Il rischio di un paradiso fiscale virtuale
L’esplosione del vendite online ha rivoluzionato il modo in cui acquistiamo e vendiamo beni, ma ha anche creato sfide inedite per le amministrazioni fiscali. Piattaforme come eBay e Amazon Marketplace hanno democratizzato l’accesso al mercato, permettendo a chiunque di diventare venditore in pochi passaggi. Tuttavia, questa facilità ha generato una zona grigia dove la linea tra venditore occasionale e imprenditore professionale diventa sempre più sfumata, aprendo le porte a fenomeni evasivi di proporzioni considerevoli.
In assenza di regole certe e controlli adeguati, le interazioni nel mondo digitale rischiano di trasformarsi in un paradiso fiscale virtuale. La questione centrale diventa quindi: quando un venditore online può essere considerato un imprenditore? E quali sono le conseguenze fiscali di tale qualificazione?
Due nozioni di imprenditore: civile e tributaria
Per comprendere le recenti pronunce giurisprudenziali è fondamentale partire dalla distinzione tra la nozione civilistica e quella tributaria di imprenditore commerciale.
Il codice civile, all’articolo 2082, definisce imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata. L’elemento dell’organizzazione è centrale: non basta svolgere un’attività economica abituale, serve un apparato organizzativo.
La legislazione fiscale adotta invece un approccio diverso. L’articolo 55 del TUIR non richiede il requisito dell’organizzazione, ma solo la professione abituale delle attività commerciali dell’articolo 2195 c.c., anche se non svolta in modo esclusivo.
Questa divergenza normativa agevola quindi la prospettiva fiscale, laddove nel mondo virtuale l’organizzazione perde evidentemente rilevanza: un singolo individuo può gestire infatti centinaia di transazioni dal proprio computer senza personale, locali o infrastrutture, avendo la tecnologia reso possibile ciò che richiedeva un apparato complesso.
Ai fini fiscali, pertanto, può essere qualificata come imprenditoriale un’attività anche senza quell’organizzazione necessaria invece sul piano civilistico, rendendo così più semplice contrastare l’evasione.
La sentenza della Cassazione n. 7552/2025: indicazioni sulle vendite online
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 21 marzo 2025, n. 7552, ha fornito indicazioni fondamentali sull’inquadramento reddituale delle vendite online.
Il caso riguardava un contribuente che aveva effettuato numerose vendite di scarpe su un portale online nel 2008 e 2009. L’Agenzia delle Entrate, analizzando i movimenti bancari, aveva proceduto a un accertamento induttivo, qualificando l’attività come produttiva di redditi d’impresa.
La Commissione Tributaria Provinciale aveva inizialmente dato ragione al contribuente, ritenendo si trattasse di redditi diversi. Ma la Commissione Tributaria Regionale aveva ribaltato la decisione, evidenziando l’elemento decisivo: l’elevatissimo numero di transazioni. Nel 2008 il contribuente aveva realizzato 1.211 vendite, nel 2009 ben 418. Questi numeri dimostravano l’abitualità dell’attività, elemento sintomatico dello svolgimento di un’impresa.
La Cassazione ha quindi confermato questa impostazione, ribadendo che l’esercizio abituale delle attività commerciali determina sempre la sussistenza di un’impresa commerciale, indipendentemente dall’assetto organizzativo. La nozione tributaristica richiede, come detto, solo la professionalità abituale, senza necessità dell’organizzazione richiesta dal diritto civile.
Il valore probatorio dei dati delle piattaforme
Un aspetto fondamentale emerso dalla giurisprudenza riguarda il valore delle informazioni acquisite dalle piattaforme online. Questi dati sulle vendite effettuate rappresentano elementi idonei a fondare, anche solo presuntivamente, l’accertamento induttivo dei ricavi non dichiarati.
La Cassazione, con l’ordinanza n. 26987/2019, ha chiarito che costituisce motivazione adeguata l’elenco delle operazioni allegato al processo verbale della Guardia di Finanza, purché contenga il dettaglio di ciascuna transazione. Non è necessario che l’Amministrazione dimostri con certezza assoluta ogni singola vendita: bastano elementi presuntivi.
In caso di omessa dichiarazione fiscale, l’Amministrazione può procedere all’accertamento induttivo anche su presunzioni che spostano sul contribuente l’onere della prova contraria. Il ricorso al metodo induttivo può fondarsi su dati raccolti attraverso i processi verbali di constatazione.
L’attività investigativa e la collaborazione delle piattaforme
La Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate hanno avviato negli ultimi anni indagini mirate a individuare i falsi venditori occasionali, cioè chi dovrebbe iscriversi come professionista ma continua a operare come privato.
A seguito delle indagini, le piattaforme hanno dovuto collaborare. EBay, ad esempio, ha inviato email agli utenti con guadagni superiori a mille euro, informandoli della richiesta della Guardia di Finanza. I dati trasmessi includevano: nome, cognome, indirizzo, codice fiscale, importi fatturati superiori a mille euro annui e numero di oggetti venduti se pari o superiore a cinque.
Questa acquisizione massiccia ha permesso all’Amministrazione di incrociare le informazioni con le movimentazioni bancarie, individuando incongruenze tra redditi dichiarati e flussi finanziari reali.
Quando si è venditori occasionali o professionali
Diventa in sostanza cruciale distinguere tra venditore occasionale e professionale. Solo se l’attività è effettivamente saltuaria, i guadagni rientrano nei redditi diversi, con regime fiscale più favorevole.
Il venditore occasionale vende una tantum beni personali: lo scooter non più usato, l’automobile da sostituire, libri o abbigliamento usato. Tale attività sporadica non richiede naturalmente carattere professionale né organizzazione.
Dimostrare l’occasionalità diventa però arduo quando le cessioni diventano sistematiche.
In questi casi si trova dunque, tipicamente, chi ha scelto le piattaforme online per vendere abitualmente prodotti acquistati per la rivendita, configurando una vera e propria attività commerciale.
Quando le transazioni superano una soglia – per numero e valore – il venditore deve essere qualificato come professionale, con obbligo di pagare le imposte. Altrimenti si configura evasione totale e sottofatturazione sistematica.
Il caso del contratto di commissione e i profili IVA
La Cassazione, con l’Ordinanza n. 23084/2024, ha affrontato infine anche la fattispecie delle vendite su commissione via piattaforma. Il caso riguardava chi operava come intermediario, acquistando merce e rivendendola online.
L’Amministrazione finanziaria ha sostenuto che i rapporti dovessero ricondursi al contratto di commissione: un mandato per vendere beni per conto del committente ma in nome del commissionario. Dalle verifiche emergeva che il contribuente sceglieva la merce, la fotografava, eseguiva le inserzioni, seguiva le spedizioni e riceveva il pagamento, trattenendo una provvigione del 15%.
L’interesse dell’impresa mandataria era in sostanza caratterizzato dal conseguimento della provvigione e non della proprietà dei beni. Se dunque era vero che, da un punto di vista civilistico, si verificava un’unica cessione dei beni, ai fini fiscali (e quindi del pagamento dell’IVA) il Legislatore ha invece ritenuto di porre in essere una finzione giuridica, per effetto della quale anche il passaggio interno tra mandante e mandatario viene considerato alla stregua di una vera e propria cessione di beni o prestazione di servizi, con conseguente applicazione dell’imposta.
L’articolo 2, comma 2, n. 3 del DPR n. 633/1972 stabilisce che anche il passaggio dal committente al commissionario costituisce cessione di beni con applicazione IVA. Si crea un doppio livello impositivo: prima cessione al commissionario, seconda cessione all’acquirente finale.
La Cassazione ha affermato che il contribuente che opera come commissionario deve essere qualificato come commerciante indipendente che acquista e rivende, con obbligo di fatturazione per entrambe le operazioni. Il fatto di operare online non esclude la rilevanza del contratto di commissione ai fini IVA.
La circostanza che il contribuente operasse direttamente – peraltro a nome di una diversa società – sul portale eBay non era infatti dirimente per poter escludere la presenza di un contratto di commissione rilevante ai sensi e per gli effetti dell’art. 2, comma 2, n. 3), D.P.R. n. 633 del 1972, secondo il quale: “Costituiscono inoltre cessioni di beni: c) i passaggi dal committente al commissionario o dal commissionario ai committente di beni venduti o acquistati in esecuzione di contratti di commissione.”.
Conclusioni: opportunità digitali e legalità fiscale
Le piattaforme di e-commerce rappresentano un’opportunità straordinaria, democratizzando l’accesso al mercato. Chiunque può vendere oggetti pagando una commissione, senza complessità burocratiche iniziali. Questa legittima opportunità non può però diventare strumento di evasione sistematica.
La giurisprudenza recente, come visto, ha fornito coordinate interpretative chiare: l’attività di vendita online caratterizzata da abitualità e volumi significativi costituisce attività d’impresa, con tutte le connesse conseguenze fiscali. L’orientamento della Cassazione, conforme anche ai principi comunitari, non lascia dubbi.
Un controllo serio su queste fattispecie è dunque fondamentale per evitare che il commercio on line diventi un paradiso fiscale. L’azione congiunta di Amministrazione, Guardia di Finanza e piattaforme sta comunque progressivamente restringendo gli spazi di evasione.
Il messaggio è chiaro: il commercio elettronico è un’opportunità legittima, ma va esercitato nel rispetto delle regole. Chi opera con abitualità e professionalità deve assumersene le responsabilità fiscali, mentre chi vende occasionalmente beni personali può continuare a farlo legittimamente senza adempimenti particolari. Una prima linea di confine dunque è stata tracciata.
*Avv. Giovambattista Palumbo, Coordinatore del Laboratorio sulle Politiche fiscali dell’Eurispes.

