La democrazia americana in ostaggio

L’America, nonostante le crepe del meccanismo elettorale, alla fine mostra di farcela. Il sistema tiene nella sua prova più difficile, una buona notizia per lei, e per le democrazie occidentali. Però, a questa storia, non è ancora scritta la parola fine, Donald Trump continua a non accettare la sconfitta. Siamo dunque in mezzo al guado, e quello da percorrere è un tratto incognito e mai sperimentato. La Casa Bianca ostaggio del suo stesso presidente? Da qui al 20 gennaio, data d’insediamento del nuovo presidente, la transizione sarà infuocata.

In un paese spaccato a metà, attraversato da tensioni sociali irrisolte, sottoposto negli ultimi quattro anni a continuo stress da Donald Trump, in cui il numero delle armi a giro è più alto di quello della popolazione, nulla è scontato. Soprattutto dopo che lo stesso rito laico delle elezioni – fondante la vita democratica del paese – è contestato, dal suo stesso presidente, nella legittimità e credibilità del suo svolgimento.

A rendere complicato il momento non sono le accuse di brogli, pure importanti. Sorprendenti in un paese di antiche tradizioni, comunque un affare da esaminare con serietà. Solo che, sparse a raffica da Trump e dal suo team di legali d’assalto là dove il voto è contrario, appaiono pretestuose, dettate dall’interesse a contrastare la vittoria di Joe Biden e non da ragioni di verità. Comunque non provate, e già giudicate infondate da osservatori internazionali.

A destare inquietudine, è l’incredibile presupposto di tutto il “ragionamento”, se così possiamo definirlo trattandosi di Donald Trump, per giustificare il rifiuto di riconoscere la vittoria dell’avversario: considerare validi solo i voti favorevoli, non quelli contrari. E il possibile seguito: la minaccia di contrastare l’esito del voto. Come, con quali mezzi? Si avvicina la prospettiva di una Casa Bianca trasformata in avamposto del vecchio West contro l’assalto degli incivili aggressori?

In questa prima fase post voto, le proteste (tutto sommato contenute e pacifiche) dei seguaci dell’irriducibile presidente ancora in carica, «È tutto un furto», asserragliato tra il fortino bianco di Washington e i campi da golf in Virginia, si sommano alle scene di giubilo nelle grandi città: brindisi, balli ed allegria, gente che ha votato una persona seria come Joe Biden e si sente sollevata di averla scampata grossa: altri quattro anni di amministrazione Trump.

Non c’è dubbio che la democrazia americana stia dando una prova insieme di forza e fragilità, la prima riflesso della seconda, emerge a confronto proprio con i punti più critici. È stato detto, a ragione (Sabino Cassese), che un merito della presidenza Trump è stato quello di aver messo a nudo proprio le debolezze del sistema. Almeno questo. Sia chiaro: sono aspetti messi in evidenza dal caleidoscopico presidente non certo allo scopo di correggerli. Semmai, per estremizzarli e usarli come grimaldelli.

Nessuno come lui aveva sin qui contestato – in modo plateale e persino farsesco – il meccanismo del voto postale, che consente di votare senza recarsi al seggio: utile in tempi di pandemia e perciò in sintonia con gli orientamenti democratici (più che repubblicani), attenti ai rischi, e poco propensi a recarsi di persona ai seggi. Per questo motivo il presidente li ha contestati già prima del voto, con iniziative legali però senza successo.

Il voto postale è un lascito della guerra civile americana, quando si ricorse alla posta per far votare i soldati che combattevano lontano. Oggi – ai tempi di Internet – dobbiamo riconoscere che forse oggi sono proprio i tradizionali postini, figure così retrò, a salvare la democrazia permettendo a tanti (soprattutto democratici sostenitori di Biden) di esprimere la preferenza e impedendo ad uno come Trump di continuare a governare la più grande democrazia del mondo.

Tuttavia, ciò non toglie che il sistema si sia mostrato farraginoso e lento, tanto da sembrare persino manipolabile, come furbescamente Trump ha subito fatto credere. Non si fa una gran figura se è impossibile conoscere il vincitore una volta chiuse le urna, ed occorre star lì a conteggiare le schede in arrivo. Un buon motivo per parlare di brogli allora? No, ma rimane il dilemma imbarazzante: perché una procedura così tortuosa e lunga?

Trump non ha mancato di far leva, come nessuno prima, su un altro anello debole del sistema: la possibile divergenza tra voto popolare e scelta dei grandi elettori. Gli americani non votano direttamente il presidente, ma scelgono i “grandi elettori” di ciascuno Stato che poi lo voteranno. La conseguenza importante è che i candidati, per farcela, devono ottenere il consenso del maggior numero di Stati piuttosto che essere i più votati dai cittadini.

Il voto popolare può non corrispondere al risultato finale: accade di diventare presidente senza essere il più votato, anzi avendo riportato meno voti popolari dello sconfitto. È il caso di Hillary Clinton, non l’unico, contro Donald Trump nel 2016. Si tratta di un meccanismo apparentemente ingiusto, dettato da nobili intenti: lo scopo (liberale) di contrastare la “tirannide della maggioranza” (come sostenevano John Adams e Alexis De Tocqueville), cioè la prevalenza degli Stati maggiori. Si immagina un contrappeso a favore delle minoranze, gli Stati meno abitati, per consentire a tutti di contare. Nessun perdente ha mai protestato per questo, infatti Hilary Clintonsi è ritirata dalla scena nonostante fosse stata vittima dell’“ingiustizia”.

Ora, ci ha pensato Trump a insinuarsi in una diatriba costituzionale di cui certo sconosce i termini avendo fiutato il vantaggio. Spicci, grossolani e distorti, i suoi concetti. Ma aizzano folle plaudenti. Per lui hanno votato almeno 3 milioni e mezzo di americani più dell’ultima volta (vero, ma è aumentato il numero totale dei votanti e anche Joe Biden ha preso più voti di Hillary Clinton), tanto basta e avanza: non importa quanti sono i grandi elettori. È lui il vincitore, Biden un usurpatore. Resta il fatto che il sistema elettorale mostra evidenti crepe, spazi per strumentalizzazioni.

I dubbi sulla pericolosità delle mosse di Trump sono amplificati dalla constatazione che i poteri del presidente hanno subìto nel tempo una profonda evoluzione. Dalla nascita della federazione vi è stata una crescita ben oltre i propositi dei costituenti, e la stessa prassi iniziale. Una concentrazione di poteri apparentemente senza limiti ed incontrollabile, perciò pericolosa.

Il presidente americano è comandante in capo delle Forze armate, capo dello Stato federale e del governo, capo del partito che lo ha designato (quindi della sua rappresentanza parlamentare). Nomina (con il consenso del Senato nelle sue mani) sia i giudici federali che quelli della Corte Suprema, ponendo un’ipoteca sulle decisioni più importanti. Può emettere “ordini esecutivi”, ovvero leggi contenenti norme generali subito operative, senza passare dal congresso.

Gli ultimi quattro anni di presidenza hanno portato l’America sull’orlo del baratro: la politica estera, caratterizzata dalla rottura delle alleanze tradizionali (Europa) e dalle contrapposizioni diplomatiche ed economiche (Cina, Corea del Nord, i Paesi islamici); quella interna, incentrata su continui attacchi all’unità nazionale: un solco a dividere gli uni dagli altri, ad accentuare i conflitti sociali. Questioni delicate affrontate con la rudezza del colpo di piccone. Così la sicurezza prevale sulla legalità a dispetto delle brutalità contro i neri e le altre minoranze; il lavoro è preferito alla tutela della salute, nonostante la pandemia e i morti Covid. È la mitologia fuorviante dell’“America great again”, al posto della leadership in nome dei valori occidentali.

In questi anni troppo lunghi, è sembrato che non ci fosse nulla nel sistema capace di frenare Trump, correggerne le intemperanze, impedirne gli svarioni: in ogni momento poteva scoppiare un incendio dalle conseguenze devastanti per il mondo. I pompieri che, nella stessa amministrazione, hanno provato a spegnere i falò più pericolosi sono stati messi brutalmente alla porta, sostituiti in fretta da altri compiacenti, prima che anche costoro cadessero in disgrazia presso l’irascibile capo. È apparso un paese in bilico, senza contrappesi istituzionali. Questa la realtà?

Sono emerse numerose fragilità istituzionali ed è indubbio che i meccanismi concepiti tanti anni fa mostrano limiti. La Costituzione americana, modello di tutte le democrazie, risale al 1787. La legge elettorale è l’Electoral Count Act del 1887. Il testo fondativo, il più longevo con i suoi 233 anni di vita, è anche dotato di una straordinaria capacità di “resistere” ad ogni innovazione pur indispensabile dato lo scorrere del tempo: quando fu elaborato, c’erano 13 milioni di abitanti (e 2 milioni di schiavi), oggi la popolazione è 25 volte di più.

È riuscita, quella Costituzione, a persistere nonostante 10.000 emendamenti proposti; soltanto 27 sono stati approvati; le procedure troppo complicate e scoraggianti. Un atteggiamento conservatore è assai diffuso nel diritto e nella società. Molti giudici della Corte Suprema (come la nuova nominata da Trump, Amy Coney Barrett) si vantano di seguire un’interpretazione rigorosamente testuale delle norme, per essere aderenti al loro spirito originario, che era però quello adatto ad una società diversa dall’attuale.

Tra i princìpi immutabili, certo il fascinoso diritto alla felicità, ma anche quello più banale e pericoloso di possedere armi in quantità, secondo una concezione individualistica, che invece, nelle accezioni riguardanti non la sicurezza ma l’economia e la cultura, ha pure fatto la fortuna del paese. Soprattutto, per quanto concerne la struttura statale, l’intangibilità della pena di morte, magari sospesa e rinviata ma non abolita espressamente: oggi percepita in tutto il mondo occidentale in contrasto con quel sentimento di civiltà che possiamo ben definire “di origine italiana” dopo la lezione di Cesare Beccaria.

Se Donald Trump è stato un problema per il suo paese, e lo è tuttora per il mondo intero, non si può tuttavia concludere che un modello di democrazia sia riducibile alla debolezza manifestata in questo periodo. Si può parlare di una prova difficile affrontata coraggiosamente perché il sistema, pur logorato dal tempo ed inadeguato, scosso nelle fondamenta dalla politica di Trump, mostra vitalità e forza.

Tra gli altri, in America emergono tre aspetti di contrasto alle degenerazioni, i primi due inerenti il sistema politico/elettorale, l’altro riguardante la società civile.

Il primo dato è la straordinaria partecipazione popolare alle ultime elezioni presidenziali: 170 milioni di persone, il 67% degli aventi diritto, una percentuale tra le più alte registrate nel mondo democratico. Non si tratta di un elemento solo retorico: la mobilitazione di un così gran numero di persone indica la partecipazione alle scelte fondamentali ed è un segnale della vigilanza esercitata sul comportamento di chi detiene il potere e ne ha la responsabilità.

Il secondo fattore politico deriva da una considerazione: anche di fronte a sollecitazioni estremiste/radicali emerge in America una “tendenza moderatrice” che è approccio ai problemi e modo di soluzione: attenua gli scontri, favorisce il dialogo, offre alternative di sistema alle spinte estremiste.

Per quanto sia difficile descrivere un mondo tanto diverso con gli schemi consueti, Trump ha monopolizzato la “destra” del paese, a partire dalla componente xenofoba, razzista, isolazionista, mentre, dall’altro lato, la “sinistra radicale”, alla Benny Sanders, è andata rafforzandosi. La fragilità di questa situazione contraddittoria, mal governata da norme superate, è tuttavia compensata da una sostanziale stabilità determinata dal fatto che la vita politica è sempre incentrata su due (soli) partiti, gli stessi quasi da sempre, capaci di coagulare e rappresentare orientamenti molto diversi.

C’è una condizione politica di stabilità che favorisce il raccordo delle idee e la collaborazione, sconosciuta in Europa dove invece proliferano partiti e partitini a servizio poco di nobili cause e molto delle ambizioni di potere. Non sono certo annullate le divergenze in questo modo, anzi. Probabilmente tra Sanders e Biden sono maggiori le differenze che tra Biden e qualche esponente moderato repubblicano.

Tuttavia, il neo presidente ha saputo coagulare orientamenti diversi del partito democratico, raccogliendo le istanze radicali e le sensibilità moderate, offrendone una sintesi di riformismo possibile, che ha persino fatto breccia nel campo avverso, tra i repubblicani centristi, quelli maggiormente preoccupati per le intemperanze di Trump.

La tendenza moderatrice opera tanto sugli orientamenti individuali quanto sullo stile della vita pubblica. Ha effetti doppiamente positivi. Il sistema elettorale americano si basa su un principio. Non è un rito, o un bel gesto d’altri tempi. Il perdente “concede la vittoria” al vincitore riconoscendo la sconfitta e facendogli gli auguri. Il vincitore lo ringrazia pubblicamente e invita tutti a lavorare uniti per il bene del paese.

Non è una sceneggiata per guadagnare applausi, e nemmeno generosità. Alla base ci sono i numeri duri della sconfitta o quelli leggeri della vittoria. Tuttavia, in tutto questo c’è anche un fair play che significa riconoscimento del limite di ogni battaglia politica. Ad un certo punto, dopo tante divergenze, ci si ferma, si dice basta. Accade quando le sorti del paese sono a rischio; proseguire nella lotta politica a tutti i costi significa danneggiare il paese. La contesa di 20 anni fa tra George Bush e Al Gore si arrestò non tanto perché la Corte Suprema dette ragione al primo sul conteggio dei voti, ma perché l’altro decise di non insistere per non gettare il paese nel disordine.

L’anomalia della situazione attuale è per l’appunto questa: Donald Trump, non riconoscendo la sconfitta e minacciando sfracelli, rifiuta questo principio cardine del sistema elettorale e per questo mette a rischio la democrazia. Ma è difficile che nella follia venga seguito da tutto il partito repubblicano. Improbabile che non emergano dissensi anche tra i fedelissimi: i legali sanno bene che i loro ricorsi hanno margini ristretti e persino i familiari sembra stiano facendo pressioni perché lui faccia un passo indietro. La tendenza moderatrice dunque tiene uniti i singoli partiti ma anche la nazione, prevenendo situazioni rischiose per la democrazia: proteste che degenerano in violenza.

Non è solo questo però: conta anche la “reazione equilibratrice” della società civile. I rapporti di Trump con la società civile sono stati conflittuali, basti pensare ai contrasti con gli scienziati a proposito del Covid, o a quelli con l’informazione riguardo alle inchieste sulle tasse non pagate, sui rapporti oscuri con la Russia e la Cina, sulle fake news diffuse in questi anni, sulla stessa ascesa al potere. Quel mondo non ha mai smesso di contrastare la deriva di comportamenti contrari al buon senso, alla conoscenza scientifica, alla moralità personale e politica; e non ha taciuto nemmeno in questi giorni.

Di recente, gli intervistatori delle più importanti reti (Nbc, Cbs, Abc, Cnn) hanno interrotto Trump che, a scrutini in corso e senza alcuna prova, lanciava accuse indiscriminate di brogli elettorali e minacciava di non riconoscere i voti avversi. Un comportamento inappuntabile dal punto di vista deontologico, e importante per la corretta comunicazione. Certamente, anche un contributo al rispetto delle regole di verità e correttezza istituzionale.

Un atteggiamento non facile e purtroppo raro da queste parti: difficilmente assistiamo a cose del genere in Europa. Di solito, il politico di turno non è interrotto se le sue affermazioni contrastano con la realtà accertata e documentata. Per rispetto di un malinteso diritto d’espressione, si consentono eccessi e si mistifica la libertà di pensiero.

Zittire Trump per l’infondatezza delle accuse, ritenere inammissibili questi atteggiamenti da parte del rappresentante della nazione (non è la prima volta, in altre Trump s’è alzato stizzito e se n’è andato) hanno un’importanza etica e civile: servono a disinnescare parole incendiarie, prima che aizzino la piazza.

Le reazioni costruttive della società civile e della politica sono le dimostrazioni di forza e vitalità che la democrazia americana sta offrendo in questo momento, nonostante sia alle prese con una delle peggiori prove della sua storia. Questi contrappesi al potere politico compensano la fragilità delle regole superate dai tempi, impediscono che la ruggine corroda i meccanismi. Permettono di affrontare più serenamente i rischi del momento, di fronteggiare meglio la spregiudicatezza di chi è deciso a sfruttare le debolezze del sistema per il proprio interesse.

Quando la Costituzione scritta accusa gli anni e presenta smagliature, è una fortuna che intervengano i meccanismi di salvaguardia delle democrazie liberali, gli strumenti che offrono i necessari contrappesi al potere costituito, indispensabili soprattutto quando questo minaccia di travalicare le ragioni per le quali è conferito dalla popolazione.

 

* Angelo Perrone, giurista, è stato pubblico ministero e giudice. Cura percorsi professionali formativi, si interessa prevalentemente di diritto penale, politiche per la giustizia, diritti civili e gestione delle istituzioni. Autore di saggi, articoli e monografie. Ha fondato e dirige Pagine letterarie, rivista on line di cultura, arte, fotografia.

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