Stanotte è giunta all’epilogo la serie più amata e discussa degli ultimi anni: Il trono di spade (Game of thrones), fantasy condito da intrighi politici e guerre sanguinose, nato dai romanzi di George R. R. Martin e proseguito con vita autonoma sul piccolo schermo.
L’entusiasmo per gli sviluppi di questa intricatissima storia a puntate testimonia come la serialità sia oggi più che mai capace di appassionare il pubblico, soprattutto quando nasce da un’intuizione felice – e, spesso, scaltra – e viene realizzata con buoni mezzi (scrittura, interpreti, regia e tecnologia).
La storia della serialità televisiva è lunga ed articolata. Un tempo c’erano gli sceneggiati, di rigorosa origine letteraria, eredi dei romanzi d’appendice ottocenteschi (feuilleton) prima e dei radiodrammi poi. Gli italiani, anche i non lettori, si appassionavano al David Copperfield con Giancarlo Giannini e Laura Efrikian ed al Nero Wolfe con Tino Buazzelli.
Il genere ha conosciuto negli anni molte forme e molti nomi: dall’estero sono arrivate soap opera, telenovelas, serial e telefilm. Fin dagli anni Cinquanta il pubblico ha amato Ai confini della realtà, poi Il dottor Kildare, Missione impossibile, Il tenente Colombo. A partire dagli anni Settanta le serie a puntate si sono moltiplicate, soprattutto nella forma del telefilm americano e delle telenovelas sudamericane, mentre negli anni Ottanta ai tanti telefilm classici si sono aggiunti serial di enorme popolarità come Dallas e Dynasty o, nella serialità breve, Uccelli di rovo.
Questa “invasione”, resa possibile dall’affermazione dei canali commerciali, è stata accolta con enorme favore ed ha raggiunto un pubblico numeroso. Bambini e ragazzi, in particolare, degli anni Settanta, Ottanta e Novanta sono cresciuti a “pane e telefilm”.
Se nello scorso millennio prevalevano i prodotti per ragazzi e per famiglie, oggi il piccolo schermo offre, nelle diverse declinazioni della fiction, serie per tutti i gusti, che raggiungono fasce di pubblico estremamente differenti tra loro, dall’infanzia alla terza età, donne e uomini, spettatori esigenti e chi cerca il puro svago.
La parcellizzazione dell’audience, prerogativa della televisione moderna, come conseguenza della moltiplicazione dei canali gratuiti e a pagamento, si adatta pienamente anche alle serie. In passato, praticamente tutti guardavano i telefilm più in auge del momento: Star Trek, Happy days, Starsky & Hutch, Mork e Mindy, Arnold, Casa Keaton, I Robinson… Ben pochi tra coloro che hanno vissuto gli anni Settanta ed Ottanta possono affermare di non aver mai visto un episodio di queste produzioni quasi tutte statunitensi, generalmente a basso costo ed estremamente popolari. Popolari anche nel senso che mettevano quasi tutti d’accordo.
Oggi, al contrario, assistiamo ad una proliferazione e moltiplicazione dei titoli, ma anche ad una profonda differenziazione. Si punta raramente a creare prodotti generalisti, per tutti i palati, si privilegia, al contrario, la settorializzazione, la quale consente linguaggi e contenuti più complessi, riferimenti specifici, comprensibili e fruibili da parte di target mirati. Prodotti pensati per un pubblico meno esteso, ma potenzialmente in grado di essere più apprezzati dal loro target. Se Un medico in famiglia e Don Matteo nascono per raggiungere il pubblico più vasto possibile, con il rischio, nei casi meno ispirati, di soddisfarlo solo in parte, le serie statunitensi e le nuove serie d’autore italiane si lasciano scegliere da una precisa audience attratta dalle loro prerogative e la conquistano. Persino le serie di cui oggi si parla di più e che raccolgono maggiori riconoscimenti rimangono appannaggio di una nicchia, rispetto al totale della popolazione. Ciascuno sceglie le “proprie” serie, ed in esse ha modo di riconoscersi e trovare stimoli come raramente accade per la fiction generalista. Nella concorrenza sempre più spietata tra Netflix, Sky, Amazon Prime, i prodotti devono sapersi differenziare dalla massa, emergere. Divenire evento, argomento di discussione, motivo di attesa; arrivare, innescando il passaparola, ai loro destinatari ideali.
Per raggiungere questi obiettivi e con la libertà concessa dalla targettizzazione, i telefilm moderni mettono in scena personaggi più sfaccettati, temi sociali legati alla contemporaneità. Rispetto ai sorridenti Magnum P.I. e Baywatch, o al sentimentale Beverly Hills 90210, oggi abbiamo Modern family (la moderna famiglia con tutti i suoi volti), Dexter (protagonista un serial killer), gli spietati intrighi politici di House of cards, The Handmaid’s Tale (l’incubo di un futuro distopico come riflessione sociale).
Anni dopo il primo, isolato, shock collettivo arrivato con l’inquietante Twin Peaks di David Lynch e le piccole rivoluzioni portate, ognuna a suo modo, da Er Medici in prima linea, X-files, Sex and the City, I Soprano, il nuovo Millennio ha spiazzato sempre più spesso il pubblico, intercettato i suoi desideri e riscritto il genere seriale con opere di culto come Romanzo criminale, Lost, Gomorra, Stranger things e, appunto, Il trono di spade.
In molti casi viene meno una delle prerogative di telefilm e serie: la struttura fissa, ripetitiva, riconoscibile e rassicurante, in favore di prodotti che puntano, invece, a spiazzare ogni volta. Hanno preso piede l’ibridazione tra i generi, l’incrocio di diverse storyline in contemporanea che coinvolgono più personaggi e più temi, una narrazione complessa e stimolante.
Tra gli innumerevoli telefilm sfornati ogni anno, il pubblico costruisce il proprio palinsesto personale con i titoli che si adattano alle proprie aspettative ed ai propri valori di riferimento. Si va dalle comedy leggere ma intelligenti come The Big Bang Theory, all’horror moderno di The walking dead, dai period drama sentimentali come l’osannato (soprattutto in patria) Downton Abbey, alle controverse dinamiche del contrasto al terrorismo raccontate in Homeland, fino agli immarcescibili medical drama come Grey’s Anatomy e Dr House, e i polizieschi CSI e NCIS, eredi in chiave moderna del Tenente Sheridan, Kojak, Colombo. Passando per serie sperimentali come Black mirror (su un vicinissimo futuro snaturato dalle tecnologie) o Mad men. I telefilm vedono per protagonisti spacciatori (Breaking bad), rapinatori (La casa di carta), detenuti (Orange is the new black); si parla di suicidi adolescenziali (Tredici), stalking, bullismo. Si gioca con i futuri possibili, con i colpi di scena mozzafiato, si narra alternando linee temporali del passato, del presente e, persino, del futuro – il punto di forza del rivoluzionario Lost, successivamente anche in altre produzioni, come This is us.
A differenza che in passato, oggi sempre più spesso attori celebri scelgono di interpretare serie televisive, e non soltanto come ripiego di fine carriera: anche vere star come Julia Roberts, Nicole Kidman, Meryl Streep, Al Pacino, Kate Winslet, Susan Sarandon, Jim Carrey. Ed i registi più acclamati producono e spesso girano puntate o intere stagioni di telefilm e serie brevi: Tarantino, Scorsese, Fincher, Sorrentino, Woody Allen.
Grazie al supporto delle moderne tecnologie, questi prodotti raggiungono una spettacolarità un tempo impensabile. Tutto questo nobilita un prodotto ormai di evidente qualità e, talvolta, di alto budget. Persino il critico Aldo Grasso in Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti dei libri e del cinema riconosce i meriti della serialità televisiva di qualità, sulla quale sono fioriti in questi anni innumerevoli saggi e testi di approfondimento ed analisi.
L’evoluzione ed il successo delle serie moderne sono inscindibili dai nuovi modelli di fruizione figli della rivoluzione digitale, a cui l’offerta si adatta. Non siamo più tutti davanti alla televisione nello stesso momento per guardare lo stesso programma, né lo stesso telefilm. Sono cambiati i ritmi di vita e troppe sono ormai le alternative: i canali a pagamento, lo streaming ed il dilagare delle nuove piattaforme – a cominciare da Netflix –, il facile accesso gratuito a molti prodotti.
Non a caso, le serie televisive di culto hanno sempre più raramente un passaggio televisivo in chiaro, sui canali tradizionali. L’italiana Gomorra arriva in chiaro quando ha ormai quasi esaurito il suo sfruttamento e tutto il pubblico interessato ha già visto, in un breve intervallo di tempo, le puntate della nuova stagione. Ancor più si dica per Il trono di spade, la cui ultima attesissima stagione va in onda in diretta in lingua originale alle 3 di notte, in contemporanea con gli Usa, e poi sottotitolata in italiano la sera dopo.
Proprio perché si tratta di eventi con un pubblico estremamente fidelizzato, ben pochi spettatori sono disposti ad aspettare settimane o mesi per vedere gli episodi doppiati o in chiaro. Le serie sono, insomma, l’emblema della minore centralità delle reti generaliste e dell’apparecchio televisivo nella moderna fruizione di contenuti.
Sia per le prerogative dei prodotti sia per le opportunità di consumo massiccio e libero, caratteristica della fruizione moderna è in molti casi l’addiction, la dipendenza. Ciascuno di noi ha uno o più amici che guardano compulsivamente ore ed ore di serie televisive (il cosiddetto binge watching). Le maratone telefilmiche, anche a tarda ora, sono un classico della moderna fruizione di contenuti seriali.
Ad alimentare l’impazienza e la “dipendenza” del pubblico è anche il fatto che oggi nelle serie prevale la continuity serrata. In passato i prodotti, pur in un quadro definito, erano generalmente composti da episodi sostanzialmente autoconclusivi, che non portavano ad una vera evoluzione orizzontale della trama e non lasciavano la storia in sospeso fino alla puntata successiva; erano dunque fruibili anche indipendentemente l’uno dall’altro. Questi episodi dotati di indipendenza narrativa erano ideali per una programmazione imposta dall’alto, cioè dalle reti, e di fatto subita dagli spettatori, che non potevano far altro che farsi trovare davanti al teleschermo nell’orario e nei giorni stabiliti. Se si perdeva un episodio a causa di altri impegni non si restava indietro. Con le opportunità e la flessibilità propria delle nuove piattaforme e delle pay tv il pubblico è invece attivo, in grado di decidere quando può e vuole vedere ciascun episodio – persino un’intera stagione consecutivamente, se preferisce. Ciò favorisce la fidelizzazione ed il coinvolgimento, mentre un tempo costituiva un rischio: perdere spettatori non regolari, che non sarebbero più stati in grado di comprendere gli sviluppi in corso. La narrazione in continuity impone anche un maggiore sforzo da parte degli autori, che fin dall’inizio devono essere in grado di prevedere il percorso della trama e restare coerenti rispetto ad esso, laddove la costruzione di un episodio singolo indipendente risulta più semplice.
Tutto favorisce, dunque, passione e voracità dello spettatore, non ultimi i Social, che amplificano l’attesa ed il coinvolgimento dei fan. In questi giorni Facebook e Twitter sono stati letteralmente invasi dai commenti, critici o entusiasti, agli ultimi sviluppi del Trono di spade, come era accaduto qualche anno fa per Lost. Congetture, previsioni, scambi di pareri anche molto accesi, fino a sfiorare l’analisi filologica delle puntate.
Le serie sono oggi non solo fenomeni mediatici ma anche sociali. Raccontano i tempi, li anticipano, stimolano il confronto con le contraddizioni individuali e sociali, creano archetipi.
La maggioranza delle serie televisive di successo è un mix di talento, furbizia e creatività. L’osannato Trono di spade, ad esempio, è, anche furbescamente, un prodotto poco convenzionale, che sdogana violenza al limite dello splatter, stupri, vendette sanguinose, parricidio e infanticidio, incesto – e alcune di queste azioni vedono protagonisti personaggi amatissimi. Lontano dalla rassicurante divisione tra bene e male, tra buoni e cattivi, diverte anche in virtù delle scelte inattese dei suoi personaggi ambigui ed imperfetti. Il finale più atteso e discusso di questi anni è quello di una serie in cui il personaggio, per cui tutti tifano, è un nano incline all’alcol ed al sesso mercenario, assassino del proprio pessimo padre, in cui il “principe azzurro” è stato sanguinosamente ucciso dopo tre stagioni, in cui l’unica vera storia d’amore è quella tra una tiranna crudele ed il suo gemello, che per lei non ha esitato a gettare un bambino giù da una torre.
Questo e molto altro è il telefilm moderno che, possiamo starne certi, continuerà a rispondere ai cambiamenti che arriveranno, conservando così la sua centralità nel cuore di tanta parte del pubblico, anche quello solitamente inafferrabile dei giovani. A conferma di ciò, sono state annunciate le versioni Tv a puntate del Signore degli anelli – la sfida è “solo” essere all’altezza della più grandiosa e premiata saga fantasy cinematografica mai girata – e, nientemeno che, di Cent’anni di solitudine, dal capolavoro di Gabriel Garcia Marquez. A quanto pare, le produzioni seriali per il piccolo schermo non si pongono davvero più limiti.