici e geriatrici. Il risultato è che si perde di vista l’obiettivo, indicato all’art. 57 della legge 833, di unificazione dei livelli delle prestazioni sanitarie sul territorio nazionale.
Malasanità: già nel 1° Rapporto era stato dedicato un capitolo a questo tema. L’argomento verrà trattato anche nel prossimo studio?
La malasanità è un termine che raggruppa tutte le patologie, non essendovi dubbio che i fenomeni corruttivi, l’assenteismo, le infiltrazioni criminali nell’aggiudicazione di forniture e servizi, gli sprechi, i favoritismi nelle nomine di dirigenti e primari, finiscono tutti per abbassare il livello della qualità delle prestazioni sanitarie assicurate ai pazienti. A questo riguardo, osservo che è interesse dei dirigenti delle aziende sanitarie assicurare la vigilanza e la correttezza in questi settori, senza aspettare che intervengano gli interventi repressivi del giudice penale o quelli risarcitori del giudice civile.
I dati evidenziano preoccupanti divari tra le sanità regionali, che sostanziano l’esistenza di una “questione meridionale della salute”. Differenze in termini di organizzazione, accesso e qualità di servizi e prestazioni, che ricadono sulla salute dei cittadini. Quali effetti potrebbe avere il progetto di autonomia regionale differenziata in un contesto già oggi caratterizzato da pericolosi divari tra alcune regioni del Nord e quelle del Sud?
Le divergenze sono evidenti e non è possibile negarlo, anche se non mancano nel Sud punte di eccellenza che devono essere mantenute e rafforzate. Mi riporto ancora all’obiettivo di unificazione dei livelli delle prestazioni sanitarie sul territorio nazionale, voluto dal legislatore del 1978, indispensabile per assicurare a tutti i cittadini una sostanziale eguaglianza nel diritto di tutela della salute. Certamente non è un limite che deriva dalla qualità degli operatori sanitari che operano nelle regioni meridionali. Chiunque, anche per motivi personali o familiari, abbia avuto modo di usufruire di prestazioni sanitarie in strutture sanitarie pubbliche delle regioni del Nord, ha avuto modo di rilevare che una gran parte del personale medico proviene dalle regioni meridionali (Calabria e Sicilia in particolare) dimostrando elevata capacità professionale ed organizzativa. Si aggiunga che il flusso di pazienti costretto a spostarsi dalle regioni di origine a quelle del Nord per poter usufruire di prestazioni sanitarie per le patologie di maggiore gravità, non fa altro che distogliere risorse in favore delle strutture di destinazione. Temo che il progetto di autonomie regionali rafforzate, nonostante le interessate assicurazioni provenienti dagli esponenti di Governo, si tradurranno in un ulteriore fattore di diversificazione e diseguaglianza dei livelli di prestazione. Al momento non è facile fare previsioni sicure anche per le variazioni che i progetti potranno subire nei futuri passaggi parlamentari.
La Conferenza Stato-Regioni ha appena approvato il nuovo Piano nazionale delle liste d’attesa (2019-2021), che prevede, tra le diverse cose, l’obbligo per le Regioni di indicare i tempi massimi per tutte le prestazioni, lo sviluppo di un Cup on-line aggiornato in tempo reale che permetta la consultazione dei tempi d’attesa, gestione in capo ai Centri unici prenotazione (Cup) – e conseguente monitoraggio – di tutte le agende di prenotazione. Cosa ne pensa? E, soprattutto, le strutture del Ssn sono pronte per raggiungere questi obiettivi?
Penso che il Piano nazionale delle liste di attesa per il triennio 2019-2021 sia sicuramente utile e costituisca un obiettivo che, a medio termine, potrà conseguire risultati utili per i cittadini, oltre che per scongiurare la fuga dei pazienti verso strutture private convenzionate. Razionalizzare i tempi di attesa in relazione alle patologie ed alle urgenze offrirà anche alle aziende ospedaliere la possibilità di programmare con anticipo la distribuzione delle risorse e dei servizi. Le strutture territoriali dovranno necessariamente attrezzarsi sotto il profilo informatico e organizzativo, sempre che siano loro assicurati il personale tecnico e le risorse finanziarie che consentano l’attuazione concreta del Piano.
Per concludere e per ritornare alla sua prima domanda, i temi di cui ci dovremo occupare nel prossimo Rapporto, come emerge da quanto detto sinora, sono tanti e tutti impegnativi. Anche per le mie pregresse esperienze di magistrato, conto su un approfondimento del tema delle infiltrazioni della criminalità organizzata (anche grazie alle sue potenzialità intimidatorie e corruttive) e dei suoi interessi a riciclare nel settore della sanità privata gli ingenti profitti delle sue attività criminali.