Il consumo è grammatica della vita. Le scelte che facciamo ogni giorno, dagli scaffali alle bancarelle, passando, ovviamente, per la Rete, raccontano un po’ di noi: chi siamo, chi vorremmo essere, cosa riteniamo buono e utile, e che cosa no.
Va ricordato e premesso, però, che i consumi sono innanzitutto un pilastro dell’economia: in Italia, per esempio, essi rappresentano stabilmente poco meno dell’80% del Prodotto interno lordo.
Appare limpida, di conseguenza, la ragione per la quale politici ed economisti, nessuno escluso, si affannino a trovare soluzioni per “far ripartire i consumi” nel Paese: se i consumi marciano, l’economia si muove – e viceversa. E così ecco le varie trovate politiche, pensate e lanciate per cercare di sostenere la spesa delle famiglie, in duri tempi di vincoli di bilancio, stagnazione e tasse elevate. Due esempi? Il primo è una campagna pubblicitaria – si chiamava “Grazie” lo spot con il quale il governo Berlusconi cercava di diffondere il messaggio che gli acquisti fanno bene all’economia; il secondo, i contributi diretti alle fasce (sulla carta) più povere: dagli 80 euro del governo Renzi, al reddito di cittadinanza dell’attuale.
Ci si inventa di tutto, insomma, ma poi? Poi, in un bel giorno di maggio, ti arriva un Rapporto di Confesercenti che dice che, nonostante tutti gli sforzi e le buone intenzioni, no, non ci si è riusciti: la spesa delle famiglie sarebbe calata, fra il 2011 e il 2018, di ben sessanta miliardi di euro. La spesa media annuale, stimata per ogni nucleo familiare, insomma, sarebbe diminuita dai 30.781.000 euro del 2011 agli 28.251.000 attuali. Quasi il dieci percento in meno. Che diventerà ancora maggiore nel caso in cui il Governo Conte fosse costretto ad alzare l’Iva, di qui a una manciata di mesi.
E allora tanti saluti a tutte le trovate fantasiose per gonfiare uno più “zero-virgola-qualcosa”: i consumi si riprenderanno quando crescerà il monte retribuzioni, punto e a capo – e questa è tutta un’altra partita, di ben altro rango, che chiama in causa fiscalità, produttività, innovazione, apertura internazionale.
Questa una faccia, quella macroeconomica, del fenomeno. Ma ce n’è un’altra, altrettanto interessante e, certamente, molto rilevante: si tratta di guardare che cosa ci sia dentro, quei circa ventottomila euro l’anno. In economia si parla, al riguardo, di “modello di consumo”. Si tratta del modo in cui quella spesa viene distribuita fra le varie categorie di prodotti, beni e servizi. È un concetto importante, racconta dello stato di avanzamento di un sistema socioe-conomico: dove la spesa alimentare è preponderante sul totale consumi, ad esempio, siamo in presenza di un sistema povero. Il modello di consumo consente anche di effettuare analisi e comparazioni fra culture differenti: noi italiani, ad esempio, spendiamo relativamente più dei tedeschi in abbigliamento e meno di loro in automobili.
Guardare dentro ai consumi, in senso più interpretativo, fa emergere anche delle tendenze, disegna silhouette e conferisce tridimensionalità a ogni rappresentazione dello stato di un paese, travalicando la sola economia.
Da questa prospettiva, alcune categorie di consumo dicono di più, altre di meno. Prendiamo, ad esempio, il caso dei giochi a premio con vincita in denaro. La loro crescita racconta, sì, un paese in difficoltà economica congiunturale, ma, a ben vedere, dice anche dell’altro: mostra dei cittadini poveri di conoscenza, inconsapevoli della bassissima probabilità di vincita, piuttosto immaturi e inclini a scorciatoie e promesse suadenti, più che a darci dentro nel fare.
Ancora più parlante, poi, è la lettura dei consumi alimentari: il modo in cui una collettività mangia e beve, il suo rapporto emozionale e concettuale con i cibi, è una questione caratterizzante. Un popolo, ogni popolo, è anche ciò che mangia, come lo mangia, il peso ponderale che riconosce al mangiare. Non si tratta di dire che cosa piaccia oppure no. Qui si tratta di estrarre dai dati di comportamento alimentare un qualche profilo descrittivo della gente di un paese.
Secondo IRI, una società che si occupa di misurare le vendite di molti prodotti di consumo, gli alimenti che in Italia stanno crescendo di più negli ultimi anni sono quelli legati all’orientamento alla salute e al benessere: integratori alimentari, prodotti “senza” (senza glutine, lattosio, eccetera) prodotti “con” (con omega 3, fermenti lattici vivi, eccetera), biologici, vegani e integrali.
Il boom degli acquisti dei prodotti “speciali” era stato evidenziato anche dai risultati del sondaggio del Rapporto Italia 2019 dell’Eurispes: quasi un quinto (19,3%) della popolazione dichiara di acquistare alimenti privi di glutine; il 18,6% compra prodotti senza lievito; una quarto degli intervistati (26%) acquista prodotti senza lattosio. Inoltre, il 10,5% degli italiani fa abitualmente uso degli integratori alimentari.
Un paese più attento all’impatto dei cibi sulla salute, quindi, che saggiamente previene patologie curandosi con un’alimentazione corretta: questa una lettura benevola del dato. Di contro, tuttavia, si potrebbe estrarre da questi dati un significato dal tenore esattamente opposto. Emergerebbe, cioè, il profilo di un paese popolato di malati immaginari, che non hanno un rapporto sereno con il cibo e travasano su di esso il vuoto esistenziale e valoriale che sembra contraddistinguere la contemporaneità. O ancora, si potrebbero assumere questi dati come ulteriore segno di una popolazione che, invecchiando, rivolge sempre maggiori attenzioni a se stessa, occupandosi della ineluttabile fragilità che il peso degli anni infligge ai propri corpi.
Forse c’è del vero in tutte e tre le letture. Forse, per ragionare sulla ripartenza dei consumi, bisognerebbe interrogarsi su quale parte di quei ventottomila euro annui sia in sofferenza e perché: se e quanto dipenda da fattori demografici, come il fatto che i vecchi spendono meno dei giovani; se e quanto da fattori fiscali, come il fatto che le imposte sui consumi affliggono di più chi ha una maggiore propensione media e marginale al consumo; se e quanto deprimere la scolarizzazione di un popolo, restringendone la visione esistenziale, sia stata una buona idea e via dicendo.
A problemi complessi, risposte complesse. Come disse Woody Allen quando, rientrato in casa, si trovò una bella ragazza ad attenderlo fra le lenzuola: qui ci vorrebbe uno pratico.