La televisione accesa è diventata la radio accesa del dopoguerra: intervista a Francesco Siliato

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La televisione è stata la finestra sul mondo di un Paese che era costretto a casa dalla pandemia, e ciò ha modificato e rinsaldato i rapporti tra tv generalista e pubblico, aprendo soprattutto il Servizio Pubblico alla fascia degli spettatori più giovani. Dialoghiamo di pubblico televisivo, audience e informazione con Francesco Siliato, sociologo, socio fondatore e partner dello Studio Frasi. 

Professore, partiamo dai numeri. Con le misure di lockdown, milioni di italiani si sono trovati giocoforza a casa, e ciò si è tradotto in una crescita rilevante dell’audience televisiva, in particolare della fascia di prime time. Le analisi del vostro Studio segnalano che l’ascolto di prima serata è cresciuto di 2,2 milioni (+9,5 rispetto al 2019), il doppio rispetto all’aumento complessivo delle reti durante l’intera giornata. Se guardiamo ai Tg del prime time delle reti generaliste, l’aumento è stato sensibilmente ancora più significativo. Nei primi mesi della pandemia si è tornati agli ascolti di 10-11 anni fa, quando un pubblico serale di più di 20 milioni di telespettatori non era una rarità, bensì la norma … A che cosa si deve una crescita tanto pronunciata?

Innanzitutto al lockdown, all’obbligo di restare a casa in momenti della giornata in cui questo non era previsto. Gli ascolti sono infatti cresciuti in tutte le fasce orarie . Le persone hanno “approfittato” della compagnia della tv durante la lunga permanenza in casa. Gli spettatori avrebbero potuto fare tante altre cose, distrarsi con altri passatempi, studiare… e certamente lo avranno anche fatto, ma, in primo luogo, hanno acceso la televisione e sono rimasti lì ad ascoltarla, e seguirne soprattutto le trasmissioni informative. La pandemia ha reso indispensabile informarsi sugli andamenti dei contagi e le decisioni delle istituzioni.  

In questo quadro la tv generalista ha semplicemente beneficiato di questa “fame di informazione”, o ha avuto anche un ruolo attivo?

Come dicevo, gli spettatori potevano fare tante altre cose anziché starsene seduti davanti alla tv generalista, basta pensare a quanto è cresciuta l’offerta dei canali della pay tv  e delle Ott. Se i maggiori ascolti sono andati alla tv generalista e perché questa se li è “meritati”. Di fronte all’onda dell’emozione c’è stato una sorta di riflesso condizionato che ha orientato verso le reti più “consolidate” e “istituzionali”, tant’è che Rai 1 è quella che ne ha maggiormente guadagnato. Probabilmente la qualità che viene riconosciuta alla tv generalista  è proprio il suo essere istituzionale e alla portata del più vasto pubblico.

Alcuni studiosi hanno parlato del riemergere di una “platea comune”, di uno scenario in cui le consolidate differenze di età, reddito e cultura sono state superate. Questa grande attrazione esercitata dai media più tradizionali costituisce, forse, il riconoscimento della loro maggiore attendibilità, rispetto alle notizie circolate sui social network. La tv è riuscita, questa volta, a limitare la circolazione delle fake news.

Nella maggior parte dei casi si è mostrata più credibile, dissociandosi dalla confusa comunicazione via social. Anche per questo, la televisione ha riguadagnato, grazie alla pandemia, una centralità che si pensava perduta, tornado ad occupare il ruolo cardine nel sistema informativo nazionale: un ruolo che non si riteneva più possibile nello scenario informativo occupato da piattaforme come Facebook, Twitter e Instagram.

Un risultato scontato?

No, non era detto che accadesse. Saremmo tutti potuti restarcene sui social, o impiegare il nostro tempo su altri personal media. Ma quando è venuto il momento di informarsi, di “sapere”, s’è fatto ricorso alla tv. In questo senso, io penso che per la televisione sia un segno di debolezza scimmiottare i social. Talvolta lo fa, forse perché si sente “antica”, e pensa di potersene servire per ringiovanirsi. Ma così facendo concede troppo spazio, e se talvolta li cita perché “li deve” citare, altre volte lo fa a sproposito, attribuendo loro un’importanza che in realtà è assai minore.

Quali sono le riflessioni che il Servizio Pubblico può trarre da questa esperienza?

Il Servizio Pubblico deve prestare attenzione alla rinnovata centralità ed importanza che questo “nuovo” pubblico gli ha assegnato. Una grande platea fatta di giovani e meno giovani che gli ha riconosciuto un ruolo determinante, che si dovrebbe accompagnare ad una responsabilità enorme. Credo che il Servizio Pubblico, tanto nei telegiornali che nei talk, debba tenerne conto. È una responsabilità ereditata dai decenni passati, un riconoscimento istituzionale che richiede un forte impegno affinché sia pienamente meritato e mantenuto. Analizzando le tipologie dell’intero anno, una ricerca dello Studio Frasi ha messo in evidenza la grande differenza tra l’offerta del Servizio Pubblico e quella delle private .

Uno degli elementi più interessanti che emerge sia dall’analisi dell’Osservatorio Eurispes–Coris della Sapienza, sia dalle rilevazioni dello Studio Frasi, è la modifica nelle fasce d’età dei consumatori di tv generalista, con una maggiore crescita che riguarda la fascia dei più giovani, tra i 20 e i 24 anni. Con la pandemia una parte del pubblico più giovane è tornato a guardare i telegiornali…

Sì, sono stati i giovani a far salire gli ascolti in modo così considerevole. Non solo i giovani 15-19 e 20-24, ma anche la più corposa fascia dai 25 ai 44.

I complessivi aumenti di ascolto non hanno riguardato gli over 60, ovvero il tradizionale target di riferimento delle reti generaliste.

No. Questo pubblico c’era già. La crescita per questa fascia è stata quindi limitata rispetto a quella del pubblico più giovane, che prima era assente e, in particolare, poco attratto dai telegiornali. Quindi gran parte di questa ritrovata energia è stata dovuta ai giovani. Anche per questo, il Servizio Pubblico  – in particolare le redazioni dei Tg Rai – deve caricarsi di nuove responsabilità e far salire il loro indice di coesione sociale mostrandosi in grado di interessare anche i giovani facendoli crescere senza cedere alle loro debolezze.

Quale strategia dovrebbe adottare l’informazione televisiva per fidelizzare l’audience giovanile?

È scontato che questo pubblico in buona parte si disperderà. Dobbiamo comunque chiederci se un ritorno alla “normalità” consisterà in un ritorno al passato nell’offerta. Anche quando i ragazzi torneranno a scuola, per tutti quelli che faranno dad e per i giovani in smartworking, la televisione potrà restare un elemento di compagnia. Oggi un televisore acceso non vuol dire che ci sia sempre qualcuno seduto su di un divano. Questo è stato uno dei grandi cambiamenti che ha già interessato la televisione: la tv è un medium che accompagna le nostre vite, ma si segue anche mentre si svolgono altre attività: mangiare, leggere, stirare, pulire o altro. Questa attitudine a guardare la televisione mentre si fa qualcos’altro è aumentata ed è diventata parte della quotidianità. Su questo fronte, le fasce più giovani erano già “dual screen”, cioè sedevano davanti alla tv con in mano lo smartphone, con cui possono chattare con altri, giocare, e, sempre più, parlare di quello che stanno seguendo in tv. Per dirne una, l’anno scorso l’evento che ha generato più traffico sui social è stato il Festival di Sanremo, ed il personaggio più trattato la compagna di Ronaldo, che vi partecipava. L’esperienza della pandemia e il coinvolgimento di più ampie fasce giovanili deve far riflettere.

Quindi la televisione non potrà che proseguire con questo processo di ibridazione con i social, mantenendo però anche per i giovani un ruolo rilevante?
 

La tv accesa è diventata la radio accesa del dopoguerra. Di questo c’è poca consapevolezza. Uno schermo acceso non vuole più dire una persona seduta sul divano che non fa altro, ma può rappresentare anche solo una voce di compagnia. Ciò non vuol dire che si sia distratti… ciascuno rimane attento a selezionare ciò che gli interessa, come emerge da tempo nelle ricerche del nostro Studio sulla pubblicità.

Si assiste, però, anche al ritorno davanti agli schermi dei “nuclei familiari”…

Si è tornati in una importante quota ad una platea unificata, e ciò deve interessare in primo luogo il Servizio Pubblico, cui il Contratto di Servizio affida il compito di creare coesione sociale. La pandemia ha generato nuove esigenze di coesione sociale. I gruppi familiari si sono riuniti in soggiorno per vedere insieme la televisione, sia i programmi d’informazione sia quelli d’intrattenimento. Penso anche solo al seguito che ha avuto “L’anno che verrà” su Rai 1, che ha raggiunto il 33% dello share di prime time… Coesione sociale significa tenere insieme più target contemporaneamente e non perché siano tutti d’accordo. Significa ascolto, commento informato e il più consapevole possibile.

Passando ad uno specifico tema di particolare rilevanza anche nei mesi della pandemia, con il varo del Recovery plan e la mutualizzazione del debito l’informazione di prime time ha vissuto una sorta di innamoramento nei confronti di Bruxelles. Questa pandemia ci ha reso realmente tutti più europei?

Sicuramente siamo più europei, ma anche più cittadini del mondo. È il mondo ad avere il Covid-19. Ci sarà probabilmente qualche passo indietro, ma mi è difficile immagine un ritorno a posizioni come “è colpa dell’Europa” o “ce lo chiede l’Europa”. Da questo punto di vista anche l’informazione mainstream ha compiuto passi decisivi.

E rispetto alla percezione della vita pubblica, della politica, cosa è cambiato?

La comunicazione istituzionale ha acquisito un’enorme importanza. Per la prima volta, nella classifica dei programmi più visti nel corso di un anno, a svettare sono stati gli interventi della politica e delle figure della società italiana. Penso agli interventi del Presidente della Repubblica, o del premier sui vari Dpcm. Oppure, le immagini straordinarie di Papa Francesco, solo di Venerdì Santo in quella Piazza San Pietro vuota, bagnata dalla pioggia. In termini di ascolti, per dirne una, il Presidente Sergio Mattarella ha raccolto 15 milioni di telespettatori per il suo discorso di fine anno: il 60% di share, +5 milioni rispetto al 2019, numeri mai prima riscontrati.

Tutti elementi di una grande “narrazione collettiva”?

Sì. Una narrazione con cui i media hanno accompagnato le sensibilità diffuse tra le persone. È sicuramente cambiato anche il modo in cui è stata vissuta la pandemia tra la prima e la seconda fase. I balconi e i cittadini che cantavano a marzo scorso, oggi non esistono più. C’è una differenza notevole tra le due fasi, e questa differenza non è solo dovuta ai media, ma al sentimento delle persone, e alla fatica nel gestire per lungo periodo una grande pressione ed enormi difficoltà.

La fatica della routine quotidiana e le limitazioni giornaliere, con l’aggravarsi della crisi economica, hanno cominciato ad erodere il senso di comunità che ha caratterizzato i mesi primaverili.

Diciamo che è cambiata la percezione del “sé”. Nella prima fase, questo sé era più incline a cogliersi come partecipe di un evento collettivo. Nella seconda fase, con l’accavallarsi di difficoltà e tensioni, la dimensione dell’egoismo ha cominciato ad avere più peso. Di questo non possiamo addossare la responsabilità ai media. I media, semmai, hanno moderato le reazioni più istintive e contribuito a riproporre, almeno in parte, una prospettiva di cittadinanza. C’è da augurarsi che continuino a svolgere questa funzione, trascurando gli interessi particolari .

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