Il mondo dice “no al razzismo”, dopo la morte violenta di George Floyd

«Non respiro», è il grido di George Floyd, disteso a terra, mentre il poliziotto, il 25 maggio scorso a Minneapolis, gli preme forte il ginocchio sul collo. Lo fa per quasi 9 minuti, con energia e senza un motivo perché il tizio è già immobilizzato sull’asfalto e con le manette. Eppure, egli insiste, mantiene la pressione, sino a quando l’ultimo fiato dell’afroamericano è ricacciato in gola. È allora che smette di ripetere «I can’t breathe». Il povero nero muore soffocato sulla strada.
L’agente di polizia vìola spudoratamente la legge che deve far rispettare, agisce senza ritegno e sfacciatamente, ne è quasi orgoglioso davanti alle telecamere che lo riprendono. Alza lo sguardo, a lavoro finito, ed ha un’aria di compiacimento.
Non è la prima volta che la polizia americana è protagonista di atti di questo tipo. Violenti e ingiustificati contro i neri. E non solo verso di loro. Appena due giorni prima della morte di George Floyd, un altro afroamericano, Maurice Gordon, in New Jersey, viene crivellato da 6 colpi di pistola sparati da un agente che lo ha fermato per eccesso di velocità. La telecamera installata sulla macchina della polizia documenta la scena. L’uomo è finito fuori strada perché viaggia a forte velocità. L’agente gli intima di stare seduto nell’auto di servizio ad attendere il carro attrezzi, ma dopo 30 minuti quello scende: ne nasce una colluttazione, poi l’epilogo, la scarica di colpi contro il nero.

Il razzismo serpeggia in tutta società americana e non solo, la attraversa nel profondo, è alla base della più grave delle diseguaglianze sociali del paese, nonostante lo sbandieramento dei princìpi di libertà e giustizia. 30 grandi aree metropolitane, tra cui città come New York, Detroit, Philadelphia, Los Angeles, hanno un indice di segregazione razziale e scolastica superiore alla media nazionale stimata intorno allo 0,5 su un range 0 (completa integrazione) – 1 (completa segregazione). Lo attesa l’Ufficio censimento degli Stati Uniti, che calcola il dissimilarity index, ovvero la regolarità con cui due gruppi etnici (in questo caso, bianchi e neri) sono distribuiti sullo stesso territorio.
Impossibile disporre di numeri certi sulla violenza della polizia durante il suo lavoro. È difficile distinguere, in un territorio tanto vasto, i casi di omicidio volontario da quelli incolpevoli. Tuttavia, la privazione dei diritti e soprattutto la marginalizzazione sociale, più elevata per i neri rispetto a tutte le altre minoranze etniche, trovano un riscontro: negli Usa, secondo la rivista scientifica Plos One, un afroamericano disarmato ha 3,5 probabilità in più di un bianco di essere ucciso dalla polizia; in alcune contee addirittura 20 volte di più.
È nelle grandi città, dove i salari medi dei neri sono più bassi e maggiore è la popolazione di colore, che si nota una crescita della probabilità di morte ad opera della polizia. D’altra parte, non c’è rapporto diretto tra dato razziale e tasso di criminalità, ovvero non è vero che la polizia reagisca di più con le armi perché i neri commettono più reati.
Stavolta, forse, la presa al collo del poveretto disteso a terra sembra persino più forte ed oltraggiosa, ammesso che si possa fare una graduatoria a proposito di violenze. Scuote le coscienze, come non mai, suscita proteste e rivolte in molte città. Provoca adesione, con quel gesto simbolico, che si diffonde rapidamente dagli Usa in Europa, di mettersi in ginocchio, in memoria dell’uomo e ricordo di una tragedia inaccettabile. Purtroppo, genera anche violenze e saccheggi, reazioni inconsulte: le strade sono messe a ferro e fuoco, i negozi svuotati, le vetrine fracassate.
È un clima che Donald Trump riesce a rendere ancor più incandescente. Ci sarebbe bisogno di dialogo, di una visione generale capace di unire il paese dopo l’episodio di sangue, di non voltar le spalle davanti ad una tragedia inquietante per la convivenza civile; di avviare una riflessione seria sui metodi della polizia.
Al contrario, il Presidente a gamba tesa contrasta il sentimento generale, fa leva sui rancori e sulle divisioni, per galvanizzare la parte più influenzabile del paese, in vista delle elezioni presidenziali del novembre prossimo. Anche in questa occasione, alimenta tesi complottiste, strumentalizzando le proteste e le violenze di strada, qualificandole come provocazione per giustificare le misure forti e il ricorso all’esercito. Una visione a senso unico, che offende la sensibilità popolare.
Il povero nero, con quell’invocazione angosciosa quanto temeraria, chiedeva soltanto di respirare, cioè di vivere, niente altro, poi avrebbe risposto alla giustizia delle sue eventuali colpe. Pensava di trovarsi davanti ad uno Stato rispettoso dei diritti di tutti, come pure assicura la Costituzione del suo paese.
Non poteva immaginare che l’uomo in divisa, con la stella sul petto, gli fosse nemico, solo a motivo del colore della pelle. Sperava che bastassero quelle parole spontanee, «non respiro più», un’imprecazione accorata, perché l’agente capisse e interrompesse la manovra inutile e pericolosa. Si illudeva di poter ancora respirare l’aria buona di un sogno: la fine delle discriminazioni razziali. «Dobbiamo imparare a vivere come fratelli», diceva accorato Martin Luther King.

* Angelo Perrone, giurista, è stato pubblico ministero e giudice. Cura percorsi professionali formativi, si interessa prevalentemente di diritto penale, politiche per la giustizia, diritti civili e gestione delle Istituzioni. Autore di saggi, articoli e monografie. Ha collaborato e collabora con testate cartacee (La Nazione, Il Tirreno) e on line (La Voce di New York, Critica Liberale). Ha fondato e dirige Pagine letterarie, rivista on line di cultura, arte, fotografia.

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