È la mancanza di infrastrutture il primo freno alla crescita del Paese. Lo Stato spende meno di 20 miliardi di euro l’anno, mentre a livello locale le risorse si sono dimezzate. Opere pubbliche che già nascono in ritardo e poi magari si bloccano, perché mal concepite, perché appesantite da costi ulteriori. C’è un dato che ci fa arrossire di vergogna di fronte all’Europa e al mondo: il tempo medio dei lavori, per realizzare le infrastrutture di maggiori dimensioni, è di 15 anni e 7 mesi, e tende a crescere. Eppure, il Ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha fatto sapere che le risorse economiche ci sono e che oltre 100 miliardi di euro sono immediatamente spendibili.
Bisogna fare in modo di metterli a frutto. L’Italia non ha bisogno oggi di lunghe soste ai box, per rubare un’espressione alle gare di Formula 1, ovvero di grandi riforme che poi tardano a dare i loro frutti, quanto, piuttosto, di veloci “pit stop”, di interventi mirati, spesso nemmeno legislativi, per cogliere la ripresa e ripartire. Il recente progetto dell’Eurispes per creare a Palermo il più grande porto Hub del Mediterraneo, rilanciando un tratto di costa oggi degradata in cui esiste persino un divieto di balneazione, è un esempio della direzione pratica, operativa che occorre battere, oltretutto con risorse in gran parte private: si creerebbero 435mila posti di lavoro, con un ritorno economico enorme, visto che il venti per cento circa del traffico mondiale passa per il “Mare Nostrum”. Un altro strumento è costituito dalle Zes, le Zone economiche speciali, che offrono la possibilità di realizzare infrastrutture nei porti del Mezzogiorno, accordando vantaggi fiscali: siamo il primo Paese dell’Unione ad averlo adottato, facciamolo partire davvero.
Le grandi riforme, che hanno creato confusione e lunghe soste ai box, sono sotto gli occhi di tutti. Quella delle Province, ad esempio. Quattro anni fa, quando venne varata, si disse che avrebbe consentito 3 miliardi di euro di risparmi. A conti fatti, pare che siano oggi meno di 300 milioni. Nel contempo, quasi ovunque sono peggiorati i servizi che queste istituzioni davano ai cittadini, perché il passaggio crea traumi, nuove norme, occupati che prima facevano un lavoro e che adesso vanno spostati, altri che acquisiscono un nuovo lavoro e non sanno che pesci pigliare. Forse si è partiti dalla banale considerazione che, avendo le Province 12 miliardi di uscite, abolendole ne avremmo tratto un vantaggio. Senza pensare che quelle uscite erano per la manutenzione di 135mila chilometri di strade, per la gestione di 6mila scuole e tanto altro ancora.
Un’altra grande riforma che è crollata all’improvviso è stata quella della dirigenza pubblica, proposta nell’agosto del 2015 dopo un iter lunghissimo, da Marianna Madia, con grande clamore mediatico. Con un colpo di bacchetta magica ci prometteva una burocrazia veloce e capace, incarichi a tempo, quattro anni più due al massimo, stipendio decurtato per chi alla fine non fosse stato assunto da una amministrazione e retrocessione a funzionario come unica possibilità per evitare il licenziamento. Istituiva addirittura il “ruolo unico” in base al quale un dirigente di Canicattì poteva diventare direttore generale dell’Economia. Sabino Cassese scrisse che la riforma, per andare a regime, avrebbe avuto bisogno di cinque anni. Non ce ne è stato bisogno: è naufragata nel tardo autunno del 2016 quando la ministra ha fatto un passo indietro e non sono stati approvati i decreti attuativi.
Come si sarebbe dovuto invece intervenire, nella logica dei veloci “pit stop”, e non delle lunghe soste ai box? Nel seguente modo. Individuiamo un unico obiettivo: le norme sui premi di risultato. È assurdo che i dirigenti italiani, che hanno guadagni sensibilmente superiori ai colleghi europei e un’efficienza mediamente assai più bassa, godano tutti di tali premi, e nella misura tendente al massimo. Istituiamo dei premi selettivi, che riconoscano davvero il merito. Andiamo a vedere come fanno in Francia, nel Regno Unito, nella Penisola Scandinava, prima di mettere schiere di Azzeccagarbugli al lavoro. Proprio dai premi di risultato vuol partire Giulia Bongiorno, ministro della Funzione Pubblica del governo Conte. Le facciamo sinceri auguri, avvisandola che però, nel frattempo, il sindacato ‘ha rubato il pallone’: con un accordo siglato nel 2016 con il governo di allora ha inserito questi premi nell’ambito della contrattazione collettiva.
“Pit stop”, dunque, per far ripartire l’Italia. Con un consiglio: non lasciamo campo libero ai giuristi e alle burocrazie. Mandiamo piuttosto i nostri dirigenti migliori (che doverosamente conoscano la lingua inglese) in veloci missioni nei paesi più efficienti, per imitare i loro modelli. I giapponesi hanno fatto lo stesso, venendo a copiare la nostra industria automobilistica, negli anni del “Miracolo economico”. E sappiamo bene com’è andata a finire.