Tutti si domandano qual era la posta in gioco al vertice europeo del 23 aprile. La risposta è semplice. Erano in discussione due questioni: la creazione di un Fondo per la ripresa e di un debito europeo, attraverso l’emissione di Covid-Bond, cioè la possibilità di emettere obbligazioni europee, visto che abbiamo una moneta unica ed una Banca Centrale, anche se zoppa. Che cosa è avvenuto veramente? Che cosa è stato approvato? I giornali si sono sbizzarriti e si sbizzarriscono nelle risposte, nelle supposizioni, nelle valutazioni. La politica, come sempre, si è divisa tra i “positivisti” ed i “negazionisti”, non solo in Italia.
Due cose al momento sono chiare. Sì alla costituzione di un Fondo per la Ripresa. No agli Eurobond, cioè alle obbligazioni per un debito europeo. Sì al rinvio di qualunque decisione concreta. Tutto come avevamo previsto. Dato che non è ancora chiaro l’entità della crisi economica e come questa colpirà i vari paesi, l’Unione (meglio la Germania) ha preferito non decidere nulla e posticipare ogni decisione, come sta facendo dal 2008 sulle questioni più importanti. Perciò le proposte che la Commissione preparerà, quelle che il Consiglio approverà dipenderanno dall’entità della crisi che colpirà la Germania e dalla capacità del fronte opposto di tenere la posizione sulla condivisione del debito per il Coronavirus.
Se la crisi sarà forte, forse la Merkel riuscirà a far digerire al suo paese qualche forma di “mutualizzazione” tramite il QFP, quadro finanziario pluriennale dell’Ue, per proteggere al meglio il suo sistema economico, sociale ed in particolare quello bancario, sovraccarico di debiti.
Serve a poco cimentarsi sulle varie ipotesi alle quali la Commissione potrebbe ricorrere. Sbizzarrirsi sui tecnicismi e sugli strumenti istituzionali che si potrebbero utilizzare. Piuttosto, prima dobbiamo sapere quali sono i provvedimenti che non servono, perché inutili o dannosi: no ad altro debito fatto a Bruxelles per conto degli Stati; no ad altre condizionalità; no ad una distribuzione degli aiuti in parti uguali; no a piccoli aiuti o all’elemosina; no alla tattica del rinvio continuo, in attesa che muoiano altre persone e chiudano altre imprese. Vediamo, invece, quello che serve in un’occasione come questa, quello che il Fondo per la ripresa dovrebbe fare, per le ragioni che abbiamo più volte spiegato:
1) emettere obbligazioni comuni per l’Eurozona, per una mutualizzazione del debito tra paesi che ne condividono le finalità;
2) escludere finanziamenti o garanzie da parte dei paesi;
3) avere una capacità di intervento elevata, almeno 2.000 mld di euro;
4) fornire aiuti a fondo perduto o trasferimenti, non debiti a carico dei paesi;
5) distribuire gli aiuti in base ai danni ricevuti da ciascun paese, a causa del Coronavirus.
Il vero problema è fornire liquidità in tempi certi e nella quantità sufficiente a coprire gli investimenti per la ripresa con i relativi costi sociali, riassorbendo o riconvertendo il debito nazionale ‒ sostenuto per il Coronavirus ‒ in debito europeo. Ad oggi, c’è il rischio, anzi la certezza, di dover sommare l’indebitamento diretto dei paesi con quello proveniente dall’Unione, sebbene con un tasso di interesse più basso. Porterebbe al risparmio di un miliardo appena. Un ruolo ancora più importante può essere svolto anche dalla BCE, come pagatore di ultima istanza, qualora si rendesse necessario per bloccare la speculazione sul debito dei paesi più a rischio.
Da quanto sta avvenendo in sede comunitaria si ha l’impressione che tutto continui come in passato; che non ci siano le condizioni per procedere uniti verso un accordo solidale. Un accordo che faccia prevalere la politica sulla contabilità, la solidarietà vera sugli egoismi del più forte contro i più deboli, in contrasto con quanto previsto dal Trattato. Comunque, non è tempo per recriminare. È bene, però, aver chiaro i termini del problema ‒ un vecchio problema ‒ che ormai dobbiamo affrontare. Continuare a ignorarlo, a fingere che non esista, servirà solo a produrre altri danni a tutti, in particolare all’idea di un’Europa che pensavamo di dover realizzare, ormai da 70 anni. Ognuno si assuma le proprie responsabilità. L’Unione, quella politica, deve procedere con chi ci sta. Non può vivere sempre sotto il ricatto della paura, la paura del peggio. Né si può pensare di “stare dentro” l’Unione solo per i benefici che se ne possono trarre e non per tutelare le persone, le uniche sotto scacco in questa occasione. Alcuni paesi hanno sempre difeso i loro interessi molto bene, meglio di altri. Non solo con la costruzione dell’Eurozona. Basta ripercorrere le vicende della crisi precedente per convincersene. Vicende che non vanno dimenticate. Bisogna prestare molta attenzione in questa fase. Non accontentarsi delle promesse, come sembra sia avvenuto nell’ultimo vertice, col rischio che il Paese, insieme all’Unione, paghi un ulteriore prezzo, ancora più salato di quelli precedenti. L’Italia troppe volte è stata distratta, senza valutare con la dovuta attenzione tutte le conseguenze delle decisioni prese a Bruxelles. Non possiamo permetterci lo stesso errore anche adesso, per timore di rompere, presentandoci col cappello in mano, come il fratello povero, pur essendo tra i paesi più ricchi al mondo. Bisogna uscire da questo angolo. Il problema vero non è quello di reperire più fondi, italiani o europei che siano, perché in Italia la ricchezza c’è, quanto piuttosto avere la capacità di spenderli. La capacità di farli arrivare rapidamente a destinazione. Lo spettacolo che stiamo offrendo in questi giorni non sempre è dei migliori. Abbiamo però le risorse e la capacità per venirne fuori, se la politica non pone ostacoli, anzi se libera il Paese dai lacci che lo tengono prigioniero.
*Carmelo Cedrone è il coordinatore del Laboratorio Europa dell’Eurispes