HomeInformazioneMilena Gabanelli: "La Rai dimentica il popolo di Internet"

Milena Gabanelli: “La Rai dimentica il popolo di Internet”

di
Corrado Giustiniani

E’ davvero informazione di qualità, quella fornita oggi dai nostri media? Iniziamo con Milena Gabanelli un ciclo di interviste sul tema. Giornalista investigativa per eccellenza, Milena nel 1997 ha inventato “Report”, che ha diretto per vent’anni, per poi lasciare la Rai. Ma, secondo voci raccolte da “La Stampa”, nella nuova situazione politica starebbe per farvi ritorno. “Non ne so nulla – risponde – Il mio impegno è ora col Corriere della Sera, dove sto lavorando a un modello di approfondimento pensato per il web e i social”.

I reati sono in calo ormai da quattro anni, ma la paura cresce. Colpa dei politici populisti o anche dei nostri media pigri, che non orientano correttamente i cittadini?
“La colpa è dei partiti meno populisti che, una volta compresa la forza del tema sicurezza, anziché smorzarlo, lo hanno cavalcato pure loro. Aggiungiamo che l’informazione è pigra e l’istituzione che aveva i dati non li ha inspiegabilmente tirati fuori”.

Secondo un recente sondaggio Eurispes, il 71 per cento degli italiani sovrastima gli immigrati. I media contrastano questa percezione sballata?
“Molti giornali, telegiornali, talk show hanno spiegato in modo chiaro, ma questo è un tema dove vince chi alza di più la voce, e comunque noi paghiamo una perdita di credibilità. Bisogna ripartire da lì”.

C’è chi oggi assimila la professione del giornalista a quella del vigile urbano, alle prese con un traffico di interviste e di dichiarazioni da veicolare.
“Questo è quello che chiedono gli editori, i telespettatori, gli utenti. Vale il principio del supermarket: se non vendi chiudi, e se il cliente preferisce le chiacchiere, i sentito dire e pettegolezzi, glieli dai. Per questo il servizio pubblico ha un ruolo cruciale, avendo anche il bacino di utenza più vasto. Ma la politica lo ha “spiumato” e al giornalista piace compiacere la politica perché così fa carriera. Siamo tutti colpevoli, quota parte”.

Calano le copie vendute dai giornali.  Perché la gente misura le spese, perché ci sono mille altre fonti di informazione gratuite, o perché non li ritiene all’altezza?
“Non saprei rispondere. Il Corriere è cresciuto, il New York Times ha puntato sulla qualità ed ha ripreso quota. Sono molti i fattori che incidono, ma non c’è dubbio che alla lunga la qualità premia. Alle spalle però ci vogliono un direttore e un editore disponibili ad investire sul lungo periodo”.

Nell’ultima campagna elettorale, e nei mesi che l’hanno preceduta, i media “mainstream” non sono stati teneri con i 5 Stelle, che però hanno vinto le elezioni. Vuol dire che il peso e l’influenza politica, ad esempio dei telegiornali, è in calo?
“Non mi risulta che i telegiornali Rai, per esempio, abbiano avuto un atteggiamento ostile, direi piuttosto che hanno confezionato il solito pastone, e quindi ininfluente”.

C’è chi dice che in questi ultimi giorni i media siano più cauti perché non sanno bene a chi dovranno bussare per chiedere provvidenze a Palazzo Chigi. E’ verosimile?
“E’ verosimile”.

A partire dal 2009 gli editori hanno potuto prepensionare centinaia di  giornalisti. Questo può aver influito sulla qualità del prodotto?
“Non conosco in modo approfondito la questione, quindi la mia è un’opinione: l’età fa l’esperienza, e come in tutti i settori, ha il suo peso. Se levi di mezzo i più anziani e li rimpiazzi con i giovani hai certamente dei vantaggi (sotto il profilo tecnologico per esempio, che è cruciale), ma finché non si sono fatti le ossa i contenuti sono inevitabilmente meno profondi e completi”.

E’ ancora possibile riconvertirsi alle “slow news”, notizie approfondite, che richiedono tempi di elaborazione più lunghi, investigazione, confronto di fonti?
“Credo che sia possibile tutto, dipende dagli obbiettivi e dalla capacità e determinazione di una squadra. Il caso Mediapart è esemplare”. (Vedi nota a fine articolo).

La strapotenza dei social media, Facebook in testa, ha portato a un’esplosione di fake news. I media tradizionali, per difendere il diritto dei cittadini alla corretta informazione, non dovrebbero introdurre tutti un servizio anti-bufale, o fact-checking, come si usa dire oggi?
“Credo che il modo migliore di combattere le “fake news” non sia quello di parlarne in continuazione, ma di usare il tempo a produrre “news””.

Più in generale, il futuro dei nostri media non sta nel concentrare le forze verso un obiettivo di “certificazione” delle notizie?
“Sono d’accordo, l’unico investimento duraturo è quello sulla reputazione”.

La Rai è al passo con l’era dei siti web e dei social media?
“Il servizio pubblico è inadempiente, perché tutti pagano il canone, ma non offre una informazione online a quel 30 per cento della popolazione che non si informa più attraverso i TG. Questo avviene nonostante la sua potenza di fuoco di 1600 giornalisti, di cui la metà capillarmente collocati sul territorio. La ragione ufficiale è dovuta al fatto che non potrebbe (così dicono la dirigenza Rai e i il Cda) varare una nuova testata informativa prima di chiuderne delle altre inutili. Da quel che leggo, in compenso stanno varando, su proposta della Presidente Maggioni, un nuovo canale o testata di informazione in lingua inglese. A dirigerlo, naturalmente, sarà la stessa Maggioni”.

Nota della redazione: Mediapart (www.mediapart.fr), citato da Milena Gabanelli, è un sito francese di giornalismo investigativo, fondato il 16 marzo di dieci anni fa dall’ex direttore di Le Monde Francois Bonnet. Rifiuta la pubblicità e si finanzia unicamente con gli abbonati, saliti ora a quota 140 mila. Nel 2017 ha aumentato del 20 per cento il fatturato, giunto a 13,7 milioni di euro. Dà lavoro a 77 persone, di cui 45  giornalisti. Sul suo sito si trova un’offerta di abbonamento per dieci mesi al costo di 10 euro.

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