Intervista al Prof. Fabio Berti, ordinario di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università di Siena dove insegna “Sociologia delle migrazioni e sostenibilità sociale e disuguaglianze”
Insieme alla Prof.ssa Giulia Mascagni, ha recentemente pubblicato il saggio “«Devi stare attento quando lavori». Sfruttamento, salute e accesso alle cure dei lavoratori stranieri in agricoltura” per la rivista Welfare e Ergonomia del Cnr (anno X 1/2024). Quali sono gli aspetti prevalenti che mette in luce questo lavoro di ricerca?
L’articolo esamina i percorsi di prevenzione e accesso alle cure per i lavoratori stranieri impiegati in agricoltura in Toscana, analizzando le conseguenze dello sfruttamento lavorativo sul benessere e sulla salute dei migranti più fragili e vulnerabili. Attraverso una serie di interviste a lavoratori stranieri, a datori di lavoro a medici di pronto soccorso e del lavoro, è emerso che, anche in una regione relativamente ricca e ben organizzata come la Toscana, i lavoratori immigrati più vulnerabili sono quotidianamente esposti a esperienze di deprivazione della loro salute. Ciò è dovuto in parte all’alta incidenza di infortuni, più o meno gravi e non sempre denunciati, e in parte alla loro scarsa conoscenza dei rischi e alla mancata consapevolezza dei diritti e delle tutele, con una seria possibilità di sviluppare disturbi fisici e mentali nel medio periodo. Anche se non sono emersi casi drammatici come quello che nel giugno 2024 ha portato alla morte di Satnam Singh in seguito ad un infortunio sul lavoro nelle campagne Pontine, anche in Toscana la salute rimane quasi sempre un “fatto privato”: il ricorso alle cure mediche avviene semmai in un secondo tempo, quando l’autocura non è più sufficiente e il dolore aumenta, e viene fatto in autonomia accedendo al pronto soccorso a fine giornata o nei giorni successivi, talvolta omettendo volontariamente la dinamica dell’incidente per “evitare guai”, talvolta perché impossibilitati dalla barriera linguistica ad illustrare puntualmente l’accaduto. Naturalmente, le giornate di lavoro perse non vengono pagate e i lavoratori non ottengono alcun indennizzo. Tale situazione è aggravata dalla mancata presa in cura di questi lavoratori da parte del sistema sanitario: il loro unico contatto con un professionista della salute risulta quello con il medico del lavoro, salvo poi ricorrere ad un uso improprio del pronto soccorso in caso di situazioni più gravi, anche legate a disagi psichici dovuti non solo alle dure condizioni di lavoro ma anche alla solitudine, alla lontananza da casa, alla mancanza di reti sociali.
Qual è, a vostro parare, il ruolo che svolge oggi la medicina del lavoro e quale, invece, potrebbe svolgere in Toscana e in Italia per prevenire e contrastare le varie forme di sfruttamento?
In attesa di una ridefinizione del rapporto con la medicina di base da parte dei lavoratori stranieri, specie quando si tratta di richiedenti asilo, il medico del lavoro potrebbe svolgere un ruolo davvero importante per la tutela della loro salute. La visita medica obbligatoria preliminare all’assunzione è spesso l’unica occasione per condividere i propri problemi di salute con un esperto e per ricevere indicazioni su quali comportamenti adottare per stare meglio. Il saggio ha, tuttavia, evidenziato come i medici del lavoro interpretino in modi diversi la loro professione: alcuni si limitano agli adempimenti formali previsti dalla legge necessaria al riconoscimento dell’idoneità fisica al lavoro in linea con le attese dei datori di lavoro; altri adottano un approccio più empatico, non solo durante la visita ma anche rendendosi disponibili a consulenze e consigli. Sotto questo profilo, la medicina del lavoro potrebbe occupare un ruolo di raccordo tra lavoratori, medicina di base e specialistica per offrire maggiori tutele alla salute dei migranti fragili. Occorre anche tener presente che l’incontro tra medico del lavoro e paziente/lavoratore può risultare difficoltoso a causa delle barriere linguistiche e culturali che, in mancanza di adeguate forme di mediazione, possono ostacolare la costruzione di relazioni fiduciarie.
Ha recentemente pubblicato una dettagliata ricerca ancora sullo sfruttamento e il caporalato nell’agricoltura toscana dal titolo emblematico Sfruttati. Quali sono i risultati di questa nuova indagine? Esiste sfruttamento e caporalato in Toscana e, nel caso, quali caratteristiche manifesta?
È opinione piuttosto diffusa che lo sfruttamento del lavoro in agricoltura sia o un retaggio del passato oppure un fenomeno marginale e concentrato nelle regioni dell’Italia meridionale. In realtà, forme articolate di sfruttamento del lavoro, come nel caso del caporalato, sono ampiamente diffuse in tutte le regioni italiane e quindi anche in Toscana, dove il settore agricolo legato al vitivinicolo, all’olivicoltura e all’ortofrutta sono particolarmente vivaci. Possiamo affermare che in Toscana non sono emerse situazioni immediatamente riconducibili all’agromafia o legate direttamente alla criminalità organizzata, ma non per questo le conseguenze sui lavoratori risultano meno drammatiche. Ciò che emerge non sono tanto i tratti violenti ed eclatanti del caporalato più classico e conosciuto quanto una molteplicità di forme meno visibili, spesso micro-territoriali e talvolta istituzionalizzate, che in ogni caso compromettono la dignità del lavoro e il rispetto dei diritti dei lavoratori, mettendo in discussione la credibilità di una parte significativa del settore agricolo. Per garantire la qualità delle produzioni, l’agricoltura regionale ha sempre più bisogno di un elevato numero di lavoratori per periodi di tempo brevi e improvvisi, magari in relazione ad eventi atmosferici; così la manodopera è stata quasi completamente sostituita con lavoratori stranieri, ultimamente richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale. Come è facile immaginare, si tratta della componente più fragile e vulnerabile del mercato del lavoro, un vero e proprio “esercito industriale di riserva” disposto ad accettare qualsiasi condizione in cambio di un salario.
Nel volume si parla esplicitamente di un “sistema legale di sfruttamento” reso possibile dagli ampi margini di manovra offerti dall’attuale impianto normativo. In particolare, è molto diffuso il fenomeno del contoterzismo che permette alle imprese agricole di appaltare a società esterne buona parte delle lavorazioni in pieno campo; queste esternalizzazioni permettono poi di allungare le catene delle responsabilità finendo per scaricare sui lavoratori più vulnerabili tutta una serie di costi di filiera. Così è possibile trovare lavoratori regolarmente assunti da queste società contoterziste che però percepiscono salari molto inferiori a quanto previsto dal contratto provinciale o che non vengono pagati, che svolgono turni di lavoro massacranti, che non ricevono i dispositivi di protezione individuali per lavorare in sicurezza; il sistema dell’esternalizzazione è tale che in molti casi i lavoratori non sanno nemmeno chi sia il reale datore di lavoro.
Il contratto di lavoro a tempo determinato previsto per gli avventizi in agricoltura permette poi al datore di lavoro di registrare la prestazione svolta anche nei giorni successivi: è evidente che questo permette a tante società contoterziste di non “segnare” le giornate svolte a meno che non scatti un controllo. In questo modo, i lavoratori non solo vengono pagati “in nero” ma perdono anche l’opportunità di accedere alle misure di integrazione al reddito previste dalla disoccupazione agricola. Insomma, anche in una regione conosciuta nel mondo per le sue produzioni agricole ‒ basta pensare ai suoi famosi vini ‒ non mancano occasioni di grande preoccupazione per le condizioni di tanti lavoratori stranieri senza tutele.
Esiste in Toscana una relazione tra sistema di prima accoglienza e sfruttamento del lavoro degli stranieri soprattutto in agricoltura, e di che genere?
Si esiste, certamente! Molti dei lavoratori che abbiamo intervistato vivono ancora nei Cas e, in alcuni casi, sono stati gli stessi operatori a mettere in contatto i richiedenti asilo con le società contoterziste che li hanno assunti e, magari, anche sfruttati. I Cas sono un bacino formidabile dove reclutare lavoratori fragili e vulnerabili: spesso i richiedenti asilo non solo non hanno altre opportunità di impiego ma non conoscono i lori diritti, non sanno niente di contratti di lavoro e, soprattutto, hanno urgente bisogno di guadagnare qualcosa per mantenere la famiglia rimasta nel paese di origine e ripagare il debito contratto per emigrare. Ad aggravare ulteriormente la situazione intervengono alcune norme che regolano il diritto alla permanenza all’interno dei Cas. In particolare, il legislatore ha stabilito che il richiedente asilo deve uscire dal sistema di accoglienza quando percepisce un reddito superiore all’importo dell’assegno sociale annuo: ciò significa che con poco più di 500 euro mensili di reddito dovrebbero pagarsi l’affitto, le bollette, il cibo e tutto il resto. Così, molti sono costretti a compensi fuori busta, mentre in altri casi lavorano senza farsi pagare per non rischiare di rimanere senza un posto dove stare.
È possibile individuare una specifica responsabilità della Grande Distribuzione Organizzata nella produzione del sistema di sfruttamento e grave sfruttamento del lavoro bracciantile nell’agricoltura italiana?
Carlo Pedrini, il fondatore di slow food, nel suo libro Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, già una ventina di anni fa, rifletteva su come il cibo ‒ insieme a tutta la filiera agroalimentare ‒ dovesse rispettare tre princìpi basilari: la qualità dei prodotti e la loro capacità di soddisfare i gusti dei consumatori, la sostenibilità dell’intero comparto agroalimentare, con particolare attenzione alle conseguenze ambientali, e l’eticità dei processi produttivi, portati avanti rispettando i lavoratori e garantendo la giustizia sociale. Mentre sul tema del buono i risultati raggiunti sono innegabilmente elevati grazie ad una crescente attenzione da parte dei consumatori alla qualità del cibo e, sul tema del pulito, la crisi climatica, insieme a quella energetica e ambientale, hanno sollecitato molti interventi per cambiare i modelli produttivi, la questione della “giustizia sociale” è rimasta decisamente indietro: su questo ritardo ha grande responsabilità tutta la filiera agroalimentare in generale ma, in particolare, la Grande distribuzione organizzata.
Il sistema imposto dalla Gdo ha messo in contrapposizione produttori e consumatori: i primi costretti a vendere ai prezzi imposti dalla Gdo, anche se al di sotto dei costi di produzione, i secondi obbligati a scegliere solo in base alla convenienza economica a causa dei bassi salari che recentemente hanno ulteriormente perduto potere d’acquisto in seguito al consistente aumento dell’inflazione. L’introduzione di meccanismi, che permettono di spuntare i prezzi più bassi e allo stesso tempo di vendere nel modo più appetibile per i consumatori, ha portato ad un vero predominio nel settore agroalimentare della Gdo. Così, lo sfruttamento del lavoro è diventato funzionale e indispensabile all’intera sostenibilità economica del settore. L’unico costo che le imprese riescono a tagliare ‒ o per rimanere in vita a causa dei bassi prezzi imposti dalla Gdo o a causa della rapace avidità degli imprenditori agricoli ‒ è diventato il costo del lavoro, grazie alla presenza di un nuovo esercito industriale di riserva costituito da immigrati, richiedenti asilo e altri lavoratori fragili e vulnerabili. La spirale innestata appare vertiginosa e senza soluzione: i bassi salari spingono i consumatori a rivolgersi ai supermercati con le offerte migliori; le grandi centrali della Gdo impongono ai produttori prezzi irrisori, spesso al di sotto dei costi di produzione; le imprese agricole, infine, finiscono a loro volta per imporre salari irrisori e a sfruttare i lavoratori.
Quali sono, secondo le ricerche da lei condotte, i principali provvedimenti necessari per meglio affrontare e risolvere le varie forme di sfruttamento del lavoro degli stranieri nel mercato del lavoro italiano?
Quando riflettiamo su come rendere più efficaci le misure di contrasto allo sfruttamento del lavoro, il primo pensiero va sempre al rafforzamento dei controlli: più ispettori, più ispezioni, più ingressi nelle aziende. Eppure, la repressione da sola non basta proprio perché, almeno in Toscana, il sistema di sfruttamento legale rende in molti casi inefficaci questi approcci. Certo, i controlli rimangono indispensabili ma devono essere affiancati da altre azioni.
Può apparire utopistico, ma senza un cambiamento radicale del modello produttivo e della distribuzione dei prodotti agricoli, con una revisione della regolamentazione della filiera agroalimentare, ogni intervento rischia di non produrre grandi risultati. Poi ci sono azioni molto concrete come nel caso di una revisione dei contratti di lavoro in agricoltura, in particolare per quanto riguarda il sistema di registrazione delle giornate lavorate, oppure prevedere verifiche sul rapporto tra ore lavorate, estensione dei terreni e prodotti immessi sul mercato. A monte di tutto questo, rimane però la necessità di cambiare le politiche migratorie del nostro Paese, per rafforzare i diritti dei lavoratori stranieri e metterli nelle condizioni di svolgere regolarmente e senza timori attività indispensabili al nostro Paese in generale e alla Toscana in particolare. Insomma, lo sfruttamento non potrà essere sconfitto senza serie politiche finalizzate al riconoscimento e all’integrazione, non solo a livello nazionale ma anche a livello locale.
*Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore Eurispes.