Non è questo il luogo per rifare la storia dell’immigrazione nel nostro Paese sulla quale, peraltro, sono stati scritti migliaia di volumi ed articoli, ma lo è certamente per segnalare insieme alla superficialità dei nostri mezzi di informazione, la pochezza di parti consistenti della nostra classe politica che alimenta strumentalmente sentimenti di paura e di odio nei confronti degli immigrati. E tutto ciò senza riflettere sul fatto che l’Italia è uno dei paesi che, proprio per la sua storia recente e meno recente, dovrebbe avere sul tema dell’immigrazione un atteggiamento di maggior comprensione e partecipazione.
Forse sarebbe ora che i media italiani spendessero un po’ di tempo e spazio per raccontare agli italiani la storia dei luoghi dai quali provengono gli immigrati e quella delle responsabilità dei paesi occidentali. Dovrebbero raccontare la vicenda del colonialismo e i percorsi delle diverse forme di neo-colonialismo che sottraggono ai paesi africani quel che era rimasto in quei territori.
Il colonialismo era per certi aspetti più umano del neo-colonialismo. Prendeva ma lasciava comunque qualcosa nei territori che occupava: strade, ospedali, case, scuole, dovendo comunque garantire una dignitosa qualità della vita nello stesso tempo ad “occupanti” ed “occupati”. Infrastrutture che, sia pure con le limitazioni del caso, potevano essere utilizzate dalle popolazioni locali.
Comunque, una volta raggiunta l’indipendenza, quelle opere e quelle infrastrutture restavano nella disponibilità dei governi e delle popolazioni. Si trattava, in buona sostanza, di un colonialismo economico.
Il neo-colonialismo è di tipo finanziario e sostanzialmente predatorio, che rapina senza dare niente in cambio. Basti pensare alla pratica del land grabbing e ai metodi subdoli e ambigui attraverso i quali si esprime l’accaparramento dei terreni agricoli e delle risorse idriche da parte di investitori e settori finanziari occidentali, o direttamente di Stati o fondi sovrani.
È un fenomeno recente esploso con i rincari dei generi alimentari di base a metà del primo decennio del nuovo secolo, ma la cui estensione ha conquistato ad oggi circa il 4% dell’intera superficie del territorio agricolo coltivato nel mondo: sessantasei milioni di ettari.
Negazione dei tradizionali diritti di proprietà, espropri, esodi di intere popolazioni, sfruttamento eccessivo delle risorse naturali e, in primo luogo, dell’oro blu (l’acqua), corruzione delle classi dirigenti locali, militarizzazione delle aree interessate dagli investimenti, fomentazione di scontri e guerre tribali o religiose.
Scrive Michele Di Salvo [2016] ne il suo La guerra d’Africa: «Le multinazionali concludono contratti di locazione pluriennali ad un prezzo medio che in Africa attualmente va da uno sino a un massimo di due dollari di canone per ettaro l’anno e comprende tutta l’acqua necessaria che l’investitore è capace di estrarre».
Le aree interessate dal land grabbing e destinate a coltivazioni intensive vengono di fatto spopolate e gli abitanti obbligati all’inurbamento forzato. Centinaia di migliaia di africani sono costretti a trasferirsi nelle bidonville alla periferia dei grandi centri urbani e, successivamente, ad alimentare i flussi di emigrazione gestiti dalle organizzazioni criminali.
In conclusione, sfruttati in patria, derubati, torturati e violentati durante il tragitto verso l’Europa, malamente accolti e discriminati nei paesi cosiddetti “civili”, quegli stessi che ne provocano l’impoverimento.
Tutto questo rende quantomeno poco comprensibile l’atteggiamento di chiusura che l’Europa mostra oggi. Si alzano muri e si erigono barriere, si adottano misure restrittive, si intensificano i controlli e le difese. Si usa come giustificazione una presunta necessità di proteggersi e di difendersi in parte nei confronti del terrorismo e in parte con la necessità di tutelare il proprio livello di benessere, o, di preservare l’identità e i valori etici e religiosi.
Argomenti che hanno, come la cronaca recente dimostra, larga e facile presa nelle opinioni pubbliche dei diversi Paesi, già duramente provati dalla lunga crisi economica e dal susseguirsi di attentati terroristici in diverse città europee.
In ogni caso, mentre le motivazioni di carattere economico appaiono fragili, se non del tutto inconsistenti, qualche fondamento lo hanno quelle ispirate alla difesa identitaria.
Nei decenni passati l’Europa ha assorbito milioni di immigrati che in gran parte provenivano dagli stessi Paesi europei o dalle ex colonie, mentre i migranti di oggi provengono da Paesi extra europei e sono quindi portatori di altre culture e di altri valori. In qualche modo, ciò che ci spaventa o nel migliore dei casi ci mette a disagio è il problema di doverci confrontare con “l’altro da noi”, con il dover gestire la complessità e la multiculturalità, col vedere le nostre città trasformarsi in chiave multietnica e multirazziale. E si tarda a capire che ci troviamo di fronte ad un fenomeno irreversibile provocato dai processi, incontenibili, della globalizzazione.
Abbiamo sposato con entusiasmo i vantaggi della globalizzazione sul piano economico, sulla libera circolazione delle merci e del denaro, ma non riusciamo ancora ad accettare l’idea della libera circolazione delle persone. Dunque, le motivazioni e le paure di carattere economico sono del tutto fragili poiché, se si dovesse mettere a punto una seria analisi costi-benefici, questi ultimi sarebbero ben superiori ai primi.
Su questo tema vale la pena di ricordare ciò che il cancelliere tedesco Helmut Kohl disse di fronte al Bundestag nel 1992 denunciando i neonazisti che si erano resi protagonisti di un’aggressione nei confronti di immigrati turchi: «Germania basta, gli stranieri ti fanno ricca» e continuò «(…) questi ottusi xenofobi che gridano “fuori gli stranieri”, dovrebbero sapere che senza il lavoro di 6 milioni di stranieri, sarebbe ben difficile per i cittadini tedeschi, poter continuare a godere del loro benessere.
Ogni anno gli immigrati contribuiscono con il 9% del Pil tedesco e versano nelle casse dello Stato 25 miliardi di marchi. Senza di loro chiuderebbero campi, ospedali, fabbriche, servizi essenziali per le famiglie e le città». E, solo per citare qualche dato che ci riguarda più da vicino, gli stranieri regolari residenti in Italia sono poco più di 5 milioni e producono l’8,8% del nostro Pil (circa 127 miliardi).
Gli immigrati regolari versano nelle casse dell’Inps 8 miliardi di euro e ne ricevono solo 3 in pensioni. E, spesso, danno lavoro agli stessi italiani. Colmano inoltre gli effetti negativi ‒ in particolare nel mondo del lavoro ‒ del drammatico processo di denatalità del nostro Paese: l’Italia, infatti, insieme al Giappone, è tra i paesi dove si fanno meno figli e dove il tasso di invecchiamento è ai livelli più alti.
È una delle conseguenze, ad esempio, della grande precarietà diffusa soprattutto nel mondo giovanile, un altro grave fenomeno strutturale del nostro tempo, che porta i giovani a modificare i propri progetti di vita. Ovvero, ancora peggio, a cancellarli del tutto, e con essi, a ridimensionare l’idea di formare una famiglia e di fare figli.