È arrivato il momento in cui l’Unione deve decidere se esiste o meno un “bene comune europeo”. Dalla risposta a questa domanda dipende se procedere con il progetto dei Covid-bonds. Emanare i Covid-Bonds con chi ci sta è la proposta del Laboratorio Europa dell’Eurispes.
Un dilemma che si ripropone in questi giorni, in termini ben diversi, però, da quello relativo alla crisi finanziaria. Lo scontro, oggi, non è tra le “cicale” e le “formiche”, tra paesi virtuosi e meno virtuosi. Questa volta, è tutto diverso. La crisi, non riconducibile a nessuno di essi, colpirà tutti i paesi in maniera simmetrica. È necessario far presto, però.
Qualora il Consiglio continuasse a tergiversare, i paesi firmatari dell’appello, e gli altri che si sono aggiunti, possono procedere comunque, mettendo in atto obbligazioni comuni, destinate esclusivamente a far fronte alla crisi indotta dalla pandemia e alle sue conseguenze. Hanno il dovere di farlo verso i loro cittadini e verso l’Europa, per darle un Futuro. Dal punto di vista negoziale, la sua semplice prospettazione costituirebbe una forma di pressione non indifferente sugli Stati recalcitranti. Dal punto di vista politico, essa realizzerebbe, nel mezzo di una crisi grave e imprevedibile, una forma tangibile di solidarietà fra gli Stati aderenti dell’Unione, che sembrerebbe essersi smarrita negli egoismi nazionali.
La possibilità di una emissione di obbligazioni da parte dell’Unione europea, i così detti euro-bonds, è stata per anni oggetto del dibattito politico. L’opposizione di alcuni Stati a tale progetto è stata generalmente giustificata invocando l’art. 125 del TFUE, la cosiddetta “clausola di non salvataggio”, che proibisce all’Unione e agli Stati membri di farsi carico di impegni finanziari di altri Stati.
Tale proibizione non è, tuttavia, assoluta. La Corte di giustizia, nella sentenza Pringle, ha indicato che l’art. 125 non vieta qualsiasi forma di assistenza finanziaria ma solo quelle che possano far venir meno «lo stimolo dello Stato membro beneficiario di tale assistenza a condurre una politica di bilancio virtuosa». Ci si può certamente chiedere se una forma di mutualizzazione del debito pregresso di uno Stato membro possa indurre tale Stato a continuare a praticare politiche di bilancio poco virtuose. Ma certamente non sarebbe questo il caso di titoli di debito adottati per far fronte ad una emergenza come quella del Covid-19.
L’art. 125 TFUE, inoltre, consente di derogare al divieto di assistenza e di prestare «garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico». Tale deroga può essere applicata a programmi specifici, quali, ad esempio, il finanziamento delle spese sanitarie per far fronte alla pandemia, ovvero per ridurne le conseguenze sul piano occupazionale. L’esistenza di un finanziamento specifico da parte degli Stati membri costituirebbe una garanzia sufficiente per evitare l’azzardo morale, come indicato dalla Corte di giustizia in Pringle.
L’art. 125 va, inoltre, letto insieme all’art. 122, par. 2, il quale consente l’assistenza diretta da parte dell’Unione a favore dell’economia di singoli Stati membri colpiti da calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al loro controllo. Se l’art. 122 consente all’Unione, a queste condizioni, di assistere un singolo Stato, a maggior ragione dovrebbe consentire una assistenza indiretta nella forma di un programma di emissione di obbligazioni europee garantite da un fondo finanziato dagli Stati.
L’art. 122, par. 2, può essere attivato molto rapidamente, in quanto prevede l’adozione del solo Consiglio a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione. Ma qualora tutto questo non bastasse, vi si potrebbe aggiungere l’art. 352 TFUE, la celebre clausola di flessibilità, la quale sarebbe politicamente più accettabile in quanto prevede il voto unanime del Consiglio, previa approvazione del Parlamento europeo.
L’esigenza di unanimità in Consiglio non dovrebbe costituire un ostacolo, qualora a tale azione partecipino solo gli Stati favorevoli all’emissione dei Covid-bonds. Questo è proprio uno di quei casi in cui l’utilizzo della modalità della cooperazione rafforzata presenta dei vantaggi. Il Consiglio, a formazione generale, dovrebbe solo autorizzare l’azione con voto a maggioranza. Ad essa gli Stati partecipano su base volontaria; le spese del finanziamento sono solo a carico degli Stati che vi partecipano; gli altri Stati potranno aggiungersi in qualsiasi momento.
Carmelo Cedrone è il Coordinatore del Laboratorio Europa dell’Eurispes