I big data sono la nuova, vera, ricchezza dell’economia globale. Perché le informazioni sono denaro. Ma quanto valgono davvero questi dati? E quanto vale ciascuno di noi che regala opinioni, desideri, foto e commenti, alle multinazionali del web?
Secondo quanto rilevato dal quotidiano britannico The Independent (che riprende i dati di una ricerca effettuata dalla società Money Guru), sul dark web, i dati personali degli utenti, ottenuti dopo l’attacco hacker a Facebook dello scorso mese di settembre, vengono ora offerti al miglior acquirente a prezzi compresi tra un minimo di 3 a un massimo di 12 dollari. L’attacco informatico ha messo a rischio più di 50 milioni di profili e i dati “trafugati” potrebbero essere utilizzati per commettere furti di identità o per ricattare gli utenti.
Ed è proprio la riservatezza dei dati che li rende appetibili ai cyber criminali, i quali mettono in vendita (rigorosamente in bitcoin per non essere tracciati) tali informazioni sul mercato nero. Solo per il recente furto a Facebook, ai prezzi indicati, il valore dei dati rubati sarebbe quindi compreso tra 150 e 600 milioni di dollari. Il problema del valore dei big data non riguarda però solo le azioni criminali, ma anche l’economia legale. L’acquisizione dei big data può infatti avvenire con diverse modalità lecite:
accedendo ad API (Application Programming Interface) messe a disposizione dai servizi web, grazie alle quali è possibile interfacciarsi ad essi per esaminarne i contenuti;
utilizzando software di web scraping, che eseguono operazioni di estrazione per la raccolta automatica di dati da documenti presenti in Internet;
importando i dati da database con strumenti già usati per la movimentazione di dati in sistemi di Data Warehousing;
leggendo flussi continui di dati tramite sistemi capaci di catturare eventi, elaborarli e salvarli in modo efficiente su un database.
Su questi dati vengono poi eseguite ulteriori operazioni di processing, il cui scopo è filtrare i dati da informazioni ridondanti, inaccurate o incomplete. Quando parliamo di big data, del resto, ci si riferisce quasi sempre a dati sensibili: informazioni sull’età, sul sesso, le preferenze e i desideri di acquisto, ma anche la posizione attuale, le abitudini, i viaggi, etc. Ogni volta che usiamo lo smartphone, realizziamo una certa quantità di dati. E tutti questi dati vengono intercettati tramite i sensori installati negli smartphone, ma anche attraverso le ricerche che effettuiamo ogni giorno per ottenere informazioni da Internet. E, oltre allo smartphone, vanno presi in considerazione i tablet, i computer, ma anche le carte di credito, le carte fedeltà e i social network. L’esempio più rilevante di utilizzo dei big data riguarda però la sfera del marketing. Quando andiamo su Amazon, ma anche su eBay, Netflix o YouTube, le proposte mostrate dai banner sembrano rivolte proprio a noi e ai nostri gusti; e non si tratta di una coincidenza.
Nel campo del marketing i big data servono infatti a profilare, permettendo di proporre in modo mirato prodotti o servizi sulla base di necessità o preferenze personali. I big data possono, dunque, essere raccolti, aggregati, analizzati, profilati, trasmessi e rivenduti e sono la nuova, vera, ricchezza dell’economia globale. Le informazioni, del resto, come noto, sono denaro. E conoscere le abitudini dei consumatori è quindi oggi un “asset” fondamentale per tutte le aziende. Ma quanto valgono davvero questi dati? Il Financial Times ha provato a rispondere alla domanda, pubblicando sul proprio sito un sistema in grado di calcolare, rispondendo a una serie di domande inerenti il proprio status (dai beni posseduti, agli hobby, passando per malattie croniche e stato familiare), il valore commerciale di ogni singolo profilo. Un interessante studio del Wall Street Journal ha poi stabilito che ciascuno di noi vale per Facebook 80,95 dollari, i nostri amici 0,72$ ciascuno e la nostra pagina completa quasi 1.800$. Quando si dice quindi che le multinazionali del web (le principali estrattrici, utilizzatrici e venditrici di big data) devono essere tassate laddove vendono i loro prodotti, bisogna riflettere in ordine al fatto che i cittadini italiani non sono solo clienti, ma sono loro stessi il “prodotto”.
I cittadini italiani cedono dunque gratis la loro vita privata a multinazionali che ci fanno un sacco di soldi, senza neppure pagarci le tasse: un insieme di paradossi. Ed un altro paradosso è che oggi questo è anche legale, perché cedere gratis un prodotto che subito dopo vale un sacco di soldi è possibile grazie al fatto che siamo noi stessi ad aver firmato termini e condizioni contrattuali che tale cessione gratis consentono. E di tutta questa realtà cosa intercetta il fisco…? Praticamente niente.