In questi ultimi giorni si sentono, come ormai a dire il vero da tempo, commenti e discussioni su eventuali interventi di terra delle nostre Forze Armate. Per impostare però una discussione efficace su un tema tanto delicato non si può prescindere dal chiarire alcuni aspetti fondamentali di ordine giuridico. L’ordinamento italiano prevede infatti che, in caso di conflitti armati e nel corso delle operazioni di mantenimento e ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale, i comandanti delle Forze Armate vigilino sull’osservanza delle norme di diritto internazionale umanitario. Il titolo IV del libro III del Codice penale militare di guerra, contiene le norme dirette a punire le condotte contrarie al diritto internazionale umanitario. Ma in un tale contesto si applicherebbe il codice penale militare di guerra?
La legge penale militare si applica dal momento della dichiarazione dello stato di guerra, ma è previsto che possa essere anche applicata nello stato di pace, durante operazioni militari all’estero. L’art. 9 Codice penale militare di guerra prevede infatti, in particolare, che “sino alla entrata in vigore di una nuova legge organica sulla materia penale militare, sono soggetti alla legge penale di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all’estero per operazioni militari armate”. Il Codice penale militare di guerra ha trovato così applicazione in relazione alle missioni Enduring Freedom, Active Endeavour e ISAF in Afghanistan (2001) e a quella Antica Babilonia in Iraq (2003). Tuttavia, senza una riforma organica della materia, dapprima decreti-legge hanno derogato alla normativa che avrebbe dovuto utilizzarsi in caso di invio di corpi armati all’estero, dichiarando l’applicazione del Codice penale militare di pace. E poi, con la L. 274/2006, l’applicazione del Codice di pace è diventata la regola. La legge 4 agosto 2006, n. 274, ha infatti stabilito per tutte le missioni che impegnano contingenti italiani la vigenza del codice di pace.
In un tale contesto di incertezza normativa la scelta di intervenire con una riforma che introduca una normativa ad hoc per le missioni militari all’estero non sembra più rinviabile. Non procedervi conduce alla situazione in cui si rifiuta l’applicazione del codice di guerra, pur essendo questo l’unico strumento, in linea peraltro con le garanzie volute dal diritto umanitario di Ginevra, che potrebbe assicurare un’efficace tutela (non solo giuridica) ai soggetti impegnati nelle missioni. Il ricorso al codice penale militare di pace è infatti senz’altro inadeguato. Vincolati al Codice penale militare di pace (che, all’art. 41, autorizza l’uso delle armi per «respingere una violenza o vincere una resistenza»), i nostri Comandi all’estero hanno in passato avuto non pochi problemi. Al fine per esempio di assicurare una qualche tutela a chi agiva in teatri operativi e la buona riuscita della missione, sono state previste, nella legge di finanziamento delle missioni, specifiche “autorizzazioni alla detenzione”, o cause di non punibilità. In tal senso, ad esempio, l’introduzione all’art. 4, co. 1 sexies della L. 197/2009 di un’esplicita esimente per il militare che «in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini legittimamente impartiti, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari», laddove, addirittura, l’esimente finisce per avere il proprio fondamento non in una norma primaria di legge, ma in meri atti/provvedimenti amministrativi, quali devono essere considerate le direttive militari e le regole di ingaggio.
Le cosiddette regole di ingaggio (Rules of Engagement – RoE) sono infatti quel complesso di norme, etiche, legali e procedurali, che costituiscono un codice di condotta, che specifica circostanze e limiti dell’uso della forza e che devono essere applicate dal personale militare in una determinata missione in Teatro d’operazioni. Ciò che è certo è, però, che le regole d’ingaggio hanno natura amministrativa, non possono derogare la legge e, qualora siano in contrasto con la legge penale, non possono essere considerate come una causa di giustificazione, potendo essere al massimo valutate come una circostanza attenuante e non potendo comunque prevedere un uso della forza più elastico rispetto a quello consentito dalla normativa penale in materia di uso legittimo di armi, legittima difesa individuale, etc. Tanto premesso, non v’è dubbio che l’esigenza di una revisione organica della materia sia improrogabile.