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Per battere le mafie bisogna affermare la cultura della Costituzione: intervista a Giovanni Gioia, responsabile legalità Cgil Lazio

di
Marco Omizzolo*

Caporalato nel Lazio, mafie, marginalità: ne parliamo nell’intervista a Giovanni Gioia, responsabile legalità Cgil Roma e Lazio e già segretario Flai Cgil Frosinone e Latina.

Legalità, mafia, caporalato, riciclaggio. Lei ha una lunga esperienza sindacale sviluppata a Latina, poi a Latina e a Frosinone e ora nel Lazio. Qual è la situazione, secondo il suo osservatorio, rispetto alla presenza e radicamento delle mafie a Roma e nel Lazio?

La mia esperienza da sindacalista, cominciata circa trent’anni fa, in provincia di Latina all’interno del settore agroalimentare in qualità di segretario generale della categoria Flai-Cgil mentre attualmente sono responsabile legalità della Cgil Roma e Lazio, si caratterizza per un confronto costante col tema della legalità, in continuità con la storia del sindacato che rappresento ma anche in relazione a un territorio, quello laziale, assai complesso in cui i temi interconnessi delle mafie, della corruzione, del riciclaggio e dell’estorsione sono particolarmente pervasivi e nel contempo gravemente sottovalutati dal dibattito pubblico e politico. D’altro canto, solo negli ultimi anni il tema delle mafie e dei loro affari, anche nella Capitale, ha assunto una specifica valenza giudiziaria anche se manca ancora di consapevolezza e di una azione di contrasto adeguata a questa sfida. Infatti, che l’innesco di tali riflessioni avvenga solo in seguito agli interventi delle forze dell’ordine e delle varie Procure disvelanti l’intreccio perverso di interessi mafiosi e accordi politici e imprenditoriali, o dal dibattito e dall’azione sindacale e associativa, e raramente per intervento specifico e di alto profilo della classe dirigente regionale e nazionale, costituisce un tema sul quale è urgente riflettere. Quest’ultima, in genere, viene investita dalle indagini e reagisce con provvedimenti tampone. Dichiarazioni e a volte atti politici ex post, dunque, e non ex ante. Solo raramente si prevede e sviluppa una programmazione politica e amministrativa volta a contrastare la criminalità guardando a questo fenomeno nella sua completa articolazione per limitarne il condizionamento e radicamento nell’economia regionale, in parte della politica e nella pubblica amministrazione.

Come sindacato l’attività prevalente sulla quale ci siamo originariamente concentrati e abbiamo sviluppato la nostra agency sindacale specifica ha riguardato i bassi salari dei lavoratori e delle lavoratrici, italiani e stranieri, continuando con specifica cognizione di causa, capacità di innovazione e originalità a indagare e contrastare la gestione illecita dei flussi migratori, la compravendita dei permessi di soggiorno, gli affitti e subaffitti illeciti di piccole unità abitative da parte di proprietari italiani, agenzie immobiliari e di società a questo scopo organizzate a gruppi di lavoratori di origine straniera, soprattutto indiani, le varie forme di intermediazione illecita e di sfruttamento lavorativo (in alcuni casi arrivate al lavoro coatto e anche alla riduzione in schiavitù), allo sfruttamento della prostituzione e alle varie forme di riciclaggio del denaro sporco. In definitiva abbiamo studiato e contrasto, sul piano sindacale, le agromafie pontine e laziali. Questo sistema criminale, peraltro, è in continua evoluzione, intimamente collegato alla globalizzazione economica e connesso col sistema della trasformazione, distribuzione e commercializzazione dei prodotti agricoli. Non a caso a Latina è presente uno dei mercati ortofrutticoli più importanti d’Europa, quale il Mof di Fondi. Questa città è stata il primo caso in Italia di amministrazione non sciolta per mafia per esplicita volontà governativa, nonostante una relazione di oltre 500 pagine dell’allora Prefetto di Latina Frattasi che dimostrava il condizionamento mafioso della relativa amministrazione. Questa vicenda è stata una prova di forza vinta da chi ha voluto nascondere il tema delle mafie sotto il tappeto, imponendo al territorio del Sud pontino un’ipoteca ancora oggi vigente con riferimento al persistente radicamento di diversi clan mafiosi. Riflessione questa completamente trascurata nel dibattito sia a livello locale, sia nazionale.

Abbiamo in questo modo gettato, in associazione con organizzazioni del Terzo Settore, le fondamenta di una riflessione che ha ispirato il dibattito degli anni a venire e con esso la produzione normativa sia a livello regionale sia nazionale, con la messa in discussione dell’azione politica di amministrazioni locali che, in modo drammatico, rispetto al tema delle agromafie, hanno storicamente sviluppato un approccio negazionista o semplificato al fine di disinnescarne la portata e relativa scala delle responsabilità, spesso anche di rilievo penale. Questo impegno e i risultati sviluppati costituiscono ancora la bussola di riferimento per coloro che si occupano di agromafie, caporalato e sfruttamento nel pontino e non solo. Risultati purtroppo disconosciuti da personalità varie assai poco autorevoli, divenute spesso ostacolo all’azione di contrasto alle mafie e all’illegalità, piuttosto che incentivo e sostegno. Si tratta di un impegno che ancora oggi rappresenta un patrimonio d’avanguardia non replicato. Se il sindacato, a Latina e nel Lazio, è particolarmente attivo su questo tema, lo si deve a chi ha costruito negli anni esperienze solide e ancora feconde che non possono essere cancellate o disconosciute con troppa facilità. Con la Filcams, invece, abbiamo affrontato il complesso sistema degli appalti, soprattutto pubblici, che invece di fornire servizi ai cittadini, venivano utilizzati, a volte, come occasione per sviluppare affari milionari per la criminalità organizzata che direttamente gestiva o faceva gestire da pseudo aziende interi settori economici. Si pensi al caso degli appalti “pilotati” da corruzione, come molte indagini della magistratura hanno dimostrato, o da società cartiere costituite, anche in questo settore, per distrarre denaro pubblico e permettere a consorzi di imprese criminali di approfittarne con utili milionari. L’appetibilità e la mole del montante economico degli appalti è stato fortemente condizionato da interessi illeciti di varia natura. Basti pensare che nei prossimi sei anni (escluso il Giubileo) arriveranno nel Lazio, tra fondi strutturali europei e Pnrr, più di venti miliardi di euro. Si tratta di una quantità di denaro allettante per coloro che partecipato a cordate di imprese mafiose e praticano corruzione, concussione e riciclaggio.

In Camera del Lavoro Frosinone e Latina, anche grazie ai rapporti istituzionali sviluppati in un’ottica di rete nella quale sono rientrate anche le associazioni meglio strutturate e qualificate su questa tematica, abbiamo cercato di sviluppare una visione più corretta delle mafie, anche grazie a consolidati rapporti con esponenti delle forze dell’ordine e prefetture. Anche in questo caso, dunque, conoscere, analizzare, approfondire e tenere insieme le competenze proprie del sindacato, delle istituzioni, dell’associazionismo e anche della ricerca sociale e università, ha permesso di sviluppare anticorpi volti a contrastare in modo migliore un sistema che drena non solo risorse pubbliche ma anche diritti e spazi di democrazia. Attualmente siamo invece soprattutto impegnati sul tema giubilare con riferimento in particolare all’area della Capitale, senza ovviamente dimenticare ciò che accade nel resto della regione.

Va sottolineato che, alla luce dell’esperienza sviluppata, è fondamentale non parlare più per la regione Lazio semplicemente di infiltrazioni mafiose. La criminalità organizzata è, infatti, totalmente insediata e radicata, in qualche caso da decenni, gestendo a volte, come detto, interi settori dell’economia. È il modello “Quinta Mafia”, in definitiva, ossia un coordinamento informale di diverse organizzazioni mafiose che nel Lazio sviluppa una potenza di indirizzo e condizionamento, mediante pratiche tipiche delle mafie come la corruzione, così tanto rilevante da condizionare il normale agire democratico, lo sviluppo economico e la programmazione dei principali “affari” della regione. Ovviamente, senza trascurare la potenza intimidatoria di natura militare delle mafie che nel Lazio, ancora una volta soprattutto in provincia di Latina, non ha risparmiato attentati, intimidazioni e dunque lutti gravi. Non a caso la Regione Lazio è stata definita un laboratorio criminale capace di saldare in un’ottica quasi manageriale, ossia attentamente organizzata, “pezzi deviati della politica”, dell’imprenditoria e della pubblica amministrazione con una capacità di condizionamento ancora tutta da indagare. L’auspicabile scioglimento per mafia del Comune di Aprilia, ancora in provincia di Latina, è la rappresentazione palese di questo sistema.

In diversi interventi pubblici il sindacato ha più volte denunciato la necessità di un impegno maggiore a Ostia. Cosa sta accadendo in quel territorio e cosa suggerite?

Spesso parlando di Ostia si dimentica che è una città di quasi 100.000 abitanti, che fa parte del X municipio del Comune di Roma (230.000 abitanti, ossia più di molte province italiane) e che è stata nel 2015 il più grande municipio d’Italia a essere sciolto per mafia con decreto prefettizio. Già queste tre condizioni indicano aspetti di originalità e drammaticità della tematica che è fondamentale non trascurare. Esiste, inoltre, un altro elemento da non sottovalutare: l’incidenza delle famiglie criminali di Ostia su tutta la città di Roma, da non circoscrivere nel solo e troppo ristretto ambito delle note famiglie Fasciani, Spada e Casamonica. Nel periodo immediatamente successivo allo scioglimento del municipio si sono accesi alcuni riflettori importantissimi, si è costituito un osservatorio sulla legalità e sviluppato un prodromico dibattito che ha interessato la cittadinanza, o almeno una sua parte, grazie soprattutto all’impegno di Libera. Purtroppo, però, nonostante anche numerose pubblicazioni di grande valore da parte di giornalisti e giornaliste di inchiesta, questi riflettori e dunque il relativo dibattito oggi risulta pericolosamente offuscato.

Nel corso degli ultimi due anni, ad esempio, continuiamo a denunciare, lungo il litorale romano, il condizionamento e a volte il controllo diretto della criminalità organizzata, addirittura con rigurgiti preoccupanti che vedono il ripresentarsi di famiglie mafiose già note alle forze dell’ordine e che sembra stiano riprendendo il controllo del territorio. Ancora una volta l’impegno contro le mafie non può essere circoscritto alla sola azione sindacale, della magistratura e delle forze dell’ordine. Serve una svolta politica, coraggiosa e ambiziosa nei programmi e negli obiettivi, capace di bonificare l’economia da qualunque forma di condizionamento da parte dei clan.

Accanto ai clan che ormai vengono definiti storici, come i Fasciani e gli Spada, si radicano clan di origine napoletana e calabrese sui quali è urgente concentrare l’attenzione. Da tempo è in atto un riposizionamento delle zone di influenza, come si evince dalla serie ininterrotta di attentati e atti intimidatori che hanno interessato il litorale, che continua a puntare al controllo dell’economia, illecita e legale, e di parte della politica, come nel caso dei recenti attentati incendiari anche nei riguardi di beni sequestrati.

Come Cgil stiamo provando, insieme all’amministrazione locale e alle associazioni, a tenere alta l’attenzione attraverso azioni continue sui beni confiscati per dare segnali concreti di legalità che si contrappongano a chi tenta di gestire in maniera illecita attività commerciali, lidi balneari e imprese varie. È necessario continuare ad insistere sulla strada della legalità e della riqualificazione sociale per far comprendere, soprattutto ai giovani delle zone più degradate di Ostia, che esiste un’alternativa al malaffare e che essa è percorribile con successo. C’è bisogno di luoghi di aggregazione giovanile, riqualificazione urbana, scolastica, lavoro regolare e soddisfacente, di un ambiente sociale non più fondato sulla sopraffazione e di aree naturali aperte e integrate con la città e non ricettacolo di malaffare. Solo così possiamo dire che Ostia cambia rotta.

Lei è stato tra i primi a occuparsi di caporalato con riferimento alle varie forme di sfruttamento dei braccianti indiani in provincia di Latina, e tra i primi a ricondurre questo crimine nell’ambito delle mafie, almeno come reato spia delle stesse. A distanza di molti anni, come si sta sviluppando questo crimine considerando ad esempio che Roma è il comune agricolo più grande d’Europa?

Il caporalato è una piaga che purtroppo è presente nella maggior parte del territorio nazionale. È un fenomeno molto complesso che cambia completamente forma a seconda della regione e/o anche della provincia in cui si manifesta. Per questo bisogna conoscere a fondo il territorio ed essere vicino ai lavoratori e alle lavoratrici che lo subiscono, per ascoltare, capire e supportarli in un processo di emancipazione che dialoga coi principi fondamentali della nostra Costituzione. È un lavoro sindacale ma anche sociale, politico, culturale assai faticoso ma necessario che richiede professionalità e non slogan, competenze e non false rappresentazioni. È una attività che non si può fare restando seduti dietro una scrivania o agendo solo come società di servizi amministrativi sul campo, raccogliendo pratiche dai lavoratori e restituendo illusioni che poi si ritorcono contro le vittime di sfruttamento e caporalato in termini di disillusione e allontanamento dall’azione rivendicativa associativa o sindacale. Dimentichiamo infatti che abbiamo a che fare, su questo tema, con un sistema non solo politico ma anche normativo e procedurale particolarmente ostico, frutto di oltre trent’anni di stratificazioni di leggi, procedure a interpretazioni che hanno impedito l’emancipazione dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, determinando stati di segregazione. Ancora una volta conoscere e agire conseguentemente con coerenza è fondamentale se si vogliono ottenere risultati reali a prescindere dalla visibilità che ne deriva, riprendendo l’analisi e la denuncia anche rispetto al ruolo dei liberi professionisti, del sistema finanziario e bancario, evitando pratiche ormai consunte, stantie, standardizzate, che spesso accendono fuochi mediatici fatui e egoriferiti, in netta opposizione con gli interessi delle vittime del caporalato e di questo sistema di impresa. Per questa ragione è urgente impegnarsi sul caporalato in tutti i settori produttivi anche nell’area romana. Roma non è esente dal fenomeno ma caratterizzata, anch’essa, in termini di diffusione di questo sistema illegale e criminale, da forme di caporalato sperimentate nel pontino e organizzate nella sua area, comprese le relative compagne, da decenni. Questo è un tema gravemente sottovalutato da tutti.

Vent’anni fa, quando iniziammo ad occuparcene nella provincia di Latina, partimmo dai numeri: provincia morfologicamente agricola con migliaia di aziende agricole (anche di grandi dimensioni). Eppure erano presenti, in via ufficiale, solo cinquemila lavoratori nel settore agricolo registrati negli elenchi anagrafici dell’Inps. Non solo. Dai dati non risultavano infortuni in un settore invece molto a rischio. Mancavano anche le denunce e le vertenze sindacali. Un settore, dunque, apparentemente virtuoso. Anche il nostro livello di rappresentanza era ridotto perché era difficile intercettare i lavoratori stranieri e avviare con loro un rapporto empatico e credibile di rappresentanza reciproca. Cominciammo quindi a fare sindacato di strada, con un camper e un tavolino in giro per le campagne e nelle borgate. Mentre facevamo tutto ciò, cambiò la normativa nel nostro Paese con l’introduzione della cosiddetta “Bossi-Fini” e, non per caso, cambiò completamente anche la provenienza dei lavoratori impiegati nelle campagne: da magrebini ad asiatici, soprattutto indiani di religione sikh. Culture e tradizioni completamente diverse. La nostra sfida fu rielaborare il nostro mandato e riarticolare l’azione sindacale con donne e uomini che non conoscevano il ruolo, la funzione e il rilievo del sindacato. È stata una sfida fondamentale che ha previsto anche la nostra messa in discussione e che ci ha obbligato a confrontarci con donne e uomini che venivano impiegati in condizioni di grave rischio per la loro salute, con ritmi di lavoro estenuanti, carichi di fatica estremi, con retribuzioni inferiori anche dell’80% rispetto a quelle previste dal relativo contratto, oltre a forme pervasive di emarginazione e povertà.

Scoprimmo che la maggior parte di loro non aveva mai sentito parlare dell’Italia e che venivano “dirottati” in provincia di Latina attraverso “mediatori” (sarebbe meglio definirli trafficanti) che gestivano le tratte migratorie e che facevano pagare allora dai 7.000 ai 10.000 euro il pacchetto completo che prevedeva viaggio aereo di sola andata, contratto di lavoro a tempo determinato e regolare permesso di soggiorno nel nostro Paese per motivi lavorativi. Nessun di loro entrava, dunque, illegalmente in Italia. Alcuni datori di lavoro italiani e i loro caporali chiedevano a questi lavoratori denaro per qualsiasi necessità e bisogno: dal rinnovo del contratto di lavoro e del permesso di soggiorno agli affitti, utenze, servizi sanitari, atti amministrativi. Tutte condizioni previste appunto dalla “Bossi-Fini” per rimanere regolarmente in Italia. Quando il lavoratore indiano non possedeva il relativo denaro gli veniva fornito in prestito dal datore di lavoro che in cambio gli chiedeva di lavorare quasi gratuitamente per scontare i debiti contratti, determinando forme di sfruttamento ed emarginazione che coprivano un arco temporale anche di decenni. Una vera e propria gabbia che attraverso lo sfruttamento e il ricatto (che spesso avveniva anche con metodi violenti) si doveva accettare oppure, se si rifiutava, faceva precipitare i lavoratori migranti nello stato di irregolarità (tra l’altro tale condizione era vista anche come una sconfitta del lavoratore che venendo in Italia per lavorare era colui su cui la famiglia di origine aveva investito risparmi e aspettative).

Un esercito di lavoratori sfruttati e ricattati che già allora superava le 20.000 unità e che costituiva e costituisce, per le organizzazioni criminali, terreno fertile di guadagno e di controllo del territorio. Per questo chiediamo da tempo di introdurre il caporalato nei reati di stampo mafioso, ritenendolo sicuramente un reato spia ma spesso proprio un business diretto delle mafie che investono su questi processi, muovendosi su grandi numeri e ricavandone montagne di denaro. Attraverso azioni di sensibilizzazione e denunce siamo arrivati ad organizzare una grande manifestazione a Latina, nel 2010, e uno sciopero generale nel 2016 con quasi 5.000 lavoratori e lavoratrici di origine soprattutto indiana che portò alla discussione in Parlamento e poi approvazione della nota legge 199/2016 quale norma assai articolata che finalmente individua la responsabilità penale diretta del datore di lavoro e non solo dell’intermediario come invece sino ad allora era avvenuto.

Sono stati fatti molti passi in avanti sia a Latina che nel resto del Paese e non si può sottovalutare l’importante impegno della Cgil, di molte organizzazioni e personalità che sul tema hanno lottato e continuano a lottare. Così come non si può sminuire l’impegno delle forze dell’ordine e della Magistratura con decine di indagini svolte e processi in corso e molte condanne. Questi sistemi criminali non sono però stati sconfitti. Il caso di Satnam Singh a Latina della scorsa estate drammaticamente lo dimostra. Come detto però non c’è solo Latina. Per questa ragione, da tempo chiediamo di aprire tavoli istituzionali sulle agromafie confrontandoci, come facemmo a Latina, sui numeri, sulle congruità in agricoltura (numero aziende, ettari coltivati, tonnellate prodotte, numero lavoratori registrati, contratti applicati), sulle storie di vita e di lavoro dei lavoratori e dunque sulle loro testimonianze, con la partecipazione degli istituti di ricerca più qualificati come l’Eurispes.

Appalti, riciclaggio, corruzione e mafie. Anche in questo caso qual è la situazione nel Lazio e soprattutto a Roma in vista del Giubileo? Cosa si deve fare per non agevolare le mafie e anzi impedire loro di fare di questa grande iniziativa una grande occasione di speculazione e radicamento del malaffare?

Il territorio romano e laziale non è affatto immune dal radicamento delle cosche mafiose e non rappresenta solo il luogo di investimento di capitali illeciti, ma anche di una presenza plurima e diversificata a carattere sicuramente non monopolistico. Non c’è infatti un soggetto in posizione di forza e quindi di preminenza sugli altri. Sullo stesso territorio convivono e interagiscono diverse organizzazioni criminali: innanzitutto gruppi che costituiscono proiezioni delle mafie tradizionali, con la ‘ndrangheta dotata di maggiore potenza militare e imprenditoriale. Insieme a queste proiezioni sullo stesso territorio coesistono gruppi criminali autoctoni che danno vita a vere e proprie consorterie mafiose accomunate dall’utilizzo del metodo mafioso. Si determina così un perverso scambio di utilità criminali tra gruppi mafiosi che si riconoscono e si rispettano reciprocamente. Un sistema multilivello che si tiene in equilibrio, grazie a una pax mafiosa siglata negli anni ’70, ad intermediari che hanno sempre garantito l’incontro fra la domanda e l’offerta di mafia e infine dall’ampia rete di corrotti e corruttori che attraversa a più livelli questi sistemi criminali. Riciclaggio, traffico di droga anche internazionale, investimento di capitali illeciti, gioco d’azzardo e usura, sfruttamento, sofisticazione ma anche false fatturazioni ed evasione dell’Iva sono solo alcuni degli ambiti di azione delle mafie a Roma.

Da un punto di vista strettamente mafioso non poche periferie romane stanno diventando lo spazio di sperimentazione di “nuovi modelli criminali” dei quali la gestione delle piazze di spaccio rappresenta un fondamentale strumento di contagio e controllo sociale. La questione mafiosa chiama in causa anche i diversi contesti sociali, politici ed economici nei quali i gruppi criminali operano e coi quali i loro membri interagiscono quotidianamente.

Ecco perché parlare di mafie e piazze di spaccio non significa solo affrontare la dimensione criminale, ma cogliere anche il profondo cambiamento della condizione sociale nelle periferie romane. Le inchieste rivelano i vuoti e le solitudini delle nostre periferie, caratterizzate dalla debolezza dei corpi intermedi, dalla fragilità delle reti, dall’emergenza educativa, dalla disuguaglianza sociale, dall’assenza di partiti e forze sociali.

Questo è un elemento cruciale su cui riflettere, che fa capire perché l’azione robusta della Magistratura e delle Forze di Polizia non può essere esaustiva nel contrasto alle mafie. La riflessione sulla questione criminale del Lazio serve a riflettere quindi sulle radici di questi clan, sul loro collegamento con il tessuto socio-economico e sulle condizioni ambientali che ne hanno favorito o in taluni casi determinato l’evoluzione. Fatto singolare rispetto ad altri territori non a tradizionale presenza mafiosa. Si tratta di una specificità del territorio laziale che è importante comprendere per poter agire sui piani della prevenzione e dell’intervento socio-politico sui territori, non lasciando però in secondo piano il rischio rappresentato quotidianamente dall’azione criminale nel Lazio da parte clan tradizionali.

L’obiettivo è quello di contribuire a riconoscere le mafie e i loro “compari”, presupposto decisivo verso l’assunzione di una responsabilità politica e sociale in grado di approntare tutti gli strumenti utili ad affrontare una battaglia difficile, ma non impossibile da vincere.

I miliardi di euro (più di venti) che stanno arrivando nel Lazio, tra Pnrr, la nuova programmazione europea 21-27 e il Piano Sviluppo e Coesione, in aggiunta a quelli per il Giubileo, dovranno servire a cambiare la vita delle persone, a rendere il Lazio più giusto, più bello, più forte, più verde. Si deve lavorare sinergicamente per impedire l’infiltrazione delle mafie nel settore degli appalti e dei servizi pubblici, attraverso il monitoraggio, l’incrocio dei dati e la prevenzione, come previsto dal Protocollo siglato sul Giubileo e che dobbiamo necessariamente estendere alle altre amministrazioni pubbliche. Si tratta di recidere il circolo vizioso che alimenta le organizzazioni criminali per riciclare i capitali illecitamente accumulati proprio con l’aggiudicazione o l’affidamento di commesse pubbliche.

La presenza di organizzazioni criminali è favorita dall’area grigia dell’illegalità, dalla convinzione che si possa fare a meno di un rigoroso e costante rispetto delle regole. Mafia, illegalità, corruzione non sono sempre la stessa cosa, ma si alimentano a vicenda. Per battere le mafie bisogna affermare la cultura della Costituzione, cioè del rispetto delle regole, sempre e dovunque, a partire dalla dignità del lavoro. Sono stati fatti importanti protocolli e accordi con l’amministrazione capitolina e con il Commissario straordinario per il Giubileo, sugli appalti e sul terzo settore, ma la strada da percorrere è ancora lunga e soprattutto l’esigibilità e il controllo di quanto viene siglato rimane distante dalle buone intenzioni che riusciamo a concordare.

Cosa manca alla politica, secondo lei, per riuscire a intervenire con cognizione di causa e proposte avanzate contro il radicamento e il condizionamento delle mafie nel Lazio?

La politica dovrebbe essere più vicina alle problematiche che quotidianamente affliggono i territori. Per esempio, si potrebbe agire sul welfare, sulla sanità, sulla scuola, sul degrado urbano sulle opportunità di lavoro e sulla qualità del lavoro soprattutto per i giovani per riempire quegli spazi spesso lasciati vuoti e che occupa qualcun altro. Nello specifico, dovrebbe agire con leggi sul lavoro che limitino la precarietà e i bassi salari e introducano un sistema di certificazione della rappresentanza, non tagliare fondi alle amministrazioni locali, anzi aumentarli magari controllando meglio come vengono spesi, non tagliare fondi sulla sanità pubblica a favore di quella privata, finanziare i progetti di aggregazione sociale, dando possibilità nuove ai giovani, soprattutto attraverso il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie e non con spedizioni punitive come i decreti Cutro e Caivano, sostenere la magistratura al contrario di quanto viene invece proposto con l’attuale riforma della giustizia e sostenere le forze dell’ordine rinnovando i contratti di lavoro e gli organici (oggi pesantemente in negativo). Sono anche molto importanti gli sgravi fiscali per quelle aziende che rispettano le norme e i contratti di lavoro e che favoriscono l’occupazione. Nella fattispecie rispetto all’illegalità nel mondo del lavoro, tre interventi normativi potrebbero aiutare moltissimo il contrasto alle mafie a partire dall’abolizione della “Bossi-Fini”, l’introduzione del reato di caporalato come reato di stampo mafioso, l’agevolazione dei permessi di soggiorno legati alla denuncia anche prima dell’esito processuale, l’estensione della responsabilità in solido della committente negli appalti e riduzione del subappalto e l’introduzione del durc di congruità, delle clausole sociali e reddituali per tutti gli appalti (anche quelli sotto soglia). Nel Lazio potremmo anche migliorare gli interventi di carattere nazionale, come accaduto dopo l’approvazione della legge 199/2016. Il percorso, benché complicato, non è impossibile. Si tratta continuare a studiare, insistere e a fare rete con coloro che, in modo serio, consapevole e coraggioso, intendono affrontarlo e contrastarlo seriamente e non solo con slogan o retoriche sterili.

*Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore dell’Eurispes.

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