Le principali analisi sullo sfruttamento del lavoro in Italia, comprese le varie forme di intermediazione illecita (il cosiddetto “caporalato”), si concentrano spesso su tre variabili predominanti. La prima è il genere, tanto che molte ricerche riguardano lo sfruttamento del lavoro che coinvolge solo individui di sesso maschile. La seconda variabile è quella demografica, che fa concentrare l’analisi su soggetti quasi sempre giovani e in buona salute. La terza e ultima variabile riguarda l’origine, o meglio la nazionalità degli sfruttati. In quest’ultimo caso ci si concentra sempre sui migranti, trascurando la presenza non irrilevante di manodopera italiana. La ricerca sociale sul campo, in realtà, si confronta quotidianamente con la complessità dello sfruttamento lavorativo derivante da un intreccio articolato di variabili che non possono essere ridotte in categorie stereotipate o semplificate, se non a rischio di gravi sottovalutazioni. Una di queste riguarda proprio lo sfruttamento della manodopera femminile, probabilmente legata ad una sottovalutazione discriminatoria che deriva da uno sguardo sul fenomeno ancora prevalentemente maschile.
Lo sfruttamento delle donne comincia spesso in famiglia
La Ong WeWorld, nell’ambito della campagna #OurFoodOurFuture, ha tentato di colmare questo gap conducendo una ricerca nelle campagne dell’Agro Pontino che ha avuto come oggetto la condizione di vita e di lavoro proprio delle donne italiane e immigrate. Ne è risultato un sistema di sfruttamento, violenza e discriminazione del lavoro agricolo femminile che, sebbene non generalizzabile all’intero settore agricolo ma individuato con precisione chirurgica – sia per evitare una generalizzazione criminalizzante l’intero settore, sia per intervenire puntualmente e tutelare le vittime – esprime forme di prevaricazione ed emarginazione che iniziano già all’interno della famiglia e si esprimono in maniera compiuta e spesso criminale in alcune aziende agricole locali. La ricerca comprende interviste in profondità di diverse lavoratrici agricole, italiane e immigrate, e di alcuni stakeholders come sindacalisti, imprenditori locali, amministratori e politici, immigrati di origine indiana da anni impegnati contro lo sfruttamento del lavoro e il caporalato nonché associazioni e movimenti di livello nazionale e internazionale come Amnesty International Italia, Terra! Onlus, In Migrazione e Tempi Moderni.
Lavoratrici impiegate per 12 ore al giorno e 28 giorni al mese
Le lavoratrici impiegate in agricoltura, stando alla ricerca, lavorano anche per 10-12 ore al giorno per 22-28 giorni al mese, con un’attività fisica che può prevedere di restare curve o in piedi per molte ore consecutive, ad esempio lungo il nastro trasportatore degli ortaggi raccolti in campo, con le mani immerse nell’acqua per il lavaggio degli ortaggi a temperature che, in alcuni periodi dell’anno, raggiungono lo zero.
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Disuguaglianze di genere emergono in contesti di sfruttamento del lavoro
Un altro aspetto emerso nell’indagine riguarda le pause dal lavoro riconosciute alle lavoratrici. Si tratta in genere di pause inferiori, in termini di durata, anche del 30% rispetto ai colleghi uomini. Anche il loro diritto di andare in bagno risulta limitato o compresso in favore della precedenza prevista ai loro colleghi uomini, salvo la possibilità di dirigersi direttamente in campo aperto. Le pause inoltre variano a seconda delle necessità quotidiane dell’azienda e per questo sono condizionate dalle esigenze individuate dal responsabile della produzione o dal datore di lavoro, oppure, se presente, dal caporale locale. Le conseguenze sulla salute delle donne impiegate possono risultare particolarmente gravi, anche perché in vari casi risulterebbero, come i loro colleghi uomini, a diretto contatto con fitofarmaci illegali e cancerogeni assai pericolosi eppure utilizzati allo scopo di accelerare la crescita degli ortaggi in termini sia quantitativi sia di estetica imposta dal mercato ortofrutticolo globale.
Le testimonianze documentano reiterate violenze verbali e vessazioni
Insieme all’articolazione di questo specifico fenomeno, alcune testimonianze documentano le reiterate violenze verbali, con rimproveri e insulti, anche a sfondo razziale, urlati pubblicamente dal datore di lavoro o dal caporale, oppure l’invito, da parte di alcuni di essi, ad essere accondiscendenti con le loro richieste a sfondo sessuale. Ciò indica una forma di violenza efferata che deriva da un pensiero strategico, altrettanto brutale e violento, che tiene insieme lo sfruttamento lavorativo e sessuale delle donne lavoratrici, italiane e immigrate.
Numerose le lavoratrici che denunciano situazioni di sfruttamento e soprusi
Un aspetto positivo che emerge dalla ricerca di WeWorld deriva dalla denuncia già presentata dalle donne immigrate vittime di sfruttamento e ricatti agli organi investigativi e alla Procura della Repubblica di Latina. Nel corso dell’ultimo anno, infatti, grazie al progetto “Dignità Joban Singh” di Tempi Moderni condotto insieme all’associazione Progetto Diritti, alcune donne, soprattutto di origine indiana, hanno presentato regolare denuncia per sfruttamento del lavoro e per alcuni gravi incidenti subiti durante le lunghe giornate trascorse all’interno di alcune aziende. È un dato di straordinaria importanza, indicatore dell’impegno delle stesse lavoratrici vessate di uscire da un inferno fatto di sfruttamento e violenza.
*Marco Omizzolo, docente, sociologo, ricercatore dell’Eurispes.