Quando lavorare non basta: la povertà lavorativa nei paesi Ocse

povertà lavorativa

La povertà lavorativa ha assunto un’importanza crescente negli ultimi venti anni, coinvolgendo un numero sempre maggiore di lavoratori e intensificandosi a causa dell’aumento dei prezzi al consumo, che ha colpito in particolare i paesi dell’Ocse e l’Unione europea. Nonostante una riduzione generale del livello di disoccupazione, la “nuova” occupazione è sempre più caratterizzata da precarietà e insicurezza. L’Ue, per identificare la “povertà lavoritava” ha introdotto nel 2005 l’indicatore In-work at-risk-of-poverty rate, che calcola la percentuale di lavoratori occupati per almeno sette mesi all’anno in famiglie il cui reddito è inferiore alla soglia di povertà, fissata al 60% del reddito disponibile medio. Tuttavia, questa misura può sottostimare il fenomeno, escludendo i lavoratori con contratti saltuari e precari. Inoltre, l’uso del nucleo familiare come unità di misura per la soglia reddituale può nascondere altre criticità sociali, come la discriminazione di genere e gli squilibri generazionali.

In Italia le retribuzioni dal 2000 al 2020 sono diminuite del 3,6%, un fenomeno quasi unico tra i paesi dell’Ue

Secondo l’Ocse, tra il 2000 e il 2020, le retribuzioni medie annue a prezzi costanti sono aumentate in Germania del 17,9%, in Francia del 17,5%, in Lussemburgo del 153,3%, nei Paesi Bassi del 12,3% e in Austria dell’11%. In Italia, invece, le retribuzioni sono diminuite del 3,6%, un fenomeno unico tra i paesi dell’Ue, con l’eccezione di Spagna e Grecia, dove si sono registrate rispettivamente contrazioni dell’1,1% e del 0,2%. Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2023, una dinamica inflattiva sostenuta dai prezzi dei beni energetici e, in misura minore, dai beni alimentari, ha peggiorato ulteriormente la situazione.

I lavoratori a termine sono passati da 1,5 milioni nel 1990 a oltre 3 milioni nel 2022, quasi la metà ha contratti inferiori a sei mesi

In Italia, tra il 2000 e il 2022, i lavoratori con occupazioni “standard” (dipendenti a tempo indeterminato e autonomi con dipendenti) sono scesi dal 65% al 59,9%. I contratti a termine e le occupazioni saltuarie sono diventati sempre più comuni, con il numero di lavoratori dipendenti a termine passato da 1,5 milioni nel 1990 a oltre 3 milioni nel 2022, fra i quali quasi la metà con contratti inferiori a sei mesi. La diffusione della contrattazione di prossimità, soprattutto dopo le crisi economiche del 2008 e del 2011, ha spesso nascosto il fenomeno dei cosiddetti “contratti pirata”, ovvero accordi stipulati da organizzazioni sindacali e datoriali non rappresentative, che promuovono retribuzioni più basse rispetto a quelle previste dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro.

La povertà lavorativa in Italia coinvolge il 12% degli occupati 

Nel 2022, il 12% dei lavoratori italiani rientravano nella categoria di working poor, guadagnando meno di 11.500 euro netti all’anno, percentuale superiore di circa quattro punti rispetto a Germania e Francia e di due punti rispetto alla media dell’Ue e si concentra in alcune categorie sociali specifiche (stranieri, bassi livelli di educazione, famiglie con uno o più minori). Secondo l’Istat, nel 2022 oltre 5,6 milioni di persone in Italia vivevano in povertà assoluta, pari al 9,7% della popolazione, corrispondente a 2,18 milioni di famiglie, dato è in aumento rispetto al 9,1% del 2021, influenzato anche dall’inflazione che ha ridotto il potere d’acquisto. La proliferazione dei contratti di lavoro a termine e delle occupazioni saltuarie ha contribuito a determinare questa situazione: alla fine del 2023, l’Italia ha registrato un livello record di 23,7 milioni di occupati, con un tasso di occupazione del 61,9%, ancora inferiore rispetto a Germania (77,5%), Francia (68,7%) e Spagna (65,8%); tuttavia, delle nuove assunzioni nel 2023, solo il 16,5% rappresentava contratti a tempo indeterminato, mentre il 44,3% erano a tempo determinato, il 14% stagionali e il 12% in somministrazione.

*Marco Marucci, ricercatore Eurispes e CNR-Ircres.

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