Dopo Tullio De Mauro, ex ministro dell’Istruzione e tra i più stimati linguisti del novecento, Renato Parascandolo, storico animatore delle produzioni educational della Rai e Mario Morcellini, Sociologo e Direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale (Coris) della Sapienza Università di Roma il focus de L’Eurispes.it sulla riforma RAI propone un’intervista con Gianpiero Gamaleri, giornalista e Preside della Facolta di scienze della comunicazione presso l’Università Telematica Internazionale Uninettuno di Roma. Dal 1998 al 2002 è stato Consigliere di amministrazione della RAI
Professor Gamaleri, in questi giorni sembra andare in porto una riforma della governance Rai che, comunque, conferma il ruolo della Commissione bicamerale di vigilanza. Molti appaiono delusi perché in questa maniera i partiti continueranno ad esser determinanti nell’amministrazione dell’azienda, a dispetto delle tante dichiarazioni che li volevano “fuori dalla Rai.” Inoltre di tutto si parla meno che di mission, ad un anno dalla rinnovo della convenzione …
“Il fatto che si parli di una rivalutazione della Commissione parlamentare di vigilanza non mi sembra di per sé negativo. Guardando dalla prospettiva delle norme costituzionali e dell’interpretazione data di queste dalla Consulta, come stabilito nel 1974 la Rai deve aver un rapporto con il Parlamento. Questo è ineludibile: se la Rai intende essere Servizio Pubblico ha bisogno di un aggancio con l’istituzione che più rappresenta i cittadini e, quindi, naturalmente con il Parlamento. La Rai non può essere che collegata al Parlamento, questo è un principio che va riaffermato. Quello su cui si può discutere sono le modalità e i meccanismi del confronto, ma questi sono fatti tecnici. Venendo ai partiti d’oggi, assai più sfrangiati di com’erano fino a Mani Pulite, riconosco che è difficile accreditarli come efficaci “rappresentanti” nell’ambito della Rai mediante la Commissione Bicamerale di Vigilanza; si tratta spesso di una presenza invadente, e chiaramente indiretta rispetto all’organo parlamentare”.
Professore universitario, dirigente Rai, giornalista e studioso della comunicazione. Il suo sguardo non si è limitato entro i confini nazionali, visto che si deve a Lei l’introduzione nel panorama italiano del pensiero del grande studioso statunitense McLuhan, “inventore” della celebre espressione “villaggio globale”. Guardando all’orizzonte internazionale, e in particolare ai servizi pubblici europei, negli ultimi decenni si è approfondito il divario tra la Rai e le esperienze più avanzate, in primo luogo la BBC. Sto parlando in generale della mission, ma anche della sua sostanziale “latitanza” dalla piattaforma digitale e sul web…
“Mettiamo un momento da parte la Rai, e guardiamo nel complesso allo sviluppo della televisione nel nostro Paese. Benché i prodotti televisivi siano facilmente diffondibili anche fuori dall’Italia, da noi il mezzo si è sempre orientato al consumo nazionale: ogni trasmissione, sia del Servizio Pubblico che delle emittenti private, appare ritagliata ad uso e consumo esclusivo del pubblico italiano. Al contrario in ambito internazionale già un quarto di secolo fa esplodeva il fenomeno CNN, la tv satellitare globale, anche se quel tentativo non è giunto a piena maturazione. Sostanzialmente direi che tutta la televisione riproduce una “torre di Babele linguistica”, finendo con venire circoscritta nei confini politico-linguistici di ciascuna nazione. Ritornando alla Rai e ragionando di una riforma non solo del Servizio Pubblico, ma di tutto il sistema radiotelevisivo in risposta alla pressione che arriva da parte di internet, ritengo che la televisione del futuro dovrà avviarsi verso una dimensione sovranazionale. Dirò una cosa retorica, sebbene realista: la televisione rimane lo strumento più adatto a far conoscere i popoli tra di loro. Basti pensare alle “forme di colonizzazione” derivate dalla massiva acquisizione da parte delle nostre reti dei programmi di fiction sviluppati dai network nordamericani …”
Dallas, I Simpsons, Lost, I Soprano …
“Appunto. Colonizzazione. Su questo fronte la televisione italiana ha ancora un enorme spazio da colmare e più di qualche carta da giocare. Pensando ai necessari e adeguati interventi in vista della riforma della Rai, a nuove disposizioni in termini di convenzioni, concessioni e contratti di servizio, non si potrà non guardare ad un Servizio Pubblico che si rivolga anche a livello europeo e planetario molto più di adesso, potenziando le sue forme di trasmissione e sviluppandone di nuove”.
Si potrebbe però obbiettare che la Rai è per gli italiofoni, che nel mondo sono poco più d’un centinaio di milioni, e che pertanto un confronto con realtà come i networks americani o la BBC sia perso in partenza…
“È vero, ma si possono comunque fare grossi passi in avanti. Il cittadino italiano di domani, e in certa misura anche di oggi, conoscerà molte lingue veicolari e questa barriera sarà via via superata. Bisogna poi riflettere a fondo su quella che è la genialità italiana, avviare una riscoperta di linguaggi (non solo parlati) che consentano alle nostre opere, alle nostre testimonianze e forme espressive di offrirsi bene all’estero. Per fortuna ci sono da sempre alcuni linguaggi transnazionali, tra cui quelli fondamentali della musica e dello sport. Bisognerà sviluppare una dimensione, lo ripeto, planetaria. Per certi versi ci troviamo in una situazione analoga a quella che caratterizza oggi il progetto europeo: siamo a metà del guado. Abbiamo ottenuto degli strumenti comuni, alcuni come l’euro quanto mai tormentati, ma bisogna andare oltre o finiremo con il tornare indietro. E questo vale anche per la televisione …”
Vuole fare qualche esempio?
“Sì. Mi viene da pensare a “Lol 🙂”, una trasmissione inventata dai canadesi francofoni del Quebec che va in onda su Rai Gulp e, la sera, anche su Rai2. Il programma ha riscontrato un successo internazionale e sta avendo una forte presa sul nostro pubblico, benché i contenuti siano veicolati non in italiano ma mediante faccine e le emoticons: una comunicazione tutta basata sulla mimica. Non si usa la parola, ma suoni ed espressioni. Un format, insomma, che ci palesa e indica come siano percorribili altre e diverse strade, alcune delle quali devono essere ancora scoperte. Sicuramente quello che va fatto, nel comune interesse tra pubblico e privato, è potenziare i programmi italiani che vanno all’estero. Il made in Italy televisivo, e a mio avviso anche quello radiofonico, è una scommessa che nel futuro dovrà essere affrontata e potrà essere vinta. E parlo di un futuro prossimo, guardando al vicino rinnovo della convenzione del 2016”.
A fronte degli studi che ha realizzato negli ultimi anni, quali sono i maggiori cambiamenti che avverte nei consumo mediale degli italiani? E, a suo modo di vedere, quali politiche del Servizio Pubblico hanno in anni recenti meglio riflettuto queste evidenti trasformazioni?
“Nell’analizzare le caratteristiche e le peculiarità dei vari media, e l’influenza di questi sulla popolazione, resta importante, io credo introdurre una parola da lei non ancora pronunciata, di cui spesso facciamo abuso, che rappresenta la chiave per il futuro. Esiste questo tema, e declinandolo si risolvono probabilmente molte delle problematiche che sorgono dalle sue considerazioni, facendo inoltre passi in avanti …”
E qual è questa parola, questo tema?
“Si tratta della “qualità”. Un prodotto, o meglio una comunicazione, o ancora – per non ricorrere ad un linguaggio commerciale – un’esperienza di qualità che porti al destinatario un arricchimento. Ora, vi sono arricchimenti espressamente di tipo evasivo, o dichiaratamente culturali, o d’informazione, o ancora d’orientamento tipicamente didattico; ma quale che sia la sua declinazione, un’esperienza comunicativa votata appunto all’arricchimenti trova da sé tutte le strade crossmediali per potersi incanalare e tradurre in modo camaleontico attraverso i diversi media e canali che sono oggi a disposizione. E questo può avvenire sia in comunicazioni destinate ad un ampio target, ad esempio la fiction, sia in comunicazioni frammentate, come può essere un pop-up che ti arriva sul computer. Io credo che questa sia la strada: interpretare quelle che sono le istanze fondamentali delle persone che compongono l’uditorio a cui la Rai destina i propri programmi. Se si interpretano correttamente queste istanze, combinando gli aspetti del reale con elementi di leggerezza che non li rendano troppo pesanti, la Rai potrà sviluppare un’offerta multimediale e crossmediale di enorme importanza …”
E se le obiettassi che la “grande Rai”, quella dalla metà degli anni dal ’50 alla fine degli anni ’70, più che cogliere le istanze del pubblico, lo indirizzava facendolo specchiare in un sistema di valori che invitavano al civismo, alla condivisione dell’unità linguistica, all’attivazione dell’ascensore sociale attraverso l’impegno individuale e la crescita culturale? Non è da rimpiangere un Servizio Pubblico che operava come grande agenzia culturale? Non siamo oramai orfani di quella che, con tanti distinguo, poteva essere definita una “tv pedagogica”?
“Trovo questo punto molto importante. Un Servizio Pubblico deve limitarsi a registrare la domanda del pubblico o, al contrario, condurre per mano il suo uditorio verso taluni risultati? Oltre queste due possibilità ve ne è, però, una terza, che poi fa parte della nostra esperienza quotidiana: video meliora proboque, deteriora sequor. Che cosa voglio dire con questa locuzione latina? Che benché ciascuno di noi conosca in cosa consisterebbe il meglio per sé e per gli altri, finiamo con l’appiattirci assecondando il peggio. In tal senso la televisione, senza porsi l’obiettivo espressamente pedagogico, non dovrebbe far altro che cogliere il meglio delle nostre aspirazioni personali e di ciò che la nostra società sa esprimere. Il meglio che la genialità, l’esperienza e la creatività che le persone riescono a manifestare. Non si tratta quindi di sovrapporre sul pubblico qualcosa di estraneo o prevaricante le sue aspirazioni, quanto di valorizzarne le eccellenze, i comportamenti e gli aspetti positivi. E questo è l’antidoto per non ricadere in quei programmi che sviluppano contrasti artificiali, che sono funzionali a imbastire certi tipi di spettacoli che catturano, più che il nostro interesse, la nostra morbosità”.
Immagino si riferisca ai tanti (troppi) talkshow o alla tv criminale cresciuta attorno appunto ai grandi “casi di nera” degli ultimi anni. Al contrario le trasmissioni di qualità molto spesso vengono quasi “nascoste” al pubblico. Penso ad alcuni programmi culturali della Rai che trovano spazio esclusivamente sulle reti tematiche (le quali godono di bassissimo share) e i rispettivi comparti online, anch’essi poco frequentati. Come giudica questa politica di diffusione?
“Nel contesto da lei illustrato sembra vigere una certa equazione – chiamiamola così – che vuole che un programma, per avere successo di pubblico, debba esser “frivolo”, “leggero” – per usare una parola banale -. o in alternativa morboso: il tutto per intercettare gli aspetti più superficiali e negativi della personalità umana …”
Da qui la propensione a produrre trasmissioni che guardano solo ed esclusivamente allo “share” …
“… e che vengono catapultate in prima serata. Ne consegue che i programmi che hanno maggiore spessore vengono collocati in orari scomodi o impossibili, cosa che spesso alcuni osservatori attenti lamentano. Una condotta che volesse ovviare a questa situazione dovrebbe avviare campagne di promozione proprio di questi programmi “minori” – minori secondo i criteri dello share. Parlo di programmi “interessanti”, mirati a esercitare influenze riflessive e costruttive sull’animo umano. Se siamo capaci, durante le ricorrenze o alla morte di personaggi famosi, di cavalcare l’evento con trasmissioni e speciali, non vedo perché questo genere di stimoli non possa influenzare una più vasta produzione di opere certamente complesse, ma che offrono grande arricchimento. Questo lo si può fare attraverso un dialogo esplicito con il pubblico, una presentazione chiara e, in poco parole, segnalando il valore dell’operazione che si sta facendo …”
Rivolgersi in prima persona al pubblico, quindi …
“Mi sembra opportuno. Volendo fare un esempio, l’altra sera stavo seguendo il festival di Ravenna e ho assistito ad una grande performance del maestro Muti, che andava in onda alle 0.30. Non vedo perché la stessa trasmissione non potesse esser presentata, magari in una forma più “didattica”, in ben altro orario, accompagnata da un divulgatore in grado di far vibrare le corde profonde che una musica di questo genere sa far risuonare in ciascuno di noi …”
Forse l’evidente disinteresse verso produzioni ritenute, a torto, “elitarie”, discende da un fraintendimento “a monte”. Se guardiamo al target di riferimento Rai, che per esplicita ammissione coincide con gli over 55 residenti in realtà extraurbane (la fascia che massivamente consuma prodotti televisivi), un approccio come quello da lei suggerito risulta impraticabile o, addirittura, controproducente. Per fare un esempio, mentre la BBC per colmare il “digital divide” ha sviluppato e sviluppa trasmissioni per acclimatare il suo pubblico all’uso dei linguaggi macchina. In Italia, invece, ci si limita a “riflettere” la realtà, ossia a mostrare l’utilizzo di questi nuovi strumenti nella vita comune attraverso i protagonisti delle fiction, come la perpetua di Don Matteo che compila la dichiarazione dei redditi online. Forse utile ma, certamente, poco ambizioso …
“Senz’altro”.
In un suo recente libro, “Il metodo Renzi. Comunicazione, Immagine e Leadership” (2012), lei ha sottolineato la reciproca influenza tra i media, con l’informazione web che viene ripresa dalla televisione e la influenza in termini di velocità e pervasività. Ma se la politica ha saputo farsi forza del web, a scapito di molte realtà editoriali cartacee che si sono viste costrette a migrare sul web o deperire, che dire di quelle televisive che si rivolgono ad un pubblico tuttora inquadrato secondo le logiche vetuste dello share televisivo?
“Tradurrò le sue osservazioni in una considerazione pratica. Dove stanno i giovani fruitori del Servizio Pubblico radiotelevisivo? A mio avviso, la rincorsa a questo pubblico non ha avuto successo. Ricordo come, più di dieci anni fa, quando ero membro del Cda Rai, fosse stato dato mandato a Rai 2 di catturare il pubblico giovanile; ciò che ne uscì fuori fu il consiglio dato al noto conduttore di rubriche Osvaldo Bevilacqua: “farsi delle tinture di capelli per ringiovanirsi ulteriormente”.
E funzionò?
“Non troppo. Ora, Osvaldo è un professionista che apprezzo moltissimo, e tutt’ora sta rendendo alla Rai un grande servizio. Bisogna però riconoscere che, in questo senso, i canali tematici Rai rivolti ai bambini stanno compiendo sforzi molto apprezzabili”.
Difatti Rai Yoyo è il quarto canale Rai per ascolti (1,38% di share media annua 2014). Per altro verso va sottolineato che il suo seguito supera di ben tre volte quello dei canali esplicitamente culturali (Rai Scuola, Rai 5, Rai Storia) messi assieme…
“Luci ed ombre. Qualcosa la si sta facendo … A questo punto, tornando a parlare di riforma della Rai, mi sentirei di lanciare a caldo una sfida. Come lei saprà, le grandi sfide vengono dagli “over the top”, la veicolazione dei contenuti televisivi attraverso le piattaforme online, con tutti i vantaggi che il pubblico ottiene dalla fruizione dei servizi on demand, ma anche quelli economici per i produttori, che godono di forme di controllo e tassazione pressoché nulle; (tra l’altro questo orizzonte comporta situazioni di concorrenza sleale che preoccupano tutti i broadcasters, pubblici e privati). Mi chiedo se la riforma della Rai non debba orientare profondamente l’azienda su questo nuovo terreno. Riconosco come questo già avvenuto parzialmente attraverso il portale Rai, ma mi pare si sia fatto ancora poco. Bisogna insomma fare in modo che la Rai, come del resto molti altri broadcaster a livello internazionale, sia nel contempo una organizzatrice di palinsesti ed un serbatoio enorme di archivi capaci di soddisfare, mediante nuovi progetti e rimaneggiamenti, la domanda del pubblico. Resta comunque il problema della conciliazione del pubblico giovanile con il messaggio televisivo, sia esso veicolato attraverso i broadcasting tradizionali sia tramite gli over the top. Le propongo un caso “congiunturale”, la crisi greca. In questi mesi molto di Grecia si è parlato, ma non ho visto da nessuna parte trasmissioni che prendessero il là per parlare della storia greca (antica e recente) o della cultura greca, che soprattutto a noi ex studenti di liceo classico è tanto familiare fino al punto di tentare di “leggere” i titoli dei giornali ateniesi spesso inquadrati dalle edizioni dei tv. Va da sé che i cittadini greci d’oggi sono, a mio avviso, eredi consapevoli di quelle tradizioni e pertanto ancora nostri “maestri”. Papa Giovanni Paolo II, entrando nella sinagoga di Roma, definì il popolo ebraico “i nostri padri”. Ebbene, per me anche i greci possono ancora essere considerati nostri padri. Bisogna svelenire questa condizione in cui tutto viene riportato ad elemento economico/finanziario. Esistono delle dimensioni che vanno costantemente riscoperte, e sta ad un buon Servizio Pubblico riaffermarle. La crescita, la ripresa economica, lo sviluppo sono elementi importanti, ma la televisione non può limitarsi a parlare di sviluppi materiali senza contribuire allo sviluppo culturale. Dobbiamo andare verso una “società della conoscenza”.
A tal riguardo, cosa dire del rapporto Servizio Pubblico – sistema scolastico? Lei è stato membro del Cda Rai dal 1998 al 2002. In quel periodo la Rai si dimostrava ben avviata nel processo d’integrazione della allora nuove tecnologie digitali, con alcuni suoi comparti come Rai Educational che sviluppavano non solo progetti dichiaratamente transmediali o crossmediali, ma che miravano a rendere i contenuti del Servizio Pubblico (gli straordinari archivi delle Teche Rai), accessibili alle scuole ed, in taluni casi, a produrne di esclusivi per esse. Negli ultimi anni abbiamo invece patito, a fronte di una forte decurtazione delle risorse e perdita di centralità per la scuola pubblica, anche un sostanziale distacco o disinteresse da parte dello stesso Servizio Pubblico. Mi viene da pensare al processo di digitalizzazione scolastica a cui in questi anni sono andati incontro migliaia di istituti, ma che non ha goduto di un consistente apporto da parte della Rai; parallelamente, nella realtà britannica la BBC si è assunta l’impegno, in vista delle trasformazioni nella didattica volute dal Ministero dell’Istruzione, di traghettare il suo pubblico oltre il digital divide con una programmazione annuale destinata a far prender confidenza a giovani, adulti e anziani con la scrittura dei linguaggi macchina, che da quest’anno fanno parte del curriculum delle scuole superiori. La BBC sta, insomma, sia cavalcando che trainando il cambiamento. Che dire della Rai? Lei come giudica le attuali produzioni del Servizio Pubblico per la scuola, e cosa eventualmente vorrebbe fosse fatto di più o meglio?
“Innanzitutto mi preme di dire che le attuali produzioni del Servizio Pubblico non sono “per” la scuola. Esiste ormai una totale estraneità tra Servizio Pubblico e scuola. Non vi sono forme di dialogo. La produzione attuale è prevalentemente documentaristica. Negli ultimi anni apprezzato il lavoro di Minoli e della Dottoressa Calandrelli che l’ha sostituito, ma le reti “culturali” propongono elementi di divulgazione interessanti, ma “non” indirizzati alla scuola e all’insegnamento. Non esiste alcun tipo di rimando. Non c’è nessun ragazzo che, confrontandosi con i suoi studi, pensi di poter attingere ai portali della televisione pubblica per un arricchimento. E tutto ciò è grave perché non è stato sempre così. Io ho avuto la fortuna, nei lunghi anni passati in Rai ad occuparmi delle trasmissioni educative scolastiche, di seguire il settore educativo fin dal 1967. Ho assistito quindi alla riforma della scuola media unica (1964), ovvero all’introduzione della “televisione sostitutiva”, quella che, dove mancavano le strutture scolastiche, impartiva le lezioni indirizzate agli studenti liceali e medi. Tutti ricordano il benemerito maestro Manzi. Non è mai troppo tardi ha sostenuto migliaia di studenti e adulti nel conseguire il titolo di scuola media, benché si trattasse “solo”di una supplenza. Ma non c’è stato solo lui. Nel 1967, tre anni dopo la riforma della scuola media unica, venne introdotta la televisione integrativa scolastica, che attraverso il mezzo televisivo forniva degli squarci su tematiche fondamentali per la scuola media superiore. Proprio in questi giorni ho tra l’altro completato un articolo sulla grande figura del filosofo Pietro Prini – di cui temo tutti si siano dimenticati nonostante sia stato molto longevo -, che fu Presidente del Comitato Direttivo della Rai. Egli lasciò una traccia profonda nel presentare ad un pubblico ancora “illetterato” figure come Socrate, Platone, Plotino, Kierkegard, attraverso programmi indirizzati sia all’utenza generalista, che approcciava felicemente con quelle figure, sia agli studenti che incontravano questi personaggi nei programmi ministeriali e che attraverso la televisione riuscivano a conoscerli più da vicino, a vedere i loro ambienti e ricostruire le loro vicende umane. E questo valeva anche in altri campi, ad esempio per le grandi personalità del mondo della fisica. La programmazione della Rai era allora direttamente orientata su tutti gli ambiti delle discipline scolastiche delle medie e delle superiori. Queste proposte, più o meno efficaci, testimoniano comunque della serietà con cui si tentava di sviluppare un collegamento tra televisione e studenti. Un rapporto in qualche modo diretto, che faceva sentire la televisione uno strumento utile e, anche per questo, in qualche misura “proprio”.
Bei tempi, immagino …
“Lo erano. Ed io non so, guardando all’oggi, come possa la televisione riproporli. Quello che so è che la spettacolarizzazione delle forme di cultura e d’apprendimento non è la strada più indicata per riconquistare quella parte del mondo giovanile che nel vivere l’esperienza scolastica cerca nella multimedialità un’integrazione fondamentale. Al momento sono più efficaci in questo senso le collane proposte dai giornali come Il Corriere e la Repubblica, che nel mettere insieme le voci del top della cultura contemporanea forniscono interpretazioni-base relative alle diverse aree del pensiero. Credo in questo senso che si debba puntare a sviluppare tutte le potenzialità e i diversi aspetti di quella che è stata chiamata l’ “Università televisiva”.
A suo avviso, se si riuscisse ad intavolare nei prossimi mesi una discussione sul Servizio Pubblico che non metta al centro esclusivamente la governance, quali dovrebbero essere i principali punti da prendere in esame?
“Guardando all’imminente appuntamento della riforma del Servizio Pubblico, che quasi coinciderà con la nuova sottoscrizione della Convenzione Stato-Rai, mi auguro che i nuovi contratti vengano riempiti di contenuti e obbligazioni. Volendo sintetizzare, penso che vi sia uno slogan da perseguire: un nuovo patto con gli italiani. L’anno scorso abbiamo su questo tema organizzato, nell’ambito della settimana delle comunicazioni sociali (promossa dal vicariato di Roma ed in intesa con Rai Senior e l’Università Telematica Uninettuno), un grande convegno, un incontro tenuto proprio nella Sala degli Arazzi della Rai, e la domanda era appunto questa: quale nuovo patto con gli italiani? Che cosa si aspetta il pubblico dalla televisione perché diventi nodo fondamentale in quella che è la società della conoscenza?”
Si potrebbe riassumere questa esigenza con la volontà affermare fortemente una mission mai definita?
“Assolutamente. Occorre una mission ben definita ma non asfissiante o vincolante; una mission duttile, insomma, che possa evolvere progressivamente, ma che nel tempo valorizzi le eccellenze sia del pubblico che del privato, anche rispetto alle esigenze dei diversi target di telespettatori. E ciò può venir realizzato solo da un Servizio Pubblico modernizzato che sappia operare su tutta la tastiera della transmedialità, della multiculturalità e che colga pienamente i vantaggi della crossmedialità. Questo è ciò che ci sia aspetta, e, mi auguro, anche ciò verso cui si andrà concretamente”.