Li hanno dovuti contare con attenzione, per quanti erano. Non finivano mai gli applausi a Sergio Mattarella, e dopo si è passati a confrontarli con quelli precedenti, redigendo tabelle e schemi riassuntivi. Qualcuno si è posto domande delicate o politicamente scorrette. Qual è il significato di un così vasto plauso? Erano tutti sinceri quei consensi? Magari erano troppi?
Sono stati 55 gli applausi a scena aperta che hanno accompagnato il discorso di insediamento al Colle di Sergio Mattarella. I pignoli hanno calcolato che ce n’è stato uno ogni 46 secondi. Ha superato di gran lunga il mitico Pertini (solo 6), l’amato Ciampi (19), il severo Napolitano I e II (29 e 32), chiunque in precedenza, soprattutto ha battuto sé stesso quando nel 2015, alla prima elezione, si era fermato a 40.
Il discorso di Mattarella è un memorandum di intenti e princìpi per gli anni a venire
Nell’aula è stato unanime il coro, espressione del consenso esistente nel Paese, non solo all’interno del Palazzo, intorno alla figura di Mattarella. Infatti nel conto vanno pure messi i battimani della gente comune, il calore spontaneo manifestato dagli italiani in tante circostanze. Un’adesione che è stata crescente nel settennato, diffusa in tutti gli strati della popolazione, a prescindere dal ceto e dalle idee politiche: anche lontano dalle platee sofisticate della Scala e del San Carlo.
L’applauso è scattato praticamente su tutti gli argomenti trattati, davvero tanti. Il discorso non era rivolto alle urgenze, proiettato sul breve periodo. Non aveva un respiro corto. Spaziava in un vasto orizzonte di tematiche, proponendosi come memorandum di intenti e princìpi per molti anni a venire.
La delicata questione dell’ordinamento giudiziario e della riforma del Csm
Ma, se gli applausi sono stati tanti e intensi, siamo arrivati addirittura ad una doppia standing ovation quando Mattarella ha affrontato il nodo giustizia, in particolare la questione dell’ordinamento giudiziario e della riforma del Csm. Forse non c’è stato argomento che abbia sollevato un così forte interesse, generando consenso sulle parole usate. L’applausometro ha fatto registrare un’impennata. Su questo, non c’è stata distinzione tra maggioranza e opposizione, tra destra e sinistra, per quanto quelle contrapposizioni avessero reso travagliata l’elezione, incerto il risultato finale. Stavolta tutti sono scattati in piedi. Erano da guardare uno ad uno, se le mani nello slancio entusiasta non avessero (pudicamente?) coperto il volto.
Erano euforici e rassicurati, eccitati dall’insperata sollecitazione, con quel senso liberatorio verso chi è riuscito a cantarla con le note giuste. Non importava chiedersi dove fossero loro di fronte a simili problematiche, quale parte avessero svolto in precedenza, troppo complicato, o imbarazzante. Bastava la conclusione: ecco finalmente uno che sa parlare chiaro, che dice le cose come stanno.
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Anche su un punto così sensibile, e di fronte a ovazioni che scuotevano la sala e stordivano le orecchie, Mattarella non ha cambiato registro. Come in tutto il discorso e su ogni aspetto, è rimasto impassibile: serio, senza sorrisi, né compiacimenti. Certo si è fermato, ha alzato lo sguardo. Ma è sembrato aspettare il momento per riprendere a parlare, piuttosto che cercare benevolenza e compiacenza. D’altronde non ha mai ceduto neppure alla tentazione contraria, per quanto potesse essere giustificata. Non ha mai richiamato all’ordine qualcuno. Non c’è stata insomma concessione alla platea, in un senso o nell’altro, per assecondarla o rimproverarla. Nessuna frustata polemica alla maniera di Napolitano II per quanto il parlamento sia rimasto bloccato sui veti e sulle contrapposizioni, nemmeno il comodo rifugio sprezzante del moralismo.
La parola più usata da Mattarella: dignità
Una lezione di stile, oltre che di merito, perciò nobile: la parola più usata è stata dignità, mentre quella più ripetuta nel primo discorso era stata speranza; una diversità terminologica che, a leggere i concetti in filigrana, segnano il cambiamento radicale tra la condizione di ieri e l’attuale. È rimasta la compostezza, senza cedimenti neppure per le approvazioni. Anche se le negligenze, le contraddizioni – come del resto le cause – erano tutte lì, in senso metaforico e reale, presenti negli atteggiamenti di quei grandi elettori in aula.
Giustizia, terreno di scontro politico
È innegabile che il capitolo giustizia sia uno dei più controversi ed allarmanti, e non è affatto sconcertante che il Presidente si sia soffermato su di essi sollecitando la responsabilità di chi ha il compito di varare le riforme da troppo tempo attese. D’altra parte, come l’individuazione del tema, è impossibile negare che anche le parole usate siano state ineccepibili.
La giustizia è diventata «terreno di scontro politico», il suo funzionamento «non corrisponde sempre alle pressanti esigenze di efficienza e credibilità», infine le vicende che hanno coinvolto il Csm in clamorose polemiche delegittimanti hanno mostrato le conseguenze estreme di quel mercato delle carriere che è conseguenza del «prevalere di inaccettabili logiche di appartenenza».
Tutto bene allora? Ne usciamo rassicurati dalla condivisione di un messaggio irreprensibile? Per non andare troppo indietro nel tempo, a proposito di “uso politico della giustizia”, gli applausi non sono riusciti a nascondere, per esempio, certe manovre di poche ore prima. Nell’elezione presidenziale, proprio nomi di magistrati (Nordio e Di Matteo, non consenzienti) sono stati messi in contrapposizione e strumentalizzati. Lo hanno fatto, gli odierni plaudenti, per attribuire bandiere di conservatorismo o progressismo, sventolare falsi emblemi di permissivismo o rigore giudiziario.
S’intende. Tanti e troppi magistrati (da Palamara in su o in giù) ci hanno messo il loro in questi ultimi anni per gettare discredito sulla magistratura e allarmare i cittadini sul buon uso di uno strumento delicato come i processi penali. La fiducia nella giustizia è in crisi, per molta parte, a causa loro. Ma le riforme necessarie sono scandalosamente ferme per i ritardi del parlamento, la strumentalizzazione dei problemi per fini di parte, l’approssimazione culturale nella trattazione dei problemi.
Non c’è settore della giustizia che non richieda interventi decisi
C’è tanto altro da riformare non solo quanto citato dal Presidente (Csm, ordinamento giudiziario), che – possiamo dirlo? – è apparso persino benevolo. Non c’è settore della giustizia che non richieda interventi decisi, ma il fatto è che in tanti (e tra costoro mettiamo, senza eccessivo pudore, anche la grandissima parte dei magistrati che fa il suo dovere, oltre a avvocati, accademici, gente comune) li reclamano inutilmente in tutte le sedi possibili, ormai hanno perso la voce. Un elenco infinito: dalla riforma dell’ordinamento penitenziario (per ridare dignità ai condannati e recuperarli alla società, secondo un progetto subito arenatosi) a misure per rendere rapidi i processi, alle riforme di diritto sostanziale; dagli investimenti nelle carceri a quelli negli strumenti di indagine e trattazione dei fascicoli. Tanto da fare senza perdere un giorno, e possibilmente nella direzione giusta.
«Applausi, di gente intorno a me», cantavano anni fa i mitici Camaleonti. Quando Mattarella, in quella situazione, ha insistito perché sia «recuperato un profondo rigore», nell’aula di Montecitorio ha fatto comodo a troppi pensare che il monito fosse rivolto ad altri, non anche a sé stessi. «Tu sola non ci sei» aggiungevano però gli stessi Camaleonti. Un avvertimento utile da recuperare, magari quel «lei» può essere oggi persino la malandata giustizia. Perché no?
*Angelo Perrone, è giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice. Si interessa di diritto penale, politiche per la giustizia, tematiche di democrazia liberale. È autore di pubblicazioni, monografie, articoli.