Sono già cominciati i conteggi. Entro il 2025 il vento della rivoluzione 4.0 creerà, tra Europa e Stati Uniti, due milioni di posti di lavoro per tecnologi, ingegneri e matematici. Ma, nel contempo ne sottrarrà ben 7 milioni nelle aree dell’amministrazione e nelle mansioni a basso valore aggiunto. Sarà veramente così? A rispondere è Roberto Cingolani, dal dicembre 2005 direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (IIT), centro di eccellenza internazionale nel campo della ricerca applicata alle macchine intelligenti. Fisico di fama internazionale, ben 48 brevetti al suo attivo, autore e co-autore di 750 pubblicazioni su riviste internazionali, Cingolani ha inoltre lanciato 3 aziende spin-off. La sua attività scientifica riguarda, in particolare, i settori della scienza dei materiali, delle nanotecnologie e della nanomedicina.
Professore, è giusto affermare che l’avvento dei robot ha creato un cambio di passo forse superiore a quello imposto da Internet e dal processo di digitalizzazione?
“Chiariamo subito che intelligenza artificiale, umanoidi, automazione, fanno parte di mondi diversi che presentano potenzialità, caratteristiche e pericoli distinti. L’automazione è essenzialmente un campo presidiato da robot che hanno una intelligenza algoritmica, con delle potenzialità utilizzabili per migliorare la produzione, affinare la qualità della manifattura e la sostenibilità, in una generale ottimizzazione dei processi. Queste macchine dovrebbero finalmente permettere il sospirato innalzamento del PIL, riducendo nel contempo emissioni, impatto ambientale e consentendo un risparmio dell’energia”.
E dell’intelligenza artificiale, cosa pensa?
“In questo caso siamo di fronte a un immenso computer, che può anche custodire la sua memoria in un luogo remotissimo ed è capace di fare miliardi di operazioni al secondo. Modelli di calcolo molto evoluti consentono a tali macchine di fare previsioni, analizzare e trovare correlazioni molto sofisticate. Basta pensare ai sistemi predittivi nel campo del fisco, della salute, del clima, per non parlare della efficienza di motori di ricerca come Google, che ormai tutti siamo abituati ad usare. La mente umana non sarebbe in grado di trattare una mole infinita di dati e informazioni e di ricavarne interpretazioni utili e plausibili, per imparare e soprattutto prevedere i fenomeni. Abbiamo dunque da un lato un “tutto corpo” costituito dai robot, da quest’altro un “tutto mente””.
Far dialogare queste due componenti è possibile con gli strumenti che abbiamo?
“Vorrei fare un esempio a tutti familiare: il telefonino. Ormai non possiamo più separarci da questo oggetto che di fatto è un’estensione del nostro io. Con il cellulare abbiamo migliorato le nostre performance mentali. Proviamo ora ad andare oltre e a mettere al nostro cellulare le braccia, creando uno strumento che mette insieme le potenzialità intangibili dell’intelligenza artificiale e quelle pratiche della potenza meccanica”.
Il salto culturale e tecnologico di cui tanto si discute comincia da qui?
“Si innesca dall’incrocio tra l’universo dell’automazione, cui in fondo siamo abituati in quanto le ruspe ci hanno sollevato dai lavori più pesanti da decenni, e il mondo dell’Information Technology. E’ questo il connubio che stiamo vivendo come una minaccia della specie, un connubio che conduce alla concreta progettazione e realizzazione di strumenti che non amplificano solamente le capacità mentali, come succede con il telefonino, ma che sono in grado di fare movimenti molto precisi che impattano in misura profonda sulle nostre esistenze”.
Come vanno definite queste nuove “presenze” artificiali che stanno per popolare il nostro quotidiano?
“Siamo ancora lontani dalla realizzazione di strumenti simili all’essere umano. Però se consideriamo la sembianza umanoide di oggetti che, collegati al cloud e alle reti wireless, cominciano a praticare comportamenti intelligenti e, magari grazie a un’antenna, sono in grado di guidare una macchina, girare in casa, prendere bottiglie che desiderano al nostro posto e magari frugare nel frigorifero, allora è evidente che la nostra fantasia corre molto in avanti”.
A fronte di ritmi evolutivi che si presentano molto rapidi e per certi versi sconvolgenti, cosa dobbiamo aspettarci?
“Il futuro si prospetta come un ecosistema in cui avremo macchine intelligenti che comunicheranno sempre di più con l’essere umano. Saremo in grado culturalmente e psicologicamente di interagire con una macchina, cosa che sappiamo fare perfettamente con il telefonino? La coesistenza umani – umanoidi, uomo – macchina, spinta fino a livelli in cui la macchina pensa e prende decisioni, apre scenari sicuramente impegnativi. Ma ricordiamoci che queste macchine non prenderanno il nostro posto, la biologia è ancora molto superiore, l’uomo possiede creatività, ormoni, sentimenti, passioni che non sono facilmente replicabili in laboratorio. L’essere umano esprime, infatti, un nesso mente corpo che è frutto di tre miliardi di anni di evoluzione”.
Le macchine intelligenti che cosa saranno abilitate a fare e in quali ambiti dobbiamo prevederne la maggiore diffusione?
“In linea di principio abbiamo già macchine molto intelligenti e robot che si muovono come noi. Se, come ho detto, la ruspa faceva già il lavoro dei cantieri, oggi si è aggiunto il robot che svolge delle mansioni in ufficio. Il problema sarà quando avremo una “ruspa intelligente” che si muove, spingendosi a livelli ancora poco prevedibili. Si pongono poi questioni culturali ed etiche di grande impatto: avremo ad esempio macchine in grado di guidare. Ma se si rompono i freni chi dovranno salvare: il pilota, i pedoni, il bimbo che viaggia in auto con papà? Nessuna macchina però, potrà mai avere una capacità computazionale paragonabile a quella del cervello umano, perché avremmo bisogno di una stanza molto grande per replicare tutti i circuiti neuronali che presiedono alle nostre facoltà superiori, con uno spreco enorme di energia”.
Il mondo del lavoro risentirà gli impatti più forti del cambiamento in atto. Significa che dovremo abituarci all’idea che l’automazione sottrarrà posti di lavoro?
“La tecnologia diffusa non deve essere un tabù. Nelle nostre aule si continui a insegnare con la giusta attenzione l’italiano o il latino, ma occorre estendere l’impegno a discipline come l’informatica o il coding, perché il nuovo alfabeto dell’universo digitale è sostanziato da questi mattoni del sapere. Serve un nuovo patto sociale per trainare la società verso livelli più alti di competenza e preparazione. Occorre creare una catena diffusa di continuus learning, fondata su un patto educativo che possa rendere la gente consapevole di quello che sta avvenendo. Nella società digitale è facile per tutti noi regredire a “dinosauri” perché l’obsolescenza delle conoscenze è molto rapida. Se non diamo spazi di studio e di approfondimento attuando processi di lifelong learning anche dentro le aziende rischiamo di emarginare miliardi di persone. Non possiamo permetterci di trascurare un capitale umano di tale portata, ma direi di più: nessun paese civile se lo potrà permettere se vuole stare al passo con i tempi”.